ISSN 2385-1376
Testo massima
Nell’ambito di un contenzioso promosso dal correntista nei confronti della Banca, vige il principio, ex art. 2697 c.c., secondo cui il correntista, che agisce in giudizio al fine di ottenere dalla Banca la ripetizione delle somme indebitamente versate, ha l’onere di allegare i fatti posti a base della domanda e, nel caso in cui non si sia preventivamente attivato attraverso lo strumento del 119 TUB, non potrà poi pretendere di ottenere la medesima documentazione, nel corso del giudizio.
Non è dato addivenire ad una esibizione officiosa della documentazione, ai sensi dell’art. 210 cod. proc. civ., per sopperire all’inerzia della parte nel dedurre mezzi di prova, potendo tale potere discrezionale del giudice essere esercitato solo se la prova del fatto che si intende dimostrare non sia acquisibile aliunde.
Questi i principi di diritto enunciato dal Tribunale di Roma, dott.ssa Paola Grimaldi, con la sentenza n.16707, depositata in data 29.07.2015.
La vicenda posta a base della sentenza in esame, riguarda, tra gli altri, il delicato problema dell’onere probatorio, affermandosi il principio secondo cui grava in capo all’attore l’onere di allegare i fatti posti a base della domanda, vale a dire, nel caso di specie, “dimostrare l’esistenza di specifiche poste passive del conto corrente oggetto di causa rispetto alle quali l’applicazione di interessi anatocistici ed usurari avrebbe determinato esborsi maggiori rispetto a quelli dovuti; pertanto, dovrà produrre il contratto di conto corrente, gli estratti conto relativi a tutto il rapporto contrattuale”.
La materia del contendere si compone delle contestazioni mosse da una società nei confronti della Banca. L’attrice, con atto di citazione, conveniva in giudizio l’istituto di credito lamentando che quest’ultimo fosse illegittimamente receduto dagli affidamenti concessi alla società ed avesse disposto, sempre illegittimamente, la chiusura del conto corrente di corrispondenza. Lamentava poi l’applicazione, nel corso del rapporto, di illegittimi interessi anatocistici ed ultralegali, commissioni e valute non dovute. La Banca, continuava l’attrice, aveva illegittimamente protestato la società e segnalato la stessa presso la Centrale Rischi della Banca d’Italia.
Per tutto quanto esposto la Società attrice, lamentava danni economici, morali ed esistenziali e chiedeva la condanna della banca al pagamento di 60.000,00 per il pregiudizio economico, 100.000,00 per il danno morale, biologico ed esistenziale, 100.000,00 per la perdita, conseguenziale al comportamento della Banca, delle linee di credito concesse da altri intermediari.
Nel costituirsi in giudizio la Banca convenuta, contestando la ricostruzione dei fatti formulata dall’attrice, eccepiva, in via preliminare, la nullità della procura apposta a margine dell’atto di citazione, in quanto rilasciata “in proprio” e non nella qualità di legale rappresentante della società; replicava poi affermando che il recesso era stato legittimamente operato, stante le difficoltà manifestate dalla società già nei due anni precedenti lo stesso e constatava il mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte della società attrice, non avendo la stessa prodotto il contratto di conto corrente posto a base delle sue doglianze. Affermava, infine, la legittima esecuzione del protesto dell’assegno, essendo stato, lo stesso, presentato all’incasso successivamente alla chiusura del conto corrente.
Il contenzioso in oggetto ha offerto al giudice la possibilità di pronunciarsi, in maniera più o meno approfondita, sui seguenti temi:
1 limiti di ammissibilità dell’eccezione di nullità della procura nel caso in cui il sottoscrittore della procura a margine di un atto formato a nome di una società non risulti indicato come legale rappresentante della stessa, o come titolare di una funzione o carica implicante la rappresentanza della società;
2 mutatio libelli e memorie redatte ex art. 183, co.6 n. 1 c.p.c.;
3 recesso dal contratto ai sensi delle disposizioni di cui all’art. 1845 c.c.;
4 onere probatorio e corretta acquisizione della documentazione bancaria mediante gli strumenti messi a disposizione dal legislatore, con specifico riguardo alle disposizioni contenute negli artt. 119 TUB e 210 c.p.c..
1 SULL’ ECCEZIONE DI NULLITA’ DELLA PROCURA
Nel caso di specie, il giudice ha concluso per il mancato accoglimento dell’eccezione, ritenendo che non si configurasse un’assenza totale della qualifica del sottoscrittore, essendo lo stesso indicato, nell’epigrafe dell’atto, quale l.r.p.t. della società. Il giudice ha ritenuto opportuno richiamare l’orientamento della Cassazione Civile la quale, con sentenza del 2012, ha circoscritto le ipotesi di nullità della procura a quelle in cui non è noto in quale veste la procura sia stata conferita e “l’effettività della sussistenza dei poteri rappresentativi in capo all’ignoto sottoscrittore non potrebbe risultare neanche dalla consultazione del registro delle imprese”.
