ISSN 2385-1376
Testo massima
Il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento non va inteso come un riesame, e l’effetto devolutivo pieno va inteso nel senso che al reclamo non sono applicabili gli artt. 342 e 345 c.p.c., per cui le parti sono abilitate a proporre anche questioni non affrontate nel giudizio innanzi al tribunale. Ne consegue che il devolvibile non incontra i limiti dettati dalle citate disposizioni, ma il devoluto è pur sempre soltanto quello definito dal reclamo, e anche con dette precisazioni rimane ferma la facoltà per il reclamante di far valere profili o deduzioni istruttorie non già avanzati nel giudizio svoltosi avanti al Tribunale.
In materia fallimentare, il mancato deposito da parte dell’imprenditore chiamato in giudizio a seguito di un’istanza di fallimento, dei bilanci relativi agli ultimi tre esercizi e della documentazione aggiornata attestante la situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa, incide negativamente sulla valutazione circa la sussistenza dei requisiti di non fallibilità, la cui prova va desunta innanzi tutto dai bilanci o, anche, da documenti altrettanto significativi.
Questi i principi affermati dalla Corte di Cassazione, Sezione Prima, Pres. Ceccherini Rel. Di Virgilio, con sentenza n. 8226 del 22.04.2015.
Con la sentenza in esame, la Corte Suprema ha rigettato il ricorso della curatela fallimentare che sosteneva l’inammissibilità, in sede di reclamo ex art. 18 l. fall., delle deduzioni del fallito, volte a dimostrare l’insussistenza dei requisiti per potersi procedere alla dichiarazione di fallimento.
La curatela sosteneva, in particolare, che la mancata costituzione del soggetto poi dichiarato fallito, nella fase prefallimentare, comportasse una implicita rinuncia alle eccezioni consentite dall’art. 1 l. fall..
La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso della curatela, ha preliminarmente confutato la tesi proposta dalla curatela, che attribuiva alla mancata comparizione del debitore in sede prefallimentare la valenza di “rinuncia” all’eccezione.
Invero, “la disciplina della contumacia ex artt. 290 ss c.p.c., non attribuisce a questo istituto alcun significato sul piano probatorio, salva previsione espressa, con la conseguenza che si deve escludere non solo che essa sollevi la controparte dall’onere della prova, ma anche che rappresenti un comportamento valutabile, ai sensi dell’art. 116, primo comma, cod. proc. civ., per trarne argomenti di prova in danno del contumace” (cfr. Cass., n. 14860/2013. In senso parzialmente difforme, ma in periodo risalente, cfr. Cass. n. 5170/1987, nonché Cass. n. 1898/1990).
La “neutralità” del comportamento del contumace non può quindi comportare la presunzione iuris et de iure della sussistenza della rinuncia alla formulazione di eccezioni, né il procedimento di reclamo (pacificamente riconducibile nella categoria dei procedimenti camerali), prevede preclusioni particolari, che discendono da “decadenze” (pure inesistenti) sancite nella fase prefallimentare.
Ne deriva che, nonostante la natura impugnatoria dell’istituto del reclamo, nel procedimento ex art. 18 l. fall. è possibile formulare eccezioni che non siano state proposte nella fase prefallimentare ed articolare per la prima volta mezzi di prova (ivi compresa la produzione di documenti). Di conseguenza, non è possibile ritenere che il debitore, che non abbia partecipato alla fase prefallimentare e non si sia avvalso in quella particolare sede della facoltà di eccepire la mancata ricorrenza dei requisiti dimensionali per la dichiarazione di fallimento, non possa poi, in sede di reclamo ex art. 18 l. fall., formulare tale eccezione per la prima volta.
La Corte di Cassazione, con la pronuncia in commento, ha dunque ribadito un principio ormai consolidato, secondo cui il reclamo ex art. 18 l. fall. ha “un effetto devolutivo pieno, cui non si applicano i limiti previsti, in tema di appello, dagli artt. 342 e 345 c.p.c.”, chiarendo al contempo che tale “effetto devolutivo pieno” non debba essere confuso con un generico “potere/dovere di riesame” da parte della Corte di Appello, dal momento che “il devoluto è pur sempre soltanto quello definito dal reclamo”.
