ISSN 2385-1376
Testo massima
I soci azionisti di minoranza hanno diritto a vedersi risarcito il danno conseguente alla violazione dell’obbligo di offerta pubblica d’acquisto, ex art. 106 T.U.F. ove essi dimostrino di aver perso una possibilità di guadagno a causa della mancata promozione dell’offerta.
Questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione, sez. Prima, Pres. Rel. Nappi Aniello, con la sentenza del 10 febbraio 2016, n. 2665.
Nel caso di specie, gli azionisti di minoranza avevano ricorso avverso la sentenza della Corte d’Appello che aveva negato l’esistenza di un diritto soggettivo a ricevere un’offerta e dunque il risarcimento da parte dei soci scalatori acquirenti che avevano concordato un’illecita operazione per l’acquisizione del controllo della società di assicurazione di cui gli attori erano azionisti, senza l’obbligatoria previa offerta pubblica di acquisto totalitaria.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso degli azionisti ai sensi dell’art. 106 TUF, che dispone: “Chiunque, a seguito di acquisti ovvero di maggiorazione dei diritti di voto, venga a detenere una partecipazione superiore alla soglia del trenta per cento ovvero a disporre di diritti di voto in misura superiore al trenta per cento dei medesimi promuove un’offerta pubblica di acquisto rivolta a tutti i possessori di titoli sulla totalità dei titoli ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato in loro possesso”.
Invero, ha ribadito che, come già chiarito in precedenti pronunce giurisprudenziali di legittimità, che dall’obbligo di offerta pubblica deriva per gli azionisti di minoranza la possibilità di scegliere se conservare la partecipazione nella società, nonostante il suo mutato assetto, o conseguire il vantaggio della vendita a un prezzo incrementato per l’inclusione del cosiddetto premio di maggioranza (Cass. sez. I, 26 settembre 2013, n. 22099).
Pertanto, se fosse stato adempiuto l’obbligo di offerta pubblica, gli altri soci avrebbero avuto una vantaggiosa occasione di disinvestimento (di ridurre le risorse impiegate in attività produttive e speculative).
A nulla rilevando le sanzioni restitutorie della sterilizzazione del voto e dell’obbligo di rivendita in quanto, anche se le stesse tendono a disincentivare la violazione dell’obbligo di offerta totalitaria, vanificando gli obbiettivi del trasgressore in funzione di tutela dell’interesse generale a un corretto funzionamento del mercato, non hanno però incidenza alcuna sulle conseguenze dannose subite dai soci di minoranza.
Ne consegue, dunque che, la perdita della chance di acquisto vantaggioso, certamente conseguenza della violazione dell’obbligo di offerta pubblica, configura una forma di responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c..
Quanto detto, è stato già enunciato dagli ermellini con sentenza del 13 ottobre 2015, n. 20560, secondo cui “La violazione dell’obbligo, rilevante ex art. 1173 c.c., di offerta pubblica di acquisto della totalità delle azioni di una società quotata in un mercato regolamentato da parte di chi, in conseguenza di acquisti azionari, sia venuto a detenere una partecipazione superiore al trenta per cento del capitale sociale, fa sorgere in capo agli azionisti, ai quali l’offerta avrebbe dovuto essere rivolta, il diritto al risarcimento del danno patrimoniale, ex art. 1218 c.c., ove essi dimostrino di aver perso una possibilità di guadagno a causa della mancata promozione dell’offerta”.
Ebbene, in tal modo, il diritto a ricevere un risarcimento deriva dalla (non voluta) mancata ponderazione della scelta tra dismettere o meno il proprio pacchetto azionario.
Concludendo, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso principale, dichiarato inammissibili i ricorsi incidentali, cassando la sentenza impugnata e rinviando alla Corte d’Appello per la decisione di merito.
Testo del provvedimento
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