ISSN 2385-1376
Testo massima
Il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, di decreto di esecutorietà ex articolo 647 del cpc non è passato in cosa giudicata formale e sostanziale, né può più acquisire tale valore con un successivo decreto di esecutorietà per mancata opposizione, poiché, intervenuto il fallimento, ogni credito, secondo quanto prescrive l’articolo 52 della legge fallimentare, deve essere accertato nel concorso dei creditori, secondo le regole stabilite dagli articoli 92 e seguenti della legge fallimentare, in sede di accertamento del passivo.
È questo il principio enunciato dalla Corte di Cassazione, sezione prima, con la sentenza n.1650 del 27/01/2014, chiamata a pronunciarsi sull’opponibilità alla curatela fallimentare del decreto ingiuntivo notificato e non opposto prima del fallimento del debitore, al quale però manchi il provvedimento di esecutività ex art.647 cpc.
Nel caso di specie, una banca otteneva decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo, in seguito al quale iscriveva ipoteca legale e dava inizio all’esecuzione forzata. Successivamente dichiarato il fallimento della debitrice, la stessa banca proponeva domanda di ammissione allo stato passivo del credito con privilegio ipotecario, depositando il provvedimento monitorio, non opposto dalla debitrice.
Ebbene il Tribunale, adito ai sensi dell’art. 98 legge fallimentare, respingeva l’opposizione, deducendo la mancata prova della definitività del decreto ingiuntivo.
Contro tale provvedimento la banca proponeva ricorso in Cassazione lamentando che il tribunale errava nell’aderire alla tesi della inopponibilità al fallimento del decreto ingiuntivo non dichiarato definitivo prima della sentenza di fallimento, pur quando il decreto di esecutività esisteva, anche se emesso dopo la sentenza dichiarativa.
I Giudici di legittimità, tuttavia, hanno confermato la decisione del Tribunale, sulla base del consolidato principio secondo il quale il decreto ingiuntivo, non dichiarato esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c., non ha efficacia di giudicato formale e sostanziale ed è inopponibile alla procedura fallimentare, determinando la sopravvenuta dichiarazione di fallimento del debitore l’inopponibilità alla massa dei creditori concorsuali del decreto ingiuntivo in precedenza emesso, se, all’epoca del fallimento, non sia intervenuta ancora la dichiarazione di esecutorietà di cui alla norma menzionata. Pertanto, il creditore opposto deve partecipare al concorso con gli altri creditori, previa riproposizione della domanda di ammissione al passivo fallimentare, con i conseguenti oneri probatori.
Alla luce di tali considerazione la Corte ha rigettato il ricorso condannando la ricorrente al rimborso delle spese di lite.
COMMENTO
Il creditore che vuole conseguire l’ammissione al passivo in virtù di un decreto ingiuntivo non opposto, deve provare la definitività del provvedimento e cioè il passaggio in giudicato.
Il modo più facile e logico è rappresentato della produzione del certificato di non prodotta opposizione al fine di superare supera ogni possibile contestazione.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 14510-2012 proposto da:
BANCA S.C.P.A. (C.F. (OMISSIS)), in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL TRITONE 102, presso l’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
FALLIMENTO S. S.R.L. (p.i. (OMISSIS)), in persona del Curatore dott. M.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CERESIO 85, presso l’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso il decreto del TRIBUNALE di TREVISO, depositato il 30/05/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/11/2013 dal Consigliere Dott. LOREDANA NAZZICONE;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato (OMISSIS)che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito, per il controricorrente, l’Avvocato (OMISSIS) che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
La Banca soc. coop. a r.l. ha ottenuto decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo in data 8 ottobre 2007 avverso la S. s.r.l., in seguito al quale ha iscritto ipoteca legale e iniziato l’esecuzione forzata.
Dichiarato il fallimento della debitrice il 10 giugno 2011, la banca ha proposto domanda di ammissione allo stato passivo del credito di Euro 641.391,38 con privilegio ipotecario, depositando il suddetto provvedimento monitorio, non opposto dalla debitrice.
Al decreto ingiuntivo peraltro solo il 19 agosto 2011, dopo la sentenza di fallimento, è stato apposto dal giudice il visto di definitività per non proposta opposizione.
Il giudice delegato ha escluso l’importo di Euro 609.336,28, in quanto fondato su decreto ingiuntivo non opponibile al fallimento perchè privo del visto di definitività ex art. 647 c.p.c. emesso prima della sentenza dichiarativa, escludendo altresì alcune spese per la somma di Euro 20.935,86 e riconoscendole per Euro 11.659,24 ex art. 2770 c.c..
Il Tribunale di Treviso, adito ai sensi dell’art. 98 legge fall., con il decreto del 30 maggio 2012 ha respinto l’opposizione, anche con riguardo alla domanda subordinata di ammissione del credito in via chirografaria.
Disattesa l’istanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale ed alla Corte di giustizia UE, il tribunale ha richiamato la giurisprudenza costante di legittimità, secondo cui il decreto ingiuntivo acquista efficacia di giudicato sostanziale solo a seguito della dichiarazione di esecutività ai sensi dell’art. 647 c.p.c. e, dunque, resta inopponibile alla massa dei creditori concorsuali se non dichiarato esecutivo, con il decreto di cui alla citata norma, prima della sentenza di fallimento, maturando altrimenti la preclusione di cui all’art. 45 legge fall.; ha escluso, di conseguenza, le spese relative al decreto ingiuntivo non opponibile.
Ha respinto la domanda subordinata della banca di ammissione del credito in via chirografaria, non ritenendo a tal fine idonea l’attestazione ex art. 50 t.u.b. ed un saldaconto contenente il mero dato contabile inerente il saldo dei rapporti di conto corrente, senza alcun riferimento all’andamento dei rapporti dare-avere ed alle somme che compongono il credito vantato.
La Banca soc. coop. a r.l. ha chiesto, sulla base di cinque motivi, la cassazione del decreto e l’ammissione in via privilegiata ipotecaria anche del credito di Euro 609.336,28, ai sensi dell’art. 384 c.p.c.; in subordine, la rimessione alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato FUE, della questione di conformità agli art. 20 e 47 della Carta degli artt. 2704 e 2907 c.c., art. 647 c.p.c., artt. 45 e 98 legge fall., con riguardo al principio della parità di trattamento e al diritto ad un ricorso effettivo, laddove escludono sia possibile accertare che il decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo è divenuto definitivo sebbene non apposta, prima del fallimento, l’attestazione ex art. 647 c.p.c..
Si è costituito il Fallimento S. s.r.l., instando per l’inammissibilità del ricorso ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, in quanto vertente su questioni di diritto decise dal giudice del merito in piena conformità alla consolidata giurisprudenza di legittimità, senza l’allegazione di elementi idonei a mutarne l’orientamento, e per il rigetto dello stesso.
Nel giugno 2013, la ricorrente ha presentato istanza di rimessione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 374 c.p.c. della questione di massima di particolare importanza, relativa alla interpretazione dell’art. 647 c.p.c. in relazione al fallimento del debitore; ha rilevato, altresì, il contrasto fra le pronunce delle sezioni semplici che affermano come anche il decreto ingiuntivo sia passibile di giudicato sostanziale (n. 11360 del 2010, n. 18791 del 2009) ed il giudicato delle sentenze è rilevabile d’ufficio (n. 6326 del 2010, n. 26689 del 2009) con l’orientamento dalla banca criticato.
Le parti hanno depositato le memorie.
Motivi della decisione
1. – Contro la sentenza resa dal tribunale è proponibile il ricorso diretto per cassazione, essendo stato dichiarato il fallimento il 10 giugno 2011, successivamente quindi alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 5 del 2006 il 16 luglio 2006 (Cass., sez. 1, 27 dicembre 2011, n. 28885).
2. – Con il PRIMO MOTIVO, la ricorrente deduce l’omessa pronuncia su punto decisivo della controversia e la motivazione solo apparente, ai sensi dell’art. 112 c.p.c. e art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per non avere il tribunale valutato se l’art. 647 c.p.c. possa venire interpretato in modo conforme al diritto costituzionale e comunitario.
Con il SECONDO MOTIVO, deducendo la violazione degli artt. 3 e 24 Cost., artt. 45 e 96 della legge fall., art. 647 c.p.c. e art. 2909 c.c., essa lamenta che il tribunale abbia errato nell’aderire alla tesi della inopponibilità al fallimento del decreto ingiuntivo non dichiarato definitivo prima della sentenza di fallimento, pur quando il decreto di esecutività esista, ma sia stato emesso dopo la sentenza dichiarativa, proponendo la ricorrente argomenti affinchè questa Corte di legittimità muti il proprio orientamento ed aderisca, invece, all’opinione secondo cui l’accertamento della mancata opposizione possa avvenire anche dopo la sentenza dichiarativa di fallimento, purchè prima di essa sia decorso il termine per l’opposizione al decreto ingiuntivo. Il contrasto della prima tesi, sinora accolta anche in Cassazione, con l’art. 3 Cost. risiederebbe nella irragionevolezza di una presunta tutela della massa creditoria non da un atto fraudolento, ma da un provvedimento giudiziario, sia pure intervenuto dopo la sentenza di fallimento;
nonchè nella disparità di trattamento rispetto ai crediti assistiti da sentenza non passata in giudicato, pronunziata prima della dichiarazione di fallimento, che sono ammessi con riserva ai sensi dell’art. 96, comma 2, n. 3, legge fall., con ulteriore pregiudizio del diritto di difesa ex art. 24 Cost. dei creditori muniti, invece, solo del titolo monitorio. La tesi si porrebbe in contrasto anche con l’art. 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che sancisce il principio di uguaglianza davanti alla legge, e con l’art. 47 di essa, che sancisce il diritto ad un ricorso effettivo, il quale ricomprende quello di poter provare i fatti (nella specie, il passaggio in giudicato del decreto ingiuntivo) a sostegno della domanda.
