ISSN 2385-1376
Testo massima
In sede di legittimità, non si configura un omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ove quest’ultimo sia stato comunque valutato dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie e, dunque, anche di quel particolare fatto storico, se la motivazione resta scevra dai vizi giuridici.
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 348 ter, primo e penultimo comma, c.p.c. in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, commi 6 e 7, Cost., laddove consentono, rispettivamente, che sia succintamente motivata l’ordinanza che dichiara l’inammissibilità dell’appello ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., ovvero che sia esclusa la ricorribilità in cassazione ai sensi del nuovo n. 5 dell’art. 360, c.p.c., quando l’inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata. Ciò perché un secondo grado di giudizio di merito non è oggetto di garanzia costituzionale davanti al giudice ordinario e poi perché, dinanzi alle crescenti criticità da cui è affetto il secondo grado di giudizio, è coerente con un tentativo di recupero di funzionalità del sistema la semplificazione del relativo processo ed il mantenimento di un livello di garanzia, mediante il ricorso per cassazione diretto contro la sola pronuncia di primo grado, ancorato alla limitazione delle caratteristiche estrinseche della motivazione del provvedimento conclusivo di quel grado, non idoneo ad impedire, sia pure a prezzo di un modesto maggiore impegno dell’interessato, l’esercizio del diritto di difesa (conf. Cass. ord. n. 10723 del 2014).
Questi i principi enunciati dalla Sezione Sesta della Corte di Cassazione nella sentenza pronunciata l’11 dicembre 2014, n. 26097.
La sentenza in commento, dopo aver attentamente esaminato i due provvedimenti impugnati – ordinanza di inammissibilità ex art. 348-bis c.p.c., emessa dalla Corte d’Appello di Venezia, e sentenza di rigetto di primo grado, emessa dal Tribunale di Treviso ha ritenuto infondati i cinque motivi di ricorso, condannando per l’effetto la società ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, nonché al versamento del supplemento, a titolo di contributo unificato, previsto dall’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115/2002.
La società ricorrente, soccombente in primo grado, ricorreva in appello avverso la sentenza del giudice di prime cure, con la quale venivano rigettate entrambe le domande da essa proposte, l’una di annullamento per dolo dei contratti di acquisto di un’imbarcazione per viaggi collettivi con conseguente concessione in leasing, l’altra di opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto dalla società convenuta per il mancato pagamento di canoni e conseguente risoluzione del contratto di leasing.
Il giudice del gravame, però, esaminato il ricorso proposto, lo rigettava con ordinanza di inammissibilità ex art. 348-bis c.p.c., ritenendo l’impugnazione mancante di quella ragionevole probabilità di accoglimento richiesta dalla nuova norma.
Il ricorso rigettato dalla Suprema Corte si articolava in cinque motivi di impugnativa:
– nullità della sentenza per insanabile contradditorietà della motivazione su un punto decisivo della controversia, avendo il Tribunale di Treviso ritenuto la natura dell’imbarcazione acquistata dalla società ricorrente “di fatto nuova”, sebbene lo stesso giudice ne avesse già accertato la sua precedente concessione ad opera di una terza società;
– violazione dell’art. 1337 c.c., avendo il giudice di prime cure escluso la sussistenza di una responsabilità precontrattuale delle convenute per il solo fatto che quegli stessi comportamenti omissivi invocati dalla ricorrente non potessero integrare la fattispecie di dolo contrattuale;
– violazione dell’art. 112 c.p.c., non avendo il giudice adeguatamente motivato il rigetto della eccezione sollevata ex art. 1460 c.c.;
– nullità della sentenza per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, già oggetto di discussione tra le parti, nonché illegittimità costituzionale dell’art. 348-ter c.p.c. nella parte in cui esclude la ricorribilità in Cassazione ex art. 360, comma 1, n. 5 della sentenza di primo grado;
– nullità dell’ordinanza della Corte di Appello per mancanza assoluta di motivazione, nonché illegittimità costituzionale dell’art. 348-ter c.p.c. per contrasto con gli artt. 3-24-111 Cost. nella parte in cui prevede solo una succinta motivazione dell’ordinanza di inammissibilità.
I cinque motivi così articolati sono stati tutti ritenuti infondati dalla Suprema Corte, la quale ha preliminarmente esaminato il problema della carenza assoluta di motivazione dell’ordinanza di inammissibilità e le connesse questioni di legittimità in ordine al presunto contrasto tra l’art. 348-ter e gli artt. 3 e 24, nonché 111, commi 6 e 7, Cost, e successivamente i restanti motivi di ricorso.
I. Quanto al problema della carenza motivazionale dell’ordinanza di inammissibilità ex art. 348-bis c.p.c., la Corte di Cassazione, ribadendo che il provvedimento in esame non è mai autonomamente impugnabile – secondo quanto già stabilito da copiosa giurisprudenza e che non esiste il diritto costituzionalmente garantito ad una duplice disamina nel merito assistita da una motivazione ampia ed esauriente, ritiene l’impugnativa de qua già di per sé infondata.
A ciò si aggiