Testo massima
Si pubblica, e si allega, articolo giuridico a cura del Prof. avv. Fabrizio Maimeri
Ordinario di Diritto dei Mercati Finanziari Università Guglielmo Marconi di Roma
Studio Legale Maimeri Albano Ranalli – Roma
Prof. Avv. Fabrizio Maimeri
Art. 120, comma 2, TUB e le decisioni del Tribunale di Milano
La vicenda dei tempi di applicazione della versione vigente dell’art. 120, comma 2, TUB è approdata nelle aule di giustizia, proposta da un’Associazioni dei consumatori che aveva cominciato la sua azione nel novembre dello scorso anno inviando a molte banche una diffida a cessare la capitalizzazione in atto sui conti affidati, pena l’attivazione dell’azione inibitoria. A ciò è seguita, innanzi al Tribunale di Milano, VI sezione, la proposizione in via cautelare di un’azione inibitoria ai sensi dell’art. 140 cod. cons., che nel gennaio di quest’anno era stata rigettata per carenza di legittimazione attiva in capo all’Associazione istante e che invece a marzo, in sede di reclamo, è stata accolta con la concessione dell’inibitoria richiesta avendo ad oggetto le clausole sulla capitalizzazione nelle tipologie contrattuali di conto corrente denunciate.
La vicenda qui in esame perciò ha finora viaggiato, per così dire, su due binari, processuale l’uno e sostanziale il secondo: per il primo, c’era da verificare la legittimazione dell’Associazione istante; per il secondo, l’immediata applicabilità o meno della novella legislativa a far data dal 1° gennaio 2014. Sul primo profilo c’era qualche margine di dubbio; sull’altro molto meno, perché la VI sezione del Tribunale di Milano quella competente, fra gli altri argomenti, per le questioni inerenti a cause in materia di rapporti bancari e quindi anche per la controversia che l’Associazione consumatori voleva avviare aveva manifestato il proprio pensiero al riguardo nella “Relazione riunione sezione“, tenutasi in data 6 febbraio 2014, firmata dal presidente e consultabile su internet, pensiero che ovviamente è stato poi ribadito nel provvedimenti di cui sopra.
Siffatta Relazione si inquadra nell’ambito applicativo dell’art. 47-quater del r.d. 30 gennaio 1941 (“Ordinamento giudiziario“), rubricato “Attribuzioni del presidente di sezione”, in cui è scritto che il presidente di sezione, fra le altre funzioni, cura «lo scambio di informazioni sulle esperienze giurisprudenziali all’interno della sezione»: in questa logica deve essere stata convocata la riunione della sezione, avviata la discussione in ordine all’art. 120 TUB (in previsione che la questione sarebbe giunta all’esame dei giudici) e redatta poi la “Relazione“. Si tratta di un documento di conclusioni condivise, valutate in vitro, cioè senza alcun riferimento a un caso concreto e che pertanto non incidono sugli eventuali futuri giudizi resi dalla medesima sezione. È vero infatti che la Sezione potrebbe discostarsi dall’opinione emersa nella riunione formalizzata dalla Relazione, ma si consente alla cittadinanza di misurare con qualche maggiore precisione del solito la c.d. “alea del processo“. Forse quindi non è un caso che la questione si sia per la prima volta incardinata presso la sezione VI del Tribunale di Milano.
Acquisita la legittimazione di chiedere l’inibitoria in capo all’Associazione istante in quanto appartenente al novero di quelle di cui all’art. 137 c.cons., il diritto che, nella specie essa avrebbe avuto modo di tutelare sarebbe stato quello di correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali (art. 2, lett. e), violato dal comportamento di banche che mantengono nei propri formulari clausole divenute nulle per intervento legislativo. Discorso astrattamente ineccepibile, se però fosse certo e indubitabile che la clausola anatocistica sia davvero illegittima perché dal 1° gennaio 2014 trova applicazione il nuovo testo dell’art. 120, comma 2, TUB: e allora i due binari “paralleli“, in realtà paralleli non lo sono più. Tutto infatti, di contenuto processuale o sostanziale che sia, ruota intorno all’interpretazione di questo comma.
E il problema di questo comma non è solo ciò che dice, quanto piuttosto come lo dice: siamo di fronte a un ennesimo pasticcio del legislatore, rispetto al quale la magistratura ha preferito (almeno con i provvedimenti in esame) una prospettiva distruttiva anziché costruttiva. La complicazione della questione e la ristrettezza dello spazio obbliga a essere sintetici e anche un po’ apodittici, partendo inevitabilmente dalla norma prima di giungere alle decisioni in commento.
L’anatocismo è prassi bancaria di antichissima data, diffusa in molti paesi. Francia, Germania e Gran Bretagna la usano, diversamente fondandola; la Spagna no. Insomma, le banche possono vivere anche senza anatocismo, ma dove c’è è diventata una modalità di contabilizzazione accettata e diffusa. E non solo nei rapporti banca-cliente. Tanto per fare un esempio e non soffermarsi sui soliti criteri di calcolo degli interessi su titoli di Stato, si può ricordare che, nel recupero degli aiuti di Stato, l’Italia ha applicato il criterio dell’interesse composto e la Corte di giustizia della UE (causa C 89/14, conclusioni dell’avvocato generale Wathelet) ha ritenuto la correttezza di questo sistema. Ciò per dire che vi sono vari elementi nell’ordinamento (a parte l’alternanza 1283 c.c. / 120, comma 2, TUB) che militano a favore del riconoscimento della validità dell’anatocismo, nel senso che lo richiamano in relazione a differenziate fattispecie.
Da questa osservazione nasce una prima domanda: poiché le decisioni in commento si riferiscono alla tutela dei consumatori (potendo l’inibitoria concedersi solo a favore di questi ultimi) per i rapporti accesi con soggetti diversi appare lecito seguitare a mantenere la capitalizzazione anche dopo il 1° gennaio 2014. È vero insomma che la questione affrontata è di carattere generale, ma, anzitutto, essa è stata affrontata sub specie del consumatore e, in secondo luogo, è sfociata in un’inibitoria che solo i consumatori salvaguardia.
Che si tratti di argomentazioni valide per i consumatori lo si deduce da quel passaggio a dir poco discutibile, non foss’altro per le conseguenze irrazionali cui giunge secondo cui non varrebbe obiettare che anche nel 1999 (quando l’art. 120, comma 2, TUB fu introdotto per la prima volta) si attese, per l’efficacia dell’articolo, la delibera del CICR, «perché nel caso in esame ( ) l’eliminazione legislativa dell’anatocismo è destinata ad operare nelle operazioni bancarie in corso a vantaggio del correntista e, proprio sempre e in forza del principio del favor per il consumatore di matrice comunitaria, ampiamente applicato nell’ordinamento positivo, non può una norma regolamentare procrastinare l’entrata in vigore di una simile disposizione di legge». Insomma se il ritardo cui si va incontro attendendo, come dice la legge, una delibera del CICR torna a svantaggio delle banche, va bene; se torna a svantaggio del consumatore, non è accettabile e si fa entrare in vigore la norma più favorevole senza attendere il Comitato.
Merita quest’argomento una piccola riflessione: che vi sia un favor per il consumatore nella giurisprudenza è indubbio, ma chi ha detto che esso debba essere condotto a giustificare una disparità di trattamento assolutamente priva di logica? Se una legge ha bisogno di un intervento di altra autorità per essere applicabile, attenderlo fa parte del completamento dell’iter legislativo ed eliminare l’attesa per alcuni e non per altri non sembra proprio un grande esempio di tutela dei consumatori, quanto piuttosto di disparità di trattamento irragionevole e ingiustificata.
Si dirà e i provvedimenti lo dicono che il divieto di anatocismo è self explaning nell’incipit del comma 2 TUB: si può dire che il divieto è evidente quanto nel 1999 lo era che l’anatocismo fosse (di nuovo) legittimo. Ma non si ritiene proprio possibile che l’anatocismo sarebbe quel che è stato fino al 31 dicembre 2013 senza la delibera del CICR del 9 febbraio 2000; e non si ritiene che il divieto possa essere completo e applicabile senza la delibera prevista. Si vuol dire cioè che a prescindere dall’argomento di principio, e che dovrebbe essere assorbente, secondo cui ove il legislatore abbia ritenuto necessario un intervento ulteriore non sta all’interprete sindacarne l’esigenza la situazione (a parte la riflessione sul cui prodest) sia la stessa di allora e il divieto senza le regole di applicazione non ha senso.