Pur richiamando la “pienezza” dell’effetto devolutivo del reclamo, quindi, il Collegio ne ha circoscritto notevolmente la portata, confermando il compatto orientamento secondo cui “il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, limitatamente ai procedimenti in cui trovi applicazione la riforma di cui al d. lgs. 12 settembre 2007, n. 169, è caratterizzato da un effetto devolutivo pieno, ma tale affermazione non implica che sia sufficiente ed idonea a provare il secondo giudizio la mera richiesta di riesame, perfino senza enunciazione dei motivi. Ne consegue che, pur se risulti attenuato il requisito dell’art. 342 c.p.c., nondimeno è inammissibile la deduzione di motivi di impugnazione [dinanzi alla Corte di legittimità, ndr.] nuovi e diversi rispetto a quelli addotti con l’atto introduttivo” (cfr. Cass., 13 giugno 2014, n. 13505. In senso conforme, cfr. Cass., 19 marzo 2014, n. 6306, richiamata anche nella pronuncia in commento; Cass., 5 giugno 2014, n. 12706, che evita ogni contraddizione tra forma e sostanza ed afferma chiaramente che il reclamo non ha effetto devolutivo pieno: “il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento ex art. 18 legge fall. (nella formulazione vigente ratione temporis, conseguente alla modifica introdotta con il d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169), deve contenere l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l’impugnazione e la relative conclusioni, ancorché non sia richiesta l’indicazione degli “specifici motivi” di cui all’art. 342 e 345 cod. proc. civ. Ne consegue che tale mezzo non ha carattere pienamente devolutivo poiché l’ambito dell’impugnazione resta circoscritto alle sole questioni tempestivamente dedotte dal reclamante, in ciò differenziandosi dal reclamo avverso il decreto di rigetto di cui all’art. 22 legge fall., che non richiede particolari forme volte a delinearne il contenuto ed ha piena natura devolutiva, attribuendo alla Corte d’Appello il riesame completo della res iudicanda, senza che l’ambito della sua cognizione sia limitato alla valutazione della fondatezza delle ragioni fatte valere dalla parte reclamante”).
Va aggiunto che la Corte Suprema si era già misurata con fattispecie analoghe a quella in esame, ribadendo il principio in forza del quale “l’impugnazione della sentenza dichiarativa di fallimento, limitatamente ai procedimenti in cui trova applicazione la riforma di cui al d.lgs. n. 169 del 2007, è caratterizzata da un effetto devolutivo pieno, cui non si applicano i limiti previsti, in tema di appello, dagli artt. 342 e 345 cod. proc. civ. Pertanto, il fallito, benché non costituito avanti al Tribunale, può indicare per la prima volta in sede di reclamo i mezzi di prova di cui intende avvalersi, al fine di dimostrare la sussistenza dei limiti dimensionali di cui all’art. 1, comma 2, legge fall.” (Cass. [Ord.], 6 giugno 2012, n. 9174; più recentemente, Cass., 24 marzo 2014, n. 6835, da cui si ricava che “il reclamo avverso la sentenza dichiarativa di fallimento ex art. 18 legge fall., come modificato dal d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, che ha ridenominato il precedente istituto dell’appello, adeguandolo alla natura camerale dell’intero procedimento, è caratterizzato, per la sua specialità, da un effetto devolutivo pieno. Ne consegue l’inapplicabilità dei limiti previsti dagli artt. 342 e 345 cod. proc. civ. in tema di nuove allegazioni e nuovi mezzi di prova, restando priva di conseguenze processuali la circostanza che la società fallita abbia dedotto solo in tale sede l’insussistenza della propria qualità di imprenditore commerciale“.
Relativamente alla mancata produzione dei bilanci relativi ai tre esercizi precedenti all’istanza di fallimento, la Corte ha precisato che “benché non abbiano valore di prova legale, i bilanci relativi agli ultimi tre esercizi sono la base documentale imprescindibile della dimostrazione che il debitore ha l’onere di fornire per sottrarsi alla dichiarazione di fallimento, a meno che la prova dell’inammissibilità del fallimento non possa desumersi da documenti altrettanto significativi“.
La prova dei requisiti di non fallibilità va desunta anzitutto dai bilanci, per cui la mancata produzione degli stessi non può che risolversi in danno del debitore, a meno che la prova dell’esenzione dal fallimento non possa desumersi da documentazione altrettanto significativa.
Testo del provvedimento
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