ISSN 2385-1376
Testo massima
Segnalazione e massime a cura di Giuseppe Campo, Avvocato del Foro di Treviso
Commento redatto dal dott. Walter Giacomo Caturano
La manualistica insegna che gli interessi di mora costituiscono una forma di liquidazione preventiva del danno da ritardo nell’adempimento e svolgono altresì una funzione deterrente dell’inadempimento stesso. Essi non possono quindi considerarsi un corrispettivo del mutuo in quanto non costituiscono un costo economico necessario del finanziamento, ma un onere del tutto eventuale destinato a venire in rilievo solo nella fase esecutiva del contratto e in caso di andamento patologico del rapporto
L’impiego dei termini “corrispettivo” e “remunerazioni” evoca senza dubbio quel rapporto di sinallagmaticità (e quindi l’interdipendenza causale delle prestazioni tra loro, per l’appunto, corrispettive) che non può sussistere con riguardo agli interessi moratori, la cui pattuizione ha invece funzione di preventiva liquidazione del danno da ritardo nell’obbligazione pecuniaria e di coercizione indiretta finalizzata a sollecitare lo spontaneo adempimento del debitore.
Va senz’altro accantonata la tesi del cumulo tra i tassi d’interesse corrispettivi e i moratori. Si tratta infatti di una operazione assolutamente errata e illogica già dal punto di vista matematico. Se si parte dal presupposto che il tasso d’interesse è, in parole povere, la grandezza espressa in percentuale per un dato periodo di tempo che indica quanta parte della somma prestata debba essere corrisposta come interesse al termine del periodo di tempo considerato, è agevole comprendere come non sia possibile effettuare un calcolo unitario sommando il tasso dei corrispettivi con quello di mora perché sono totalmente diversi gli elementi del calcolo ed il lasso temporale da prendere in considerazione.
L’interesse di mora non può essere raffrontato con i tassi soglia. Così come sarebbe palesemente scorretto calcolare nel costo del credito convenzionalmente pattuito gli addebiti a titolo di imposte (senz’altro esclusi in forza delle stessa norma primaria) così come sarebbe errato confrontare gli interessi pattiziamente convenuti per una data operazione di credito con i tassi soglia di una diversa tipologia di operazione creditizie, risulta altrettanto scorretto procedere al raffronto tra dati che costituiscono lo sviluppo ed il risultato di calcoli matematici differenti ovvero l’inclusione nel TEG di oneri non contemplati per la rilevazione del TEGM.
Anche ove si volesse ritenere che gli interessi moratori siano soggetti al rispetto della normativa antiusura, l’eventuale nullità ex art. 1815, co. 2 c.c., proprio in ragione della pacificazione riconosciuta autonomia funzionale tra le diverse tipologie di interessi, riguarderebbe unicamente la clausola in questione e non travolgerebbe l’onerosità del contratto, rendendo l’operazione di finanziamento gratuita.
Deve escludersi che nell’ammortamento con rata costante e rimborso graduale del capitale vi possa essere l’applicazione di interessi anatocistici, in quanto tale fenomeno può sussistere e si avrebbe “interesse composto” soltanto se gli interessi maturati sul debito in un dato periodo si aggiungono al capitale, andando così a costituire la base di calcolo, ossia il capitale produttivo di interessi, del periodo successivo e così via.
Sono questi gli interessanti principi espressi dal Tribunale di Treviso, in persona del dott. Andrea Valerio Cambi, con sentenza n. 2476 del 12.11.2015, sull’intricata questione della rilevanza degli interessi moratori ai fini della normativa antiusura.
Nel caso di specie la controversia sorge dalla “classica” domanda di nullità ex art.1815, secondo comma, cc proposta da due mutuatari nei confronti della Banca mutuante, sul presupposto dell’usurarietà oggettiva dei tassi di mora.
In particolare, i mutuatari-attori, deducendo di aver contratto mutuo fondiario a tasso variabile, lamentavano l’applicazione di un tasso di mora, sommato al tasso corrispettivo, ovvero (per millesimi) considerato singolarmente, superiore al tasso soglia individuabile ratione temporis e ratione materiae.