Con il TERZO MOTIVO, deduce l’omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c. e art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in quanto il giudice del merito si sarebbe limitato ad affermare che l’estratto ex art. 50 t.u.b. e il saldo conto non fossero idonei a provare il credito, senza rispondere alla censura, rivolta al provvedimento del g.d., di avere escluso parte delle spese della fase monitoria ed esecutiva senza motivazione.
Con il QUARTO MOTIVO, deducendo la violazione dell’art. 115 c.p.c., la ricorrente lamenta che il tribunale abbia omesso di esaminare tutti i documenti allegati a prova del credito nel fascicolo dell’opposizione allo stato passivo.
Con il QUINTO MOTIVO, deduce il vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “anche in relazione all’art. 1832 c.c.”, per avere il decreto impugnato reputato inidonei gli estratti relativi ad un conto corrente chiuso da anni, invece ormai inoppugnabili.
3. – Il primo motivo è inammissibile.
La questione di legittimità costituzionale di una norma, in quanto strumentale rispetto alla domanda che implichi l’applicazione della norma medesima, non può invero formare oggetto di un’autonoma istanza, rispetto alla quale, in difetto di esame, sia configurabile un vizio di omessa pronuncia; mentre la questione stessa, ancorchè non esaminata dal giudice inferiore, resta deducibile e rilevabile nei successivi stati e gradi del giudizio che sia validamente instaurato, ove rilevante ai fini della decisione (Cass. 11 dicembre 2006, n. 26319; ord., 16 luglio 2005, n. 15092; 18 febbraio 1999, n. 1358; v. pure 22 luglio 2010, n. 17224).
Lo stesso è a dirsi con riguardo alla richiesta di rimessione degli atti alla Corte di Lussemburgo, dal momento che, come parimenti ritenuto (Cass. 10 marzo 2010, n. 5842), la richiesta di rinvio su questione pregiudiziale di interpretazione del diritto comunitario, in applicazione dell’art. 267, già 234, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, non è configurabile come autonoma domanda, rispetto alla quale, nel caso di omessa specifica pronuncia, possa farsi questione del rispetto del principio di cui all’art. 112 c.p.c., ponendo tale richiesta una questione di diritto preliminare alla decisione sulla domanda di merito proposta dalla parte.
Neppure l’allegata carente o tautologica motivazione, pertanto, in ordine al mancato rilievo dell’esigenza di una rimessione pregiudiziale è sufficiente ad integrare il vizio denunciato.
4.1. – Il secondo motivo, che involge il nucleo della pronuncia richiesta alla Corte di legittimità, insta per il mutamento dell’orientamento, costantemente affermato dalla stessa, circa l’inopponibilità al fallimento del decreto ingiuntivo non dichiarato definitivo prima della sentenza di fallimento: esso propone la questione se, emesso e non opposto decreto ingiuntivo nei confronti di soggetto poi fallito, il titolo sia opponibile al fallimento – secondo il principio affermato sinora da questa Corte della nomofilachia – soltanto ove dichiarato esecutivo ex art. 647 c.p.c. in data anteriore alla sentenza dichiarativa del fallimento.
In punto di fatto, il decreto ingiuntivo, che la banca pone a fondamento del proprio credito, secondo le allegazioni di parte è munito del decreto di esecutorietà, che fu pronunciato dal giudice del Tribunale il 19 agosto 2011, quindi dopo il fallimento, dichiarato il 10 giugno 2011.
