ISSN 2385-1376
Testo massima
Pur se il codice civile non contiene una previsione generale di divieto di esercizio del diritto in modo abusivo, ma solo specifiche disposizioni in cui viene sanzionato l’abuso con riferimento all’esercizio di determinate posizioni soggettive, da tali singole ipotesi può enuclearsi un principio generale di divieto di esercizio del diritto in modo abusivo.
Si ha abuso del diritto in tutti quei casi in cui si verifica un’alterazione della funzione obiettiva dell’atto rispetto al potere di autonomia che lo configura, o perché si registra un’alterazione del fattore causale, o perché si realizza una condotta contraria alla buona fede ovvero comunque lesiva della buona fede altrui.
Gli elementi costitutivi dell’abuso sono tre: la titolarità di un diritto soggettivo, con possibilità di un suo utilizzo secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; l’esercizio concreto del diritto in modo rispettoso della cornice attributiva, ma censurabile rispetto ad un criterio di valutazione giuridico od extragiuridico; la verificazione, a causa di tale modalità di utilizzo, di una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare ed il sacrificio cui è costretta la controparte.
Questi i principi affermati dal Tribunale di Reggio Emilia, dott. Gianluigi Morlini, con sentenza n. 964, depositata in data 16.06.2015.
IL CASO
Nella fattispecie in esame, una società in nome collettivo proponeva opposizione avverso il precetto notificatole da un creditore, sul presupposto che il titolo esecutivo alla base del precetto fosse stato ottenuto nei confronti di altro soggetto giuridico, la società s.r.l., acquistata dalla s.n.c. prima della formazione del titolo esecutivo, in virtù di contratto di cessione d’azienda. In sostanza, la s.n.c. opponente assumeva che l’azionata pretesa creditoria non fosse ad essa opponibile, non essendo intervenuta una successione nel diritto controverso ex art. 111 comma 4 c.p.c., non configurandosi altresì, nel caso di specie, l’estensione di responsabilità a carico del cessionario ex art. 2560 comma 2 c.c..
Si costituiva in giudizio il creditore opposto, il quale invocava, al fine di paralizzare la spiegata opposizione, la fattispecie dell’abuso del diritto.
Il Tribunale, motivando il rigetto dell’opposizione ed accertando il diritto del creditore ad agire esecutivamente per la somma precettata, ha ritenuto fondata l’eccezione sollevata dall’opposto, riscontrando nel caso de quo un’ipotesi di abuso di diritto.
Invero, il Giudice ha preventivamente appurato che il creditore aveva ottenuto, all’esito di un precedente giudizio, titolo esecutivo per il pagamento di compensi professionali nei confronti della s.r.l..; nel corso del medesimo giudizio, però, la predetta società, in virtù del sopra richiamato contratto di cessione d’azienda, veniva acquisita dalla s.n.c., all’uopo costituita. A seguito di tale vicenda traslativa, la s.r.l. veniva posta in liquidazione, mentre la s.n.c. proseguiva la medesima attività commerciale in precedenza esercitata dalla cedente. Emergeva altresì una evidente continuità, tra le due società, sul piano dei soggetti coinvolti, dal momento che due dei tre soci della s.r.l., erano poi divenuti amministratori della s.n.c..
LA DECISIONE
Il Giudice adito, accertato preventivamente che nel caso di specie non ricorresse un’ipotesi di successione a titolo particolare nel rapporto controverso, quanto piuttosto una cessione d’azienda, ha precisato che nell’ambito di tale ultima fattispecie non potesse affermarsi l’efficacia diretta, nei confronti della s.n.c., della sentenza resa nei confronti della s.r.l. cedente.
Pur muovendo da tale premessa, il Giudice ha tuttavia riconosciuto l’opponibilità della pretesa creditoria dell’opposto nei confronti della s.n.c., in applicazione della teoria dell’abuso di diritto, “essendo stata posta in essere un’operazione societaria esclusivamente finalizzata all’elusione della pretesa creditoria del creditore stesso“.