Parallelamente, contestavano inoltre la nullità della clausola relativa agli interessi, lamentando la violazione, per effetto della pattuizione del piano di ammortamento a rate costanti (o “alla francese”) del divieto d’anatocismo previsto dall’art. 1283 c.c., nonché la nullità per indeterminatezza dell’oggetto ex art. 1346, 1418 e 1419 c.c. e per abuso di dipendenza economica.
La Banca si costituiva in giudizio respingendo ogni addebito, con il supporto di precedenti giurisprudenziali ormai consolidati.
La pronuncia del Tribunale di Treviso, in totale rigetto delle istanze avanzate dai debitori, chiarisce alcuni punti “chiave” del contenzioso bancario con articolate motivazioni, che è opportuno scomporre nell’analisi che segue.
1.SUL SUPPOSTO “EFFETTO ANATOCISTICO” PRODOTTO DAL METODO DI AMMORTAMENTO ALLA FRANCESE
La tesi secondo la quale il piano di ammortamento c.d. alla francese determinerebbe un fenomeno anatocistico è stata preliminarmente definita non condivisibile dal Giudice trevigiano, che ha rilevato come essa fosse stata affermata solo da un isolato precedente di merito (Trib. Bari 29.10.2008 n. 113 in Resp. civ. e prev. 2009, 5, 1144).
Infatti, può parlarsi di “interesse composto” soltanto se gli interessi maturati sul debito in un dato periodo si aggiungono al capitale, andando cosi a costituire la base di calcolo, ossia il capitale produttivo di interessi, del periodo successivo e così via.
Orbene, il Tribunale ha rilevato che tale fenomeno non si verifica nell’ammortamento a rata costante perché:
1) gli interessi di ciascun periodo vengono calcolati su una base formata dal solo capitale residuo;
2) alla scadenza della rata gli interessi maturati non vengono capitalizzati, ma sono pagati come quota interessi nella rata di rimborso, laddove tale pagamento periodico della totalità degli interessi elemento essenziale e caratterizzante, in particolare dell’ammortamento francese dove la rata è costante e la quota capitale rimborsata è determinata per differenza rispetto alla quota interessi;
3) il pagamento a scadenza del periodo riduce il capitale produttivo di interessi nel periodo successivo e quindi si verifica un fenomeno addirittura inverso rispetto alla capitalizzazione;
4) la produzione di interessi su interessi scaduti, ossia maturati ed esigibili, può verificarsi soltanto con riguardo agli interessi moratori maturati sulla quota degli interessi corrispettivi compresi nella rata scaduta, qualora resti insoluta, ma trattasi in questo caso di un’ipotesi di capitalizzazione consentita dall’art. 3. della delibera CICR 9.2.2000, in deroga all’art. 1283 c.c.
In estrema sintesi: il piano di ammortamento alla francese non produce di per sé un indebita fattispecie anatocistica.
2.SULLA TESI DELLA SOMMATORIA DEGLI INTERESSI DI MORA AGLI INTERESSI CORRISPETTIVI
Le doglianze di parte mutuataria si fondavano, preliminarmente, sulla asserita necessità di sommare il tasso di mora al tasso corrispettivo, al fine di raffrontarne il risultato al c.d. Tasso Soglia antiusura.
Tale tesi, rinvenuta anch’essa in qualche isolato orientamento di merito all’indomani della nota Cass. 350/2013, può dirsi ormai smentita da consolidata giurisprudenza, talvolta giunta a comminare pesanti sanzioni processuali per “lite temeraria” ai mutuatari che ancora la sostengono in giudizio (da ultimo Trib. Reggio Emilia, dott. G. Morlini, sentenza n.1297 del 6 ottobre 2015, già pubblicata su questa Rivista – http://www.expartecreditoris.it/provvedimenti/usura-sommatoria-sanzionata-con-condanna-per-lite-temeraria.html).
Sulla scia degli ultimi orientamenti di merito, la sentenza in commento che respinge nettamente la tesi della sommatoria non manca di precisare che “sono totalmente diversi gli elementi del calcolo ed il lasso temporale da prendere in considerazione: gli interessi corrispettivi sono calcolati sull’intero capitale preso in prestito, di norma su base annua; gli interessi moratori sono calcolati sulla sola rata scaduta e per i giorni di effettivo ritardo dalla scadenza“.