La ricorrente sollecita, pertanto, una rilettura di tale orientamento, argomentando in senso contrario con riguardo all’insussistenza di un’effettiva distinzione tra giudicato in senso formale ed in senso sostanziale; al valore di giudicato sostanziale del decreto ingiuntivo non opposto, come tale rilevabile anche d’ufficio e dimostrabile con ogni mezzo; all’estensibilità del disposto dell’art. 96, comma 2, n. 3, legge fall., che ammette al passivo con riserva il credito in forza di sentenza non passata in giudicato; all’inapplicabilità dell’art. 2704 c.c. e art. 45 legge fall., che non riguardano il fatto storico dell’accertamento della definitività del decreto ingiuntivo; all’irragionevolezza e disparità di trattamento, ai sensi dell’art. 3 Cost., dell’opposta tesi, in quanto la massa va protetta dagli atti fraudolenti mentre, nel caso di specie, l’attestazione del tribunale esiste, sebbene successiva al fallimento, con ingiustificata differenziazione rispetto al credito accertato con sentenza e possibilità, quindi, di una lettura costituzionalmente orientata del sistema normativo richiamato.
Il motivo non può essere accolto.
4.2. – Questa Corte di legittimità afferma in modo costante ed in termini generali che il decreto ingiuntivo, non dichiarato esecutivo ai sensi dell’art. 647 c.p.c., non ha efficacia di giudicato formale e sostanziale ed è inopponibile alla procedura fallimentare, determinando la sopravvenuta dichiarazione di fallimento del debitore l’inopponibilità alla massa dei creditori concorsuali del decreto ingiuntivo in precedenza emesso, se, all’epoca del fallimento, non sia intervenuta ancora la dichiarazione di esecutorietà di cui alla norma menzionata. Pertanto, il creditore opposto deve partecipare al concorso con gli altri creditori, previa riproposizione della domanda di ammissione al passivo fallimentare, con i conseguenti oneri probatori.
Ciò si è affermato, allorchè il debitore in bonis aveva già proposto opposizione ex art. 645 c.p.c. (Cass. 12 febbraio 2013, n. 3401; 3 gennaio 2013, n. 38; 13 febbraio 2012, n. 2032; ord. 23 dicembre 2011, n. 28553; 5 novembre 2010, n. 22549; 13 agosto 2008, n. 21565; 20 marzo 2006, n. 6098, caso di l.c.a.; 1 aprile 2005, n. 6918; 23 marzo 2004, n. 5727; 23 luglio 1998, n. 7221; 22 settembre 1997, n. 9346; 25 marzo 1995, n. 3580; 1 dicembre 1994, n. 10260; 8 giugno 1988, n. 3885). Lo stesso si è affermato, allorchè mancava il decreto di esecutività ex art. 647 c.p.c., pur non essendo stato il decreto ingiuntivo opposto (17 luglio 2012, n. 12205; Cass., 13 marzo 2009, n. 6198; Cass. 26 marzo 2004, n. 6085) o mancando anche l’attestazione di cancelleria (Cass., 11 ottobre 2013, n. 23202).
4.3. – L’art. 324 c.p.c., prevede la “cosa giudicata formale”, stabilendo che “S’intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta nè a regolamento di competenza, nè ad appello, nè a ricorso per cassazione, nè a revocazione per i motivi di cui all’art. 395, nn. 4 e 5”.
A “prova del passaggio in giudicato della sentenza”, poi, l’art. 124 att. c.p.c. contempla il “certificato di passaggio in giudicato della sentenza”, col quale il cancelliere certifica, in calce alla copia contenente la relazione di notificazione, che non è stato proposto, nei termini di legge, appello, ricorso per cassazione o istanza di revocazione ordinaria per i motivi di cui all’art. 395 codice, nn. 4) e 5); il cancelliere certifica in calce alla copia della sentenza, parimenti, che non è stata proposta alcuna delle dette impugnazioni nel termine lungo di sei mesi ex art. 327 c.p.c..
Alla stregua, pertanto, di tale sistema, la parte che invoca il giudicato esterno deve fornirne la prova, mediante produzione di copia della sentenza corredata dalla certificazione del suo passaggio in cosa giudicata (Cass., 29 agosto 2013, n. 19883; 8 maggio 2009, n. 10623; 9 luglio 2004, n. 12770), meccanismo risponde a ragioni di certezza del diritto.
Per le sentenze, dunque, dall’esistenza della cosa giudicata formale, di cui all’art. 324 c.p.c., discende, senza soluzione di continuità, la cosa giudicata sostanziale.
4.4. – Per un superato, risalente orientamento, in base alla lettera dell’art. 2909 c.c. l’autorità del giudicato potrebbe derivare solamente dalla sentenza, mentre il decreto ingiuntivo non opposto potrebbe dar luogo solo al fenomeno di “preclusione pro iudicato” che impedisce all’ingiunto di opporsi all’esecuzione forzata e di esercitare la condictio indebiti.