Il provvedimento in commento ha, dunque, operato una compiuta ricostruzione della predetta teoria, precisando che “il nostro codice civile, a differenza di altri sistemi codicistici europei, non contiene una previsione generale di divieto di esercizio del diritto in modo abusivo, ma solo specifiche disposizioni in cui viene sanzionato l’abuso con riferimento all’esercizio di determinate posizioni soggettive” (quali, ad esempio, quella del divieto di atti emulativi ex art. 833 c.c.; della minaccia di far valere un diritto ex art. 1438 c.c.).
Sussistendo, pertanto, disciplina positiva solo in relazione ad alcune ipotesi di abuso di diritto e stante l’esigenza di procedere all’enucleazione di principi di carattere generale cui ricondurre il fondamento del divieto medesimo, il Giudice ha richiamato diffusa dottrina secondo cui “l’abuso del diritto è correlato o ad un’alterazione, nel caso concreto, della funzione causale posta dall’ordinamento a presidio della fattispecie, o alla violazione del dovere di buona fede“.
Del pari, la giurisprudenza, collegando la tematica dell’abuso a quella del dovere di agire secondo buona fede oggettiva, “riconosce oggi un principio generale di divieto di abuso del diritto, non accordando tutela a quei comportamenti in contrasto con tale precetto, ritenendo che la fattispecie si verifichi allorché l’esercizio del diritto da parte del titolare si esplicita attraverso l’uso abnorme delle relative facoltà ed è indirizzato a un fine diverso da quello tutelato dalla norma“.
Intesa come requisito della condotta, nei termini di correttezza e lealtà, la buona fede costituisce infatti uno dei cardini della disciplina legale delle obbligazioni e forma oggetto di un vero e proprio dovere giuridico, derivando da ciò che “la funzione della buona fede contrattuale, come d’altronde quella della correttezza dell’art. 1175 c.c. (che vale per tutte le obbligazioni e non solo per le obbligazioni da contratto), è allora quella di colmare le inevitabili lacune legislative che un sistema può avere e di funzionare quindi come norma di chiusura del sistema stesso“.
Al principio della buona fede oggettiva, la giurisprudenza di legittimità cfr. Cass. n. 22819/2010)ha sovrapposto “quel dovere di solidarietà costituzionalizzato dall’art. 2 Cost. che, applicato ai contratti, ne determina integrativamente il contenuto (art. 1374 c.c.), orienta l’interpretazione (art. 1366 c.c.) e l’esecuzione (art. 1375 c.c.), nel rispetto del principio per il quale ciascun contraente è tenuto a salvaguardare l’interesse dell’altro se ciò non comporta un apprezzabile sacrificio del proprio interesse“.
In conclusione, il Tribunale ha precisato che “gli elementi costitutivi dell’abuso sono tre: la titolarità di un diritto soggettivo, con possibilità di un suo utilizzo secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; l’esercizio concreto del diritto in modo rispettoso della cornice attributiva, ma censurabile rispetto ad un criterio di valutazione giuridico od extragiuridico; la verificazione, a causa di tale modalità di utilizzo, di una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare ed il sacrificio cui è costretta la controparte“.
Riconducendo tali principi al caso di specie, il Giudice adito ha ritenuto che il contratto di cessione d’azienda tra la s.r.l. e la s.n.c., si ponesse quale “operazione oggettivamente e sostanzialmente volta a rendere concretamente inesigibile il credito e ad eludere quindi le sue ragioni creditorie. Infatti, il titolo esecutivo del creditore è così divenuto opponibile solo nei confronti di una società non più esistente e svuotata da ogni patrimonio; ed inopponibile invece alla società sostanzialmente avente causa dalla prima, che con il suo patrimonio ne ha continuato l’attività“.
Testo del provvedimento
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Numero Protocolo Interno : 370/2015