Né la tesi della “sommatoria” può sostenersi sulla base di un asserito ed illegittimo fenomeno di anatocismo sugli interessi corrispettivi in caso di mora del mutuatario (in altri termini, se sia legittima la pretesa del mutuante di calcolare l’interesse di mora anche sulla quota in conto interessi della rata scaduta e non pagata): in questo caso afferma il Giudice non è corretto parlare di cumulo tra tassi, ma piuttosto di produzione di interessi (moratori) su interessi (corrispettivi) scaduti.
Anche su tale punto, infatti, la risposta del Tribunale è netta: l’art. 1283 c.c. di norma vieta la produzione di interessi su interessi, salvo l’uso normativo o la pattuizione successiva alla scadenza.
Sul punto, l’art. 120 TUB demanda al CICR di stabilire modalità e criteri per la produzione “di interessi sugli interessi” (e, dal 1.1.2014, “di interessi”) nelle operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria e l’art. 3 della delibera 9.2.2000 del CICR (emessa in attuazione di detta normativa) prevede che nelle operazioni di finanziamento in cui il rimborso del premio avviene mediante il pagamento di rate con scadenze temporali predefinite, in caso di inadempimento del. debitore l’importo complessivamente dovuto, alla scadenza di ciascuna rata può, se contrattualmente stabilito, produrre interessi dalla data di scadenza e sino al momento del pagamento.
Se ne deduce che, di norma, la quota parte di interessi scaduti e non pagati di una rata di rimborso di mutuo (o di altro prestito a rimborso “graduale e differito”) non può produrre automaticamente ulteriori interessi, a meno che non vi sia stata un’apposita pattuizione anteriore al sorgere del credito per interessi.
In caso di pattuizione in tal senso, l’operazione non presenterebbe profili di illiceità neppure con riguardo alla legge 108/1996 perché non verrebbe in rilievo un tasso “cumulato” (la somma di x% per i corrispettivi con y% per i moratori), ma-unicamente il tasso d’interesse di mora’ calcolato sull’intera rata scaduta, la cui componente per interessi sarebbe ormai validamente capitalizzata.
In mancanza di pattuizione espressa, inoltre, non potrebbe comunque trovar applicazione la sanzione di cui all’art. 1815, secondo comma, cc, dovendo invece ricalcolarsi gli importi effettivamente dovuti e scorporare le somme indebitamente capitalizzate, come in un’ordinaria azione di ripetizione in materia bancaria. Detto altrimenti, non vi sarebbe comunque prova di alcuna “promessa” di interessi usurari.
Nel caso di specie, verificata la presenza di un’apposita pattuizione conforme alla citata delibera CICR, le doglianze dei mutuatari sono state disattese.
3. SULLA RILEVANZA (ESCLUSA) DEGLI INTERESSI MORATORI DI PER SE STESSI AI FINI DELLA VERIFICA DELL’USURA OGGETTIVA
Conclusa l’analisi delle motivazioni per le quali il tasso di mora non può sommarsi a quello corrispettivo ai fini dell’applicazione delle eventuali sanzioni antiusura, il Giudice si è pronunciato in termini netti sulla annosa querelle degli interessi moratori (isolatamente considerati), ritenendo che allo stato non sia possibile procedere alle verifiche dell’usura oggettiva tenendo conto del valore di questi ultimi.
Le ragioni sono complesse e già sono state oggetto di ampio approfondimento su questa Rivista (da ultimo si veda l’articolo “Disciplina antiusura e nuovi tassi legali di mora: usura ‘legale’? – http://www.expartecreditoris.it/images/joomd/1421773003tassilegalidimoraeinteressimoratori.20.01.2015.pdf)
e la pronuncia del Tribunale trevigiano ha il pregio di riepilogarle in maniera sistematica, che si tenta di analizzare di seguito nel dettaglio.
3.a). L’argomento per il quale la normativa di interpretazione autentica si riferisce al solo profilo della applicabilità irretroattiva della disciplina antiusura.
La tesi a sostegno della necessità di raffrontare anche gli interessi di mora alle soglie di usura si fonda essenzialmente, anche nelle pronunce della Suprema Corte, sull’analisi testuale della normativa di interpretazione autentica degli artt. 644 cp e 1815 cc, che assoggetterebbe gli interessi “a qualunque titolo” alle verifiche di liceità.