Sempre secondo la giurisprudenza richiamata, occorre distinguere le ipotesi in cui la qualità del soggetto che sottoscrive l’atto derivi da una potestà allo stesso conferita con l’atto costitutivo o con lo statuto, oppure sia enunciata in un atto non soggetto a pubblicità legale. Solo in quest’ultimo caso spetta a chi agisce l’onere di provare l’esistenza di tale potere, mentre nella prima ipotesi i terzi avranno sempre e comunque la possibilità di verificare il potere rappresentativo del soggetto sottoscrittore per cui, qualora vi fossero difformità, spetterà ai terzi fornire la prova negativa .
2 SULLA MUTATIO LIBELLI
La Banca contestava il mutamento delle domande e delle conclusioni operate da parte attrice a mezzo del primo termine di cui all’art. 183 c.p.c. affermando che fossero state ampliate ed estese le conclusioni rassegnate in citazione, senza poter far capo ad alcuna specifica difesa da parte della convenuta. Chiedeva, pertanto, al giudice che venissero considerate ritualmente rassegnate solo le conclusioni contenute nella citazione.
Definire il confine tra emendatio e mutatio libelli non è sempre cosa agevole. Al riguardo, nel tentativo di circoscrivere i termini di applicazione dell’una e dell’altra, la giurisprudenza ha proposto la seguente partizione . Si ha mutatio libelli quando la pretesa avanzata è da considerarsi obiettivamente diversa da quella originaria. Ciò si verifica tutte le volte in cui viene introdotto nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su elementi in precedenza non prospettati che introducono un nuovo tema di indagine spostando sostanzialmente i termini della controversia. Al contrario si avrà una ipotesi di emendatio libelli tutte le volte in cui si incida sulla causa petendi a livello interpretativo oppure modificando la qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto o, nel caso in cui si ampli o si limiti il petitum, per renderlo più aderente al soddisfacimento della pretesa fatta valere .
Secondo il giudice romano le conclusioni presentate dall’attore con la memoria ex art. 183, co.6 n.1 c.p.c. non possono che rientrare nella cd. emendatio libelli, essendo le stesse una specificazione più dettagliata delle espressioni adoperate nella citazione facenti riferimento a “tutti i rapporti bancari come intrattenuti con la società attrice con tutte le illegittime iniziative poste in essere contro la stessa sia per la gestione ordinaria del conto corrente sia per la recessione operata”. Parte attrice si sarebbe, pertanto, mossa nei limiti dei termini processualmente concessigli.
3 SULL’ART. 1845 C.C. E SULLA LEGITTIMITA’ O MENO DEL RECESSO
Parte attrice lamentava, in citazione, l’illegittimità del recesso operato dalla Banca dal contratto di conto corrente e dalla convenzione assegni chiedendone la condanna.
La Banca, infatti, nel 2007, aveva ritualmente comunicato al cliente il suddetto recesso. Come tuttavia rappresentato dalla difesa della convenuta, il recesso in parola era da considerarsi del tutto legittimo, stante il collocamento, già dal 2005, della società attrice nella posizione “a incaglio“. Tanto più che negli anni a seguire la società aveva maturato una ulteriore posizione debitoria.
Secondo quanto dispone l’art. 1845 c.c., vige nel nostro ordinamento il principio generale secondo cui “la banca non può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se non per giusta causa”. “Se l’apertura di credito è a tempo indeterminato, ciascuna delle parti può recedere dal contratto, mediante preavviso nel termine stabilito dal contratto, dagli usi o, in mancanza, in quello di quindici giorni“.
Evidente la distinzione principale tra contratti a tempo determinato e contratti a tempo indeterminato.
Secondo il giudice basterebbe il semplice richiamo alla norma in esame per motivare adeguatamente il recesso, gravando, invece, in capo a colui che ne assume l’illegittimità, l’onere di fornire la relativa prova. Il ruolo del giudice diviene particolarmente rilevante in tutti i casi in cui la Banca receda da un contratto a tempo determinato, non potendo, egli Giudice, limitarsi solo a valutare la presenza o meno della giusta causa, ma dovendo, invece, in concreto, esaminare se la fattispecie creatasi non sia frutto di comportamenti arbitrari in contrasto con la cd. ragionevole aspettativa del contraente.
Nel caso al vaglio del Tribunale l’operato della Banca appare del tutto giustificato né tantomeno è ravvisabile un tradimento di legittime aspettative, tenuto conto della segnalazione ad incaglio avvenuta già nel 2005, ben due anni prima, e considerato il protrarsi delle difficoltà negli anni successivi. Sulla base di tali presupposti il giudice ha, pertanto, respinto la richiesta attorea.
L’art. 1845 c.c. è stato frequentemente sottoposto al vaglio della dottrina e della giurisprudenza.
Un tema, ad esempio, che ha riscosso particolare interesse è quello attinente il confine tra giusta causa e buona fede. Del primo vi è menzione diretta nel testo della norma, il secondo rappresenta il principio generale che deve essere seguito nell’esecuzione del contratto ed anche nel recesso dallo stesso. In tutti i casi in cui il recesso venga esercitato in contrasto con il principio della buona fede non vi sarà giusta causa e dovranno applicarsi le relative conseguenze, primo tra tutti il risarcimento dei danni sia patrimoniali che reputazionali.