Qualcuno potrà dire che questi sono inconvenienti applicativi che non possono far premio sulla immediata utilizzabilità del divieto. Ma non è così: quelle che hanno esemplificato i provvedimenti e le molte altre che sono tralasciate, sono cose che la delibera deve scrivere perché altrimenti rimane un flatus vocis il divieto, come sarebbe rimasto tale l’ammissibilità dell’anatocismo nel 1999. E non per motivi tecnici, ma per motivi di completezza giuridica della norma. In altri termini non sembra corretto ragionare nel senso che il legislatore ha disposto un divieto; ha anche disposto che esso sia “completato” (ognuno interpreti come vuole questo verbo) da una delibera del CICR; l’ha fatto perché ritiene che il divieto come enunciato non si reggerebbe, non sarebbe applicabile e non per fare un piacere o un dispiacere a chi il complesso normativo è chiamato a rispettare.
L’intervento del CICR è vitale per capire l’applicazione del divieto così come per compiere la disciplina dell’anatocismo la delibera del CICR del 2000.
E non pare soddisfacente ritenere che questo complesso e articolato iter normativo debba essere abbreviato per tutelare i consumatori: un divieto che non si sa come applicare non è una tutela, è un disastro; non è una salvaguardia, è l’anticamera di un contenzioso ripetitivo; non è un sistema per evitare danni maggiori (come sembra dire in un passaggio il Tribunale), è la strada migliore per crearne di nuovi.
È evidente che le cose sarebbero sicuramente messe meglio se il legislatore, nello scrivere il nuovo comma 2 dell’art. 120 TUB avesse avuto una mano più felice. Pare troppo semplicistica e trascurata l’analisi testuale che fa il Tribunale (del resto non era suo compito approfondire il punto), ma intanto occorre stabilire a quali operazioni si applichi il divieto: ai mutui sembrerebbe non applicarsi, vista la formulazione della lett. b) e l’uso del termine “capitalizzazione” che ai mutui non s’attaglia; la capitalizzazione non sarebbe mai consentita e non invece, come sembrerebbe a prima lettura, ne sarebbe consentita una e poi basta; gli interessi maturati separatamente quando vengono pagati? Se l’anatocismo non esiste più, non dovrebbe esistere neppure per i conti di deposito (al contrario di quanto sembra dire il Tribunale, sia pure in un contesto diverso). Queste osservazioni ed altre se ne potrebbero aggiungere se da un lato rendono tanto più necessario un intervento preventivo del CICR, dall’altro denunciano una tecnica legislativa sciatta e inaccurata. Tecnica sciatta e inaccurata che è il classico gatto che si morde la coda certo non aiuta il Comitato a elaborare la delibera richiesta.
È proprio di fronte a questa situazione, certo non ascrivibile alla magistratura (alle prese, come ogni operatore giuridico, con una difficile e sconsolante attività di ricostruzione semantica prima ancora che giuridica), che si sperava che quest’ultima riuscisse a discernere un orientamento che aiutasse a comporre la questione e non a renderla più complicata e radicale.
Non v’è dubbio infatti che le decisioni milanesi non forniscono chiarezza al problema.
Innanzitutto, accreditano una distinzione fra consumatori e altra clientela a fronte di un tema che è sempre stato trasversale e ha riguardato tutti i clienti della banca (e, dal 1999, delle finanziarie); si fondano su una motivazione, già elaborata nella “Relazione“, che presenta troppi punti deboli (alcuni li si è visti, altri li si esamineranno) per non innescare un contenzioso che non giova né ai clienti né alle banche; certo non stimolano il CICR a intervenire con tempestività, visto che ben può farsene a meno perché è sufficiente la norma primaria.