A tale concezione si oppose, con assai maggior seguito, quella secondo cui il decreto divenuto definitivo va assimilato in pieno alla sentenza passata in giudicato, non essendo decisivo il dato letterale, atteso che anche altri provvedimenti sono identici nella sostanza alla sentenza, mentre nemmeno possono in contrario trarsi argomenti dalla sommarietà del procedimento e dall’assenza del contraddittorio, in quanto pure nel decreto ingiuntivo vi è l’accertamento operato dal giudice e ben può l’interessato con l’opposizione instaurare un ordinario giudizio contenzioso.
Infatti, la disciplina legislativa del procedimento d’ingiunzione tutela l’ingiunto, cui assicura, sia pure in modo differito, le garanzie quoad iustitiam di un pieno contraddittorio, prima che il provvedimento diventi definitivo, onde la dottrina individua il fondamento dell’attitudine al giudicato nell’equivalenza tra cognizione piena e libera rinuncia alla stessa. Si perviene, così, all’affermazione di una sola ed unica natura di giudicato sostanziale, coincidente con quella sancita dall’art. 2909 c.c..
L’orientamento ormai costante reputa, dunque, che il giudicato sostanziale (cui si riferisce l'”autorità del giudicato”) da decreto ingiuntivo attenga all’oggetto e ai soggetti del rapporto giuridico, che non può essere posto in discussione in un altro successivo giudizio, con ogni conseguenza (Cass., 11 maggio 2010, n. 11360, che richiama Cass., 24 marzo 2006, n. 6628; 28 agosto 2009, n. 18791; 6 settembre 2007, n. 18725; 24 luglio 2007, n. 16319; 19 luglio 2006, n. 16540; 20 aprile 1996, n. 3757).
4.5. – Nell’ambito del procedimento monitorio, il codice di rito contempla la dichiarazione di esecutività ai sensi dell’art. 647 c.p.c..
La rubrica dell’art. parla di “esecutorietà” del decreto, che in ambito processualcivilistico è equivalente a quello di “esecutività”: i termini, infatti, sono usati, in giurisprudenza, come sinonimi (e plurimis, Cass. 30 maggio 2007, n. 12731).
Come ritenuto da questa Corte (Cass., ord. 3 settembre 2009, n. 19119), nel procedimento ex art. 647 c.p.c. il giudice ha il compito di verificare se non sia possibile che, per la nullità della notifica del decreto di ingiunzione, l’intimato non ne abbia avuta conoscenza; il decreto “ha la funzione di dichiarare che, per non esservi stata tempestiva opposizione, si sono verificate le condizioni perchè esso sia divenuto non ulteriormente opponibile ed abbia acquistato esecutorietà, sì da poter fondare il diritto a procedere alla esecuzione forzata per la realizzazione coattiva del credito”.
Si tratta di un procedimento alquanto privo di formalità (l’istanza può essere anche verbale), che implica il controllo della notificazione del decreto, del decorso del termine e della mancata opposizione o costituzione nei termini.
Dato questo contenuto, il decreto di esecutorietà si distingue dalla mera attestazione di cancelleria, cui non può certamente reputarsi equivalente, sia sotto il profilo dell’organo emanante, sia sotto quello del contenuto del controllo, limitato il primo al fatto storico della mancata opposizione decorso il termine perentorio ed il secondo esteso all’accertamento della regolarità della notificazione (art. 643 c.p.c.). E tale distinzione è sottesa all’ordinanza della Corte costituzionale 28 dicembre 1990, n. 572, che dichiarò inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 647 c.p.c., in riferimento all’art. 97 Cost., nella parte in cui richiede l’adozione di un provvedimento giudiziale che dichiari l’esecutività del decreto ingiuntivo, in luogo che accontentarsi il legislatore dell’attestazione di cancelleria.
4.6. – Orbene, il punto è stabilire a quale condizione sia subordinato il dispiegarsi degli effetti “sostanziali” del giudicato monitorio, ossia quando possa dirsi compiuto il giudicato “formale”.
In alcune delle pronunce ricordate si è talvolta, nel decidere che il decreto ingiuntivo è opponibile soltanto quando il decreto di esecutorietà è stato emesso prima della dichiarazione di fallimento, argomentato distinguendo tra “giudicato formale, interno, endoprocessuale”, che si formerebbe al momento della scadenza dei termini per proporre opposizione, e giudicato sostanziale, che si formerebbe soltanto al momento della apposizione del decreto di esecutorietà ex art. 647 c.p.c. (Cass. n. 6085 del 2004, richiamata dalla n. 6198 del 2009); nonchè nel senso che è “solo con la dichiarazione di esecutività che il giudice verifica se non sia possibile che, per la nullità della notificazione del decreto di ingiunzione, l’intimato non ne abbia avuta conoscenza, e dichiara che, per non esservi stata tempestiva opposizione, si sono verificate le condizioni perchè esso sia divenuto non ulteriormente opponibile ed abbia acquistato esecutorietà, si da poter fondare il diritto a procedere alla esecuzione forzata per la realizzazione coattiva del credito” (Cass. n. 12205 del 2012).