Per quel che concerne il mero recesso ad nutum, fattispecie differente da quella del caso in esame che si verifica in assenza di giusta causa e senza il rispetto di un termine minimo, vi è da segnalare un cambio di orientamento nella giurisprudenza di merito. Si è passati infatti da un precedente filone giurisprudenziale volto a giustificare il recesso ad nutum della Banca, valorizzando le condizioni contrattuali espressamente approvate dal correntista , ad un orientamento diverso, improntato alla maggiore tutela del consumatore, ove il recesso dovrebbe sempre essere accompagnato da giusta causa e da un ragionevole preavviso .
4 SULL’ONERE PROBATORIO
E’ questo il tema principale trattato dalla sentenza per dirimere il caso posto all’attenzione della giurisprudenza di merito.
La Società attrice, nel lamentare l’applicazione, al contratto di conto corrente, di interessi anatocistici e clausole usurarie, avrebbe dovuto, ai sensi dell’art. 2697 c.c., provare “i fatti che ne costituiscono il fondamento“, producendo il contratto di conto corrente e gli estratti conto relativi al rapporto.
Secondo le disposizioni del codice civile, l’attore, in sostanza, ha l’onere di provare i fatti costitutivi del proprio diritto, mentre spetta al convenuto provare l’inefficacia di tali fatti. Nonostante la norma di cui all’art. 2697 c.c. rappresenti un principio di ordine generale, spesso, in ipotesi di contestazioni aventi ad oggetto la restituzione di interessi anatocistici, essa non sempre ha trovato applicazione, in quanto, alcuni giudici, hanno invertito l’onere probatorio basandosi sull’ordine giudiziale di esibizione della documentazione contabile disciplinato dall’art. 210 c.p.c.
Dei rapporti tra l’art. 119 TUB ed il 210 c.p.c. si è fatto carico anche il giudice di merito, evidenziando come l’uno non debba essere inteso alternativo all’altro.
Più in dettaglio l’art. 119 TUB deve essere concepito come uno strumento al servizio del correntista, il quale ha il diritto di ottenere dall’Istituto di credito, nel limiti del decennio, tutta la documentazione relativa al rapporto bancario. Trattasi, pertanto, di norma che offre la concreta possibilità al cliente della banca di recuperare la documentazione posta a base delle proprie pretese.
Nel caso in cui la parte non si attivi attraverso lo strumento del 119 TUB, non potrà pretendere di ottenere la medesima documentazione attraverso l’ordine di esibizione di cui all’art. 210 c.p.c.. Ciò in quanto quest’ultimo deve essere inteso come uno strumento residuale “utilizzabile solo quando la prova del fatto non sia acquisibile aliunde e l’iniziativa non presenti finalità meramente esplorative”.
Pertanto, nel caso in cui la parte non si sia preventivamente attivata attraverso lo strumento del 119 TUB, non potrà pretendere di ottenere la documentazione ex art. 210 c.p.c., con relativa inversione del principio dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c..
Questo è quanto accaduto nel caso di specie e che ha fatto concludere il giudice per il rigetto delle domande attoree essendo, le stesse, rimaste prive di adeguato supporto probatorio.
L’orientamento seguito dal giudice è comunque quello rinvenibile nella giurisprudenza dominante, ove si è affermato più volte il principio secondo cui l’ordine di esibizione di documentazione che l’attore non ha allegato agli atti di causa, deve attenere ad uno, ovvero a più documenti, esattamente individuati .
Ma non sempre il rapporto tra l’art. 119 TUB ed il 210 c.p.c. è stato inteso nel senso che l’uno funge da presupposto di attivazione al secondo. Parte della giurisprudenza è andata oltre, affermando l’inammissibilità dell’istanza ex art. 210 c.p.c. anche nell’ipotesi in cui il correntista abbia formulato istanza per ottenere la documentazione ai sensi del 119 TUB, ma lo abbia fatto in corso di causa oppure contestualmente all’atto di citazione, ritenendo che una corretta interpretazione dovrebbe far ricadere il predetto onere sul correntista quale adempimento da formulare in un arco temporale antecedente l’instaurazione del giudizio .
Sempre la giurisprudenza ha affermato che “la incompletezza dei documenti, necessariamente, deve essere addebitata a parte attrice sulla quale incombe l’onere di fornire prova adeguata dei propri assunti” .
Più in dettaglio, in merito al potere discrezionale del giudice, si è osservato che: “Non è dato addivenire ad una esibizione officiosa della documentazione, ai sensi dell’art. 210 cod. proc. civ., per sopperire all’inerzia della parte nel dedurre mezzi di prova, potendo tale potere discrezionale del giudice essere esercitato solo se la prova del fatto che si intende dimostrare non sia acquisibile aliunde” .
Tutto ciò ha anche riflessi sull’ammissibilità o meno di una consulenza tecnica, laddove è stato osservato che in presenza di contestazioni generiche la stessa non può essere disposta in quanto finirebbe per “esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume violato” .
Testo del provvedimento
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Numero Protocolo Interno : 480/2015