A parte il comportamento delle tre banche di cui finora si conosce il coinvolgimento nelle decisioni (che deriverà da scelte in funzione del rischio di impresa e che non tralascerà ogni forma di tutela consentita dall’ordinamento contro i provvedimenti subiti), è arduo pensare che le altre si adeguino al pensiero del Tribunale milanese senza passare per ulteriori controversie. Certo alcune variabili sono ancora sconosciute: (i) il Tribunale milanese è fonte autorevole di diritto vivente, ma non è detto che non si possano registrare opinioni contrarie altrettanto favorevoli; (ii) potrà essere interpellato l’Arbitro Bancario Finanziario, il cui orientamento potrà avere qualche peso; (iii) potrà intervenire di nuovo il legislatore primario, se non per reintrodurre l’anatocismo per migliorare la disposizione che lo elimina.
È evidente che l’avviarsi a soluzione in un modo o nell’altro dei nodi menzionati influirà sulla questione; ma non è necessario essere dotati di poteri precognitivi per prefigurare, nel breve, un incremento del contenzioso, di cui forse la nostra organizzazione giudiziaria non sentiva propriamente la necessità.
Cosa poteva fare allora la magistratura? Ha scelto una delle vie estreme e quindi non è difficile ipotizzare soluzioni meno traumatiche, magari inserendo nella motivazione (e nella “Relazione“) anche elementi oggettivi che, quanto meno, meritavano una valutazione. Per esempio, poteva sottolineare il comportamento omissivo del CICR e auspicare una sollecitazione dello stesso, formale o informale: l’ordinamento consente strumenti per incidere sul ritardo o sull’omissione degli organi di controllo e pure qui essi possono essere attivati, soprattutto in presenza di una “spinta” della magistratura. Poteva tener conto della vicenda legislativa di giugno dello scorso anno (d.l. non convertito), che per la verità i provvedimenti nominano e da cui traggono conferma del fatto che la volontà del legislatore fosse nel senso di stabilire il divieto di anatocismo. Già di per sé la conclusione è ambigua: un cambio di direzione, sia pure “stoppato” in sede di conversione, può voler dire conferma della direzione precedente ma anche incertezza sulla stessa. E questa seconda lettura appare avvalorata dall’ordine del giorno di cui motivazioni e “Relazione” non fanno cenno votato dal Parlamento che ha impegnato al Governo:
a) «correggere le incertezze operative e i vuoti della disciplina dovuti alla vigente normativa»: viene riconosciuto quanto meno che il presunto divieto di anatocismo per come si configura nel suo complesso (cioè nella totalità del comma 2 e non nella formulazione del solo incipit) è fonte di incertezze e quindi non è esso stesso certo, proprio per le questioni interpretative che lascia aperte (in ciò dovrebbero consistere «i vuoti della disciplina»);
b) prevedere la produzione degli interessi sugli interessi e, nelle operazioni in conto corrente, con una specifica periodicità: l’ordine del giorno approvato impegna il Governo a un indirizzo che è opposto a quello che la Relazione e i provvedimenti sono pronta a vedere nel disposto del vigente art. 120 TUB che dall’ordine del giorno medesimo riceve quanto meno una patente valutazione di inadeguatezza, di incompiutezza, di scarsa chiarezza.
C’è sicuramente di che riflettere su questa, ancora una volta, ingarbugliata situazione legislativa, che, a ben vedere, da giugno a oggi si snoda in senso opposto a quello del vigente art. 120, comma 2, TUB. Gli elementi di riflessione o non sono stati per nulla presi in considerazione o sono stati troppo superficialmente risolti nel senso che si era deciso di seguire per un favor verso il consumatore che però qui non aiuta. Si dirà che il legislatore interpreta e applica la legge e non si cura di quello che legge non è, decreti legge decaduti o ordini del giorno parlamentari. Una simile affermazione sarebbe però abbastanza ingenua e contraddetta dalle molte volte in cui la magistratura con esiti diversamente apprezzati, ma questo è inevitabile ha avuto la sensibilità di andare oltre il tenore letterale della disposizione e tener conto dell’evoluzione di altri elementi che non necessariamente avevano una valenza vincolante o squisitamente giuridica.