Ai sensi dell’art. 1, D.L. 29/12/00 n. 394, convertito in legge n. 24/2001, infatti, “ai fini dell’applicazione dell’articolo 644 del codice penale e dell’articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento“.
Sul punto, il Tribunale è rigido nell’affermare che “non si può attribuire portata innovativa e precettiva ad una norma che si autoqualifica espressamente come disposizione d’interpretazione autentica“.
Le leggi interpretative, infatti, non sostituiscono la disposizione interpretata, ma semplicemente ne chiariscono il significato con efficacia retroattiva. Ed invero, l’unico profilo interpretativo oggetto del chiarimento legislativo era quello di diritto intertemporale circa l’applicabilità degli arti. 644 e.p, e 1815 c.c. a rapporti sorti anteriormente all’entrata in vigore della legge 108/1996 (emblematico è il richiamo alla sentenza della Cassazione Civile n. 14899/2000 la cui massima recita: “In tema di contratto di mutuo, la pattuizione di interessi moratori a tasso divenuto usurario a seguito della legge n. 108 del 1996 è illegittima anche se convenuta in epoca antecedente-all’entrata in vigore di detta legge e comporta la sostituzione di un tasso diverso a quello divenuto ormai usurario, limitatamente alla parte di rapporto a quella data non ancora esaurito”) e, conseguentemente, lo sbrigativo riferimento della locuzione “a qualunque titolo” agli “interessi” anziché alle “remunerazioni” non è sufficiente per ritenere che il legislatore abbia così inteso modificare la struttura normativa della legge 108/1996 e dell’art. 644 c.p., equiparando gli oneri da inadempimento (quali gli interessi moratori) a remunerazioni e prestazioni corrispettive all’erogazione del credito.
Invero, nella normativa interpretata, l’espressione “a qualsiasi titolo” è chiaramente riferita alle sole “remunerazioni” di cui si deve tener conto nella determinazione del tasso d’interesse usurario e l’impiego dei termini “corrispettivo” e “remunerazioni” evoca senza dubbio quel rapporto di sinallagmaticità (e quindi l’interdipendenza causale delle prestazioni tra loro, per l’appunto, corrispettive) che non può sussistere con riguardo agli interessi moratori, la cui pattuizione ha invece funzione di preventiva liquidazione del danno da ritardo nell’obbligazione pecuniaria e di coercizione indiretta finalizzata a sollecitare lo spontaneo adempimento del debitore.
Ma anche ove si ritenesse che il legislatore abbia usato un linguaggio atecnico nota il Tribunale l’esegesi linguistica non potrebbe mai condurre a ritenere che il termine “remunerazioni” possa ricomprendere gli interessi moratori, giacché, nella lingua italiana remunerazioni significa “ciò che viene dato o si riceve come ricompensa di un beneficio ricevuto“.
Si andrebbe quindi ben oltre i limiti dell’interpretazione estensiva, per sfociare nell’analogia in malam partem, notoriamente vietata nell’interpretazione delle norme penali incriminatrici dall’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile.
In conclusione, l’argomento dell’interpretazione autentica non “coglie nel segno”.
3.b). L’argomento della disomogeneità funzionale di interessi corrispettivi ed interessi di mora
Nota il Giudice che “nell’assoggettare gli interessi moratori al rispetto della soglia stabilita per i corrispettivi, si postula poi una omogeneità tra gli istituti assolutamente non coerente con la tradizionale tripartizione, basata sul profilo funzionale, degli interessi in corrispettivi, moratori e compensativi“.
Come noto, infatti, gli interessi di mora costituiscono una forma di liquidazione preventiva del danno da ritardo nell’adempimento e svolgono altresì una funzione deterrente dell’inadempimento stesso.
Essi non possono quindi considerarsi un corrispettivo del mutuo, in quanto non costituiscono un costo economico necessario del finanziamento, ma un onere del tutto eventuale destinato a venire in rilievo solo nella fase esecutiva del contratto e in caso di andamento patologico del rapporto,
Ebbene, poiché l’art. 644 co. I cp (che è norma penale incriminatrice, come tale di stretta interpretazione) prende in considerazione ai fini del calcolo dell’usura solo gli oneri che costituiscono un corrispettivo della dazione di denaro o di altra utilità, gli stessi non possono essere soggetti alla disciplina civilistica dell’art. 1815 co. II c.c., bensì a quella dell’art. 1384 c.c. (ed eventualmente a quella dell’art. 33 co. 11 lett. l) D.Lgs. 206/2005 nel caso in cui il mutuatario rivesta la qualità di consumatore).