La Corte intende dare continuità all’orientamento sinora affermato, il quale esclude l’opponibilità al fallimento del decreto ingiuntivo non opposto ma privo del provvedimento di esecutorietà di cui all’art. 647 c.p.c., con qualche precisazione.
La diversificazione sul piano temporale tra giudicato formale e giudicato sostanziale non può essere accolta (esula, ovviamente, dal tema il caso delle decisioni in rito suscettibili di giudicato formale, ma non di giudicato sostanziale).
La distinzione tra i due concetti si basa sulla disciplina dettata, da una parte, dall’art. 324 c.p.c. (la cui rubrica è intitolata “cosa giudicata formale”) e, dall’altra, dall’art. 2909 c.c. (la cui rubrica è intitolata “cosa giudicata”).
Come è evidente, e come è riconosciuto da autorevole dottrina e dalla pacifica giurisprudenza di questa Corte (Cass., 3 luglio 1987, n. 5840; 2 marzo 1988, n. 2217), non esiste alcuna contrapposizione fra cosa giudicata formale e cosa giudicata sostanziale, posto che i due concetti sono relativi a due aspetti del medesimo fenomeno.
L’art. 2909 stabilisce, infatti, gli effetti sul piano sostanziale del giudicato, presupponendo che altrove si stabilisca quando si forma il giudicato. La decisione giurisdizionale non più impugnabile con i rimedi ordinari previsti dall’art. 324 c.p.c. determina, d’altro canto, gli effetti sul piano delle certezze giuridiche, che, ai sensi dell’art. 2909 c.c., vengono definiti giudicato sostanziale.
Affermata la coincidenza temporale del giudicato formale e di quello sostanziale, si deve stabilire se il giudicato si formi al momento del decorso dei termini per proporre opposizione al decreto ingiuntivo quando questa non sia stata proposta, ovvero al momento in cui il giudice, dopo averne controllato la notificazione, dichiari esecutivo il decreto ingiuntivo.
La seconda soluzione si impone per due connesse ragioni.
In primo luogo, al momento dello scadere dei termini per l’impugnazione non vi è stato alcun controllo giurisdizionale sulla notificazione e sulla sua idoneità a provocare un contraddittorio eventuale e posticipato sulla domanda proposta con il decreto ingiuntivo. Tale controllo, invece, rappresenta un momento irrinunciabile a garanzia del diritto di difesa dell’intimato ed ha natura analoga all’imprescindibile controllo che nel giudizio a cognizione ordinaria il giudice deve necessariamente effettuare prima di dichiarare la contumacia del convenuto (artt. 164, 183 e 291 c.p.c.). Senza tale controllo sarebbe “fuori sistema” parlare di giudicato anche solo formale e vi è spazio, come si preciserà più avanti, solo per un giudicato interno, i cui presupposti, però, sono oggetto di verifica da parte del giudice nell’ambito del processo.
In secondo luogo, l’art. 647 c.p.c. prevede che, nel caso in cui non sia stata fatta opposizione nel termine, “il giudice deve ordinare che sia rinnovata la notificazione, quando risulta o appare probabile che l’intimato non abbia avuto conoscenza del decreto”. L’eventuale rinnovazione della notificazione consente perciò all’ingiunto di proporre, nei termini decorrenti dalla nuova notificazione, opposizione che va qualificata come ordinaria, ai sensi dell’art. 645 c.p.c., e non già tardiva ai sensi dell’art. 650 c.p.c.; il che conferma che alla scadenza dei termini per proporre opposizione non si forma la cosa giudicata formale e che questa si forma solo dopo il controllo del giudice sulla notificazione.
Coerentemente, l’art. 656 c.p.c. prevede che non il decreto non opposto, ma “il decreto d’ingiunzione, divenuto esecutivo a norma dell’art. 647, può impugnarsi per revocazione nei casi indicati nell’art. 395, nn. 1, 2, 5 e 6”; sono esperibili, perciò, come emerge chiaramente dal confronto con l’art. 324 c.p.c., mezzi straordinari previsti per l’impugnazione contro i provvedimenti passati in cosa giudicata, ai quali mezzi si aggiunge, per espressa previsione dello stesso art. 656, la revocazione per contrasto con precedente giudicato (art. 395, n. 5) nonchè, per l’espressa previsione dell’art. 650 c.p.c., l’opposizione tardiva (sul fatto che l’efficacia di giudicato del decreto ingiuntivo non opposto e munito di esecutorietà ex art. 647 non viene meno di per sè a seguito dell’opposizione tardivamente proposta, cfr. Cass., sez. un., 16 novembre 1998, n. 11549 e Cass. 6 ottobre 2005, n. 19429).