Poteva, seguitando nell’ordine delle possibilità che si sta prospettando, offrire una lettura più attenta del parere reso dalla Banca d’Italia il 17 ottobre del 2014, e pubblicato in un articolo di Marcelli : certo è un parere e vale come tale, ma non è corretto svalutarne il contenuto come mostrano di fare i provvedimenti esaminati. A chi lamentava l’applicazione in conto corrente di interessi usurari e anatocistici, la Banca d’Italia ha osservato che «la verifica dell’usurarietà dei tassi applicati e le conseguenti valutazioni di carattere civile e/o penale [sono] rimesse esclusivamente al vaglio dell’Autorità giudiziaria», confermando, con riguardo all’applicazione degli interessi anatocistici, «che l’art. 120 del TUB ammette la produzione di interessi su interessi a condizione che le banche rispettino i criteri di trasparenza e correttezza fissati nella delibera CICR del 9 febbraio 2000 e che sia prevista la stessa periodicità nella capitalizzazione degli interessi debitori e creditori. Pertanto, a partire dall’entrata in vigore della citata delibera, è legittima la produzione di interessi su interessi qualora, fermi restando i predetti organi di trasparenza e pari periodicità, la relativa clausola sia espressamente pattuita nel contratto di conto corrente e specificatamente approvata per iscritto dal cliente. Peraltro, poiché la legge 27 dicembre 2013, n. 147 ha riformulato parzialmente il predetto art. 120 TUB come da Lei precisato le modalità e i criteri di attuazione del nuovo quadro normativo sono attualmente in via di definizione».
Non credo si possa desumere da ciò che la Banca d’Italia sia stata neutra sul problema che ci occupa: cosa vuol dire che i criteri di attuazione del nuovo quadro normativo sono ancora in attuazione? Che fino a quando non saranno definiti l’intero quadro normativo non potrà funzionare e quindi rimarrà in vigore quello previgente.
Forse è lo stesso Tribunale di Milano che non crede fino in fondo alla saldezza delle proprie argomentazioni: infatti non si saprebbe come spiegare, a meno di un improvviso quanto inaspettato favor verso le banche, l’affermazione per cui «non si ravvisano ( ) i presupposti per le previsioni di penali per ogni inadempimento o per ogni giorno di ritardo nell’osservanza del presente provvedimento». La sterilizzazione dell’art. 140, comma 7, cod. cons., consente alle banche di avere più tempo per adempiere, non cambia la situazione quale la si è delineata, ma certo rappresenta un finale un po’ a sorpresa (gradito per le banche) di un copione scritto con discreto disinteresse per le tesi contrarie a quelle predilette.
L’apoditticità delle decisioni non certo preconfezionate sulla Relazione, ma sicuramente suscettibili di maggiore approfondimento fa anche riflettere su un ultimo profilo problematico, appena accennato poco sopra: è politicamente corretto eliminare l’anatocismo dall’ordinamento vigente? A fronte di una prassi diffusa nella maggior parte dei Paesi dell’Unione, come si giustifica la circostanza che allo stesso consumatore una delle banche condannate dai provvedimenti commentati debba disapplicare l’anatocismo per il conto che ha acceso in una filiale italiana e deve mantenerlo per quello in essere presso la filiale di un paese comunitario?
Se il legislatore avesse avuto miglior memoria, invece di inserire (secondo la consueta tecnica del colpo di mano) in una legge di stabilità una disposizione di divieto dell’anatocismo della quale non si sentiva particolare necessità (una volta acquisita la parità di periodizzazione ogni questione di squilibrio doveva ritenersi eliminata) né vi era stato un preventivo dibattito né alcun tipo di approfondimento per la quale non c’era stata alcuna preparazione sostanziale, avrebbe dovuto rammentarsi che proprio la necessità di evitare il gap competitivo a livello comunitario (e oltre) spinse il legislatore a intervenire con l’art. 120, comma 2, TUB, sostituendo “in corsa” il fondamento dell’anatocismo (dagli usi alla delibera del CICR).
Ora come allora, si tratta di risolvere una situazione tanto più delicata in quanto crea un gap competitivo privo di giustificazioni soddisfacenti a fronte di una uniformità di comportamento che va avanti da oltre un secolo e che garantisce uniformità di prassi a livello europeo e, in qualche misura mondiale (anche negli USA e in Giappone le banche seguono il criterio della capitalizzazione).
Che di fronte a tutte queste perplessità, l’interpretazione dell’art. 120, comma 2 TUB proposta così apoditticamente e superficialmente dal Tribunale di Milano sia quella giusta, si fa davvero molta fatica ad accettarlo.
Testo del provvedimento
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