L’esclusione degli interessi moratori dal novero degli oneri rilevanti ai fini della verifica dell’usura trova significativa conferma, peraltro, nel diritto comunitario, che ne tiene ben distinta la funzione e la natura dagli interessi corrispettivi.
Gli interessi moratori realizzano una liquidazione preventiva e forfetaria del danno risarcibile, e, pertanto, la clausola che ne determina convenzionalmente l’ammontare è certamente assimilabile alle “penali” cui fanno specifico riferimento le fonti sovranazionali, all’analisi delle quali il Tribunale dedica ampio spazio e approfondimento nella pronuncia de qua.
3.c). L’argomento della disciplina successiva alla legge di interpretazione autentica.
Il Giudice trevigiano è poi acuto nel notare: “che gli interessi moratori non rientrino tra gli oneri rilevanti ai fini della verifica dell’usurarietà tanto dei finanziamenti ad impiego flessibile, quanto di quelli a rimborso graduale”, lo si evince chiaramente anche dalla normativa nazionale posteriore alla citata legge d’interpretazione autentica, atteso che l’art. 2 bis, comma secondo, del di. 29.11.2008 n.185 convertito in legge 2/2009 ribadisce che sono comunque rilevanti ai fini dell’applicazione dell’articolo 1815 del codice civile, dell’articolo 644 del codice penale e degli articoli 2 e 3 della legge 7 marzo 1996, n. 108 “gli interessi, le commissioni e le provvigioni derivanti dalle clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione, a favore della banca, dipendente dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente“.
3.d). L’argomento sistematico: i nuovi “tassi legali di mora” ex art. 1284 quarto comma c.c.
Il Tribunale aderisce, poi, alla tesi già sostenuta sulle pagine di questa Rivista (di cui supra, par.3): l’irrilevanza degli interessi di mora ai fini dell’applicazione della normativa antiusura emergerebbe dall’analisi della nuova disciplina dei “tassi legali di mora”.
Il quarto comma dell’art. 1284 c.c. aggiunto dall’art. 17, co. I del D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazione nella L. 10.11.2014 n, 162, prevede che, in caso di mancata pattuizione del tasso degli interessi ultralegali, dalla domanda giudiziale il saggio degli interessi legali è pari a quello previsto dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.
A tal riguardo, appare evidente il contrasto della tesi criticata con il principio di non contraddizione dell’ordinamento giuridico, laddove la misura dell’interesse moratorio non può essere da un lato imposta dalla legge e al tempo stesso considerata usuraria ex art. 644 e 1815 c.c. (il saggio degli interessi moratori ex D. Lgs. 23112002 è attualmente pari al 8,05% ed è quindi superiore, ad esempio, al tasso soglia vigente nel terzo trimestre 2015 per i mutui ipotecari) poiché qui iure suo utitur, neminem laedit.
3.e). L’argomento dell’indebito “vantaggio” del debitore inadempiente
Viene infine analizzata, dal Tribunale, la tesi della rilevanza dei tassi di mora sulla scorta dell’analisi del profilo “funzionale” del rapporto, che di per sé sarebbe da escludere per l’esclusivo riferimento che la normativa fa agli interessi “promessi o comunque convenuti”, soffermandosi sul solo aspetto “genetico” dell’operazione creditizia.
Tornando alla diversità funzionale dei due tipi di interessi, il Giudice nota che gli interessi moratori non remunerano affatto il creditore dell’erogazione del credito, ma lo ristorano per il protrarsi della perdita di disponibilità di somme di denaro che egli non ha accettato, ma che subisce per effetto dell’inadempimento del debitore e per un periodo di tempo non prevedibile (potenzialmente, sino alla distribuzione del ricavato dell’esecuzione forzata, sempre che i beni staggiti siano capienti rispetto al debito in linea capitale).