E’ il caso di rilevare, sul piano sistematico, che la mancata definizione del procedimento d’ingiunzione con il decreto ex art. 647 c.p.c. non rende ovviamente irrilevante il fatto che il decreto ingiuntivo non sia stato opposto nei termini. Qualora, infatti, l’intimato dovesse proporre opposizione, e non ricorressero i presupposti per una opposizione tardiva, il giudizio di opposizione, che si configura come uno sviluppo della fase monitoria, dovrebbe chiudersi, previa ancora una volta l’imprescindibile verifica della regolarità della notificazione del decreto ingiuntivo, con il rilievo d’ufficio del giudicato interno, formatosi nell’ambito dell’unitario procedimento in corso (Cass. 6 giugno 2006, n. 13252;
Cass. 26 marzo 1991, n. 3258; Cass. 3 aprile 1990, n. 2707). Il giudicato formale e sostanziale, tuttavia, si formerebbe solo con la sentenza che dichiara l’inammissibilità della opposizione, come è reso evidente dal fatto che ove il giudice dell’opposizione erroneamente non rilevasse il giudicato interno ed accogliesse l’opposizione, la sentenza, se non impugnata, sarebbe idonea a passare in cosa giudicata (Cass. 20 settembre 1971, n. 2627).
In conclusione, la funzione devoluta al giudice dall’art. 647 c.p.c. è molto diversa da quella della verifica affidata al cancelliere dall’art. 124 disp. att. c.p.c. sulla mancata proposizione di una impugnazione ordinaria nei termini di legge e dall’art. 153 disp. att. c.p.c. sulla verifica che “la sentenza o il provvedimento del giudice è formalmente perfetto”. Se ne differenzia, infatti, per il compimento di una attività giurisdizionale avente ad oggetto la verifica del contraddittorio, che, come già detto, nel processo a cognizione ordinaria ha luogo come primo atto del giudice e nel processo d’ingiunzione, ove non sia stata proposta opposizione, ha luogo come ultimo atto del giudice. La conoscenza del decreto da parte dell’ingiunto non rappresenta perciò una condicio juris che può essere accertata al di fuori del processo d’ingiunzione, eventualmente anche dal giudice delegato in sede di accertamento del passivo, ma costituisce l’oggetto di una verifica giurisdizionale che si pone all’interno del procedimento di ingiunzione e che conclude l’attività in esso riservata al giudice in caso di mancata opposizione.
Ne consegue che il decreto ingiuntivo non munito, prima della dichiarazione di fallimento, di decreto di esecutorietà ex art. 647 c.p.c. non è passato in cosa giudicata formale e sostanziale, nè può più acquisire tale valore con un successivo decreto di esecutorietà per mancata opposizione, poichè, intervenuto il fallimento, ogni credito, secondo quanto prescrive l’art. 52 L. fall., deve essere accertato nel concorso dei creditori, secondo le regole stabilite dagli artt. 92 ss. L. fall., in sede di accertamento del passivo.
4.7. – Discende, da quanto esposto, l’infondatezza manifesta della questione di legittimità costituzionale e comunitaria dalla ricorrente proposta (cfr. Cass. 12 febbraio 2013, n. 3401; 5 novembre 2010, n. 22549; 22 settembre 1997, n. 9346).
5. – I rimanenti motivi, dal terzo al quinto, denunciando il vizio di violazione di legge, di error in procedendo e di motivazione, riguardano sotto vari aspetti la prova del credito vantato. Essi sono infondati.
Quanto al terzo motivo, la non ammissione di parte delle spese richieste è stata motivata dal tribunale con la natura di esborsi “conseguenti ad un DI non opponibile al fallimento”, onde la pronuncia sul punto è stata emessa, ed il vizio denunciato di omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c. e art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non sussiste; nè la motivazione appare omessa o censurabile, posto che ricalca proprio il principio secondo cui, nel momento in cui non è opponibile al fallimento il decreto ingiuntivo, neppure le relative spese possono essere ammesse, avendo questa Corte già affermato che, ove sia mancato il decreto ex art. 647 c.p.c. prima del fallimento, resta inopponibile anche l’ipoteca giudiziale eventualmente iscritta in base al decreto provvisoriamente esecutivo ed il creditore non può ottenere l’ammissione al passivo per il credito costituito dalle spese sopportate per il giudizio monitorio e per l’iscrizione dell’ipoteca (Cass., 1 aprile 2005, n. 6918; 23 luglio 1998, n. 7221; 25 marzo 1995, n. 3580; 1 dicembre 1994, n. 10260; 8 giugno 1988, n. 3885; v. pure Cass. 5 novembre 2010, n. 22549).