A tutto voler concedere, in effetti, si può parlare di usurarietà sopravvenuta, rispetto alle quali le forme di tutela non sono certo la nullità ex art. 1815, co. 2 c.c. e la conversione forzosa della causa del contratto da oneroso in gratuito, ma semmai l’exceptio doli per violazione del canone della buona fede esecutiva (e sempre che si ritenga – cosa che qui si nega – che gli addebiti a titolo di interessi moratori possano concorrere con la quota d’interessi corrispettivi oggetto di restituzione graduale e gli oneri del contratto a determinare il tasso effettivo di rendimento dell’operazione).
In secondo luogo, accedendo a detta impostazione si otterrebbe il paradosso, inaccettabile agli occhi del Tribunale, di consentire al debitore inadempiente di ottenere dall’ordinamento un trattamento migliore del debitore adempiente.
Il primo, infatti, ritardando il pagamento ed incorrendo nella mora, otterrebbe l’effetto di avviare il contratto “sul sentiero dell’usura” (emblematica immagine tratta dall’ordinanza 20.6.2015 del Tribunale di Torino, in www.dirittobancario.it) e, se il creditore non si affrettasse a far valere la risoluzione del contratto per inadempimento, potrebbe liberarsi dall’obbligazione restituendo unicamente il capitale; il secondo, rispettando il piano di ammortamento pattuito, sarebbe tenuto a corrispondere sino all’ultimo è centesimo gli interessi corrispettivi promessi.
Non si vede perché prosegue il Tribunale -, unicamente in questa materia, si dovrebbero derogare i principi che informano la disciplina dell’invalidità negoziale e che escludono ogni rilevanza nel sindacato di liceità del contratto alle sue modalità di svolgimento, ben potendo l’eventuale l’eccessività degli interessi moratori in concreto applicati trovare in ogni caso adeguata tutela con il ricorso all’art. 1384 c.c., che con il richiamo alla inesigibilità degli interessi eccedenti la soglia usuraria alla stregua del canone della buona fede.
3.f). L’argomento del confronto tra dati “omogenei”.
Infine il Giudice trevigiano ha affrontato il delicato tema della non omogeneità del confronto tra gli interessi moratori e le soglie di usura che, formatesi sulla scorta dei dati rilevati nel TEGM, non li comprendono, in conformità alle istruzioni della Banca d’Italia.
La tesi smentita dal Tribunale si fonda sull’assunto che l’omogeneità va ricercata nella ratio della legge antiusura (che impone di rapportare globalmente il credito erogato agli interessi e ai costi collegati) e non nella perfetta corrispondenza delle singole voci di costo prese in considerazione per determinare il tasso effettivo e il tasso medio.
In verità si afferma in sentenza dovendosi basare il giudizio in punto di usurarietà oggettiva sul raffronto tra un dato concreto (lo specifico TEG applicato nell’ambito del contratto oggetto di contenzioso) ed un dato astratto (il TEGM rilevato con riferimento, alla tipologia di appartenenza del contratto in questione), se detto raffronto non viene effettuato ricorrendo alla medesima metodologia di calcolo, il risultato che:se ne ricava sarà inevitabilmente falsato.
Ciò non significa affatto affermare che il giudice sia in qualche misura “vincolato” dalle istruzioni della Banca d’Italia, le quali non hanno notoriamente alcun rilievo nel sistema delle fonti del diritto.
La questione è in realtà essenzialmente logica, prima che giuridica.
Anche a voler ammettere, come peraltro autorevolmente sostenuto, che i criteri metodologici elaborati dalla Banca d’Italia per la rilevazione dei tassì medi non abbiano fedelmente recepito in termini matematici la vocazione omnicomprensiva del disposto del quarto comma dell’art. 644 c.p., ciò non potrebbe in ogni caso consentire all’interprete di prescindervi, perché l’art. 644, co. 4 c.p. non può considerarsi norma immediatamente precettiva e sufficientemente specifica per essere direttamente attuata dall’autorità giurisdizionale, ma delinea unicamente i criteri ed i limiti entro i quali l’amministrazione deve fornire il proprio apporto tecnico per integrare il precetto, così da garantire il rispetto del principio di legalità e di riserva di legge in materia penale sancito dall’art. 25, co. 2 Cost.
Tra i due insiemi, quello concretamente pattuito tra le parti di un rapporto creditizio e quello rilevato al fine di identificare il tasso soglia vi deve essere perfetta simmetria perché la verifica del rispetto della legge antiusura risulti rigorosa e attendibile. Non è quindi condivisibile l’affermazione secondo cui l’omogeneità va ricercata nella ratio della legge antiusura (che impone di rapportare globalmente il credito erogato agli interessi e ai costi collegati, tra cui dovrebbe rientrare anche l’interesse di mora) e non nella perfetta corrispondenza delle singole voci di costo, perché tale impostazione, tenuto conto del fisiologico deficit di determinatezza della norma primaria, rimetterebbe alla discrezionalità, se non all’arbitrio del giudice la concreta determinazione di un elemento essenziale del raffronto.
3.g). [Segue] Il paradosso derivante dal raffronto con la normativa in materia edilizia.
Il discorso che precede trova una brillante sintesi nel seguente paradosso.
Applicando il medesimo ragionamento affermato dalla tesi criticata ad altra ipotesi di norma penale in bianco (l’art. 44, lett. a) DPR 380/2001, norma che, in materia edilizia, sanziona l’inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal titolo IV del testo unico; nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire), si potrebbe giungere ad affermare che un fabbricato – formalmente legittimo perché conforme al permesso di costruire – è abusivo e va demolito perché, misurato in un certo modo. e prendendo a riferimento solo il dato numero del limite d’altezza, supera l’altezza massima prevista dallo strumento urbanistico, senza. tener conto delle disposizioni regolamentari e delle norme tecniche d’attuazione del medesimo strumento urbanistico che stabiliscono come si debba calcolare l’altezza (se dal piano di campagna originario,. dal punto più basso, dal punto più alto, o dalla media delle quote dell’area di sedime) e con, riferimento a quali elementi dell’edificio.
Ecco che il supposto principio dell’ “identità del criterio” in luogo della perfetta corrispondenza tra voci di costo, si rivela inattendibile e poco coerente con i superiori principi di legalità e di tassatività dell’ordinamento penale, cui si deve informare, anche l’art. 1815, co. 2 c.c, in quanto sanzione civilistica della pattuizione usuraria.
Il ricorso a tale criterio, pur apparendo una soluzione senz’altro pragmatica e ispirata a buon senso, non è tuttavia giuridicamente sostenibile, perché l’autorità amministrativa non ha individuato alcuna soglia specifica per gli oneri da inadempimento con riguardo alle singole categorie di operazioni.
4. SULL’IRRILEVANZA DELL’USURA SOGGETTIVA IN SEDE CIVILE.
A margine, la pronuncia del Tribunale di Treviso offre uno spunto interessante anche in materia di usura c.d. soggettiva.
Sul punto il Giudice afferma nettamente che nell’ordinamento civile rileva unicamente l’eventuale usurarietà oggettivamente considerata (quella “in astratto”, derivante dalla pattuizione di tassi superiori a quello determinato ex lege), con la conseguente irrilevanza di ogni situazione di sproporzione tra prestazioni, in ipotesi configurante usura in concreto ex art. 644, co, 3 c.p., che non si traduca nel travalicamento del tasso soglia.
Infatti, Oltre all’intuibile ostacolo di carattere logico, legato alla circostanza che, se il TEGM è una media tra operazioni della stessa categoria, è fisiologico e pienamente legittimo che siano contratti stipulati a condizioni meno vantaggiose del tasso medio, è dirimente il rilievo che, non potendo operare l’art. 1815, co. 2 c.c., la sproporzione tra prestazioni che costituisce l’elemento oggettivo della fattispecie delittuosa prevista dall’art. 644, co. 3 c.p. non potrebbe comportare, in sede civile, la nullità virtuale ex art. 1418, co. 1 e:c. per violazione di norme imperative (quale certamente è la norma penale incriminatrice), perché la stessa norma esclude il ricorrere della nullità nei casi in cui la legge disponga diversamente.
****
All’esito dell’articolato excursus appena sintetizzato, ne è derivata la soccombenza in toto dei mutuatari, con una pronuncia che è destinata a divenire un precedente fondamentale per la risoluzione di controversie analoghe.
Testo del provvedimento
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Numero Protocolo Interno : 620/2015