6. – La censura di omesso esame dei documenti prodotti, di cui al quarto motivo, risulta affatto generica e non autosufficiente, riferendosi a tutta la documentazione dalla banca depositata in sede di giudizio di opposizione; ma, in tal modo, essa, oltre che in contrasto con il requisito dell’autosufficienza (art. 366 c.p.c.), finisce per esigere un nuovo sindacato di merito sull’efficacia probatoria dei documenti versati in giudizio, inammissibile in sede di legittimità.
Lamenta, invero, la banca che il tribunale avrebbe errato ad esaminare i documenti, avendo visionato non il “doc. 8 del fascicolo di parte opponente”, di cui al procedimento ex art. 98 l. fall., ma unicamente il documento, di pari numero, del fascicolo del ricorso monitorio. L’assunto, tuttavia, risulta smentito dalle stesse allegazioni della odierna ricorrente, la quale non afferma mai, nel ricorso, che il documento 8 del giudizio ex art. 98 l. fall., contenesse gli estratti conto, ma soltanto che, sotto tale numerazione, erano riportati i documenti “uso studio allegati all’istanza”, e precisamente “la copia del decreto ingiuntivo” e “le fatture delle spese esecutive” (p. 40 del ricorso per cassazione).
Dal suo canto, il decreto impugnato riferisce che l’istituto di credito ha prodotto soltanto “l’attestazione ex art. 50 TUB e un saldo conto nel quale viene riportato il mero dato contabile inerente il saldo dei rapporti di conto corrente”, che non permette di “ricostruire … nè l’andamento dei rapporti di dare avere nè l’esatto ammontare degli importi”.
In sostanza, il giudice del merito ha accertato che il documento – su cui la ricorrente fonda il credito, una volta non ammesso il provvedimento monitorio – consiste in un certificato contabile interno, che indica il dato complessivo ma non la sua evoluzione: ma di una critica a tale accertamento in fatto nel ricorso non vi è traccia. Pertanto, in realtà la ricorrente finisce così con il censurare che il tribunale non abbia fatto uso del potere di ritenere integrata la prova presuntiva sulla base dei diversi elementi indiziari offerti (decreto ingiuntivo, estratto ex art. 50 t.u.b., fatture): ma si tratta di potere discrezionale riservato al giudice del merito ed in questa sede insindacabile, esulando dall’ambito del giudizio di legittimità, oltre che conforme al costante orientamento il quale esclude il valore di prova del credito del saldaconto, se non indiziaria (Cass. 3 maggio 2011, n. 9695; 18 maggio 2006, n. 11749).
7. – Anche la censura, relativa al quinto motivo, di non avere il tribunale reputato idonei gli “estratti conto” è infondata: sia perchè di tali documenti, intesi come gli estratti inviati al cliente ex art. 1832 c.c., non vi è parola nel decreto impugnato, onde la ricorrente aveva l’onere di dedurre l’avvenuta proposizione della questione e di indicare dove ciò sarebbe avvenuto; sia perchè la costante giurisprudenza di questa Corte ne esclude l’efficacia probatoria nel fallimento (Cass. 26 gennaio 2006, n. 1543; Cass. 9 maggio 2001, n. 6465), affermando che l’istituto di credito, il quale prospetti una sua ragione di credito verso il fallito derivante da un rapporto obbligatorio regolato in conto corrente e ne chieda l’ammissione allo stato passivo, ha l’onere, nel giudizio di opposizione allo stato passivo, di dare piena prova del suo credito, assolvendo al relativo onere secondo il disposto della norma generale dell’art. 2697 c.c. attraverso la documentazione relativa allo svolgimento del conto, senza poter pretendere di opporre al curatore, stante la sua posizione di terzo, gli effetti che, ex art. 1832 c.c., derivano, ma soltanto tra le parti del contratto, dall’approvazione anche tacita del conto da parte del correntista, poi fallito, e dalla di lui decadenza dalle impugnazioni.
Nè il vizio di motivazione, adombrato nel quinto motivo (sebbene con improprio riferimento anche alla violazione dell’art. 1832 c.c.), può consistere nel censurare l’apprezzamento dei fatti operato dal giudice del merito.
8. – Le spese seguono la soccombenza dei ricorrenti e si liquidano come nel dispositivo, ai sensi del D.M. 12 luglio 2012, n. 140.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese di lite, nella misura di Euro 16.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre agli accessori, come per legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 20 novembre 2013.
Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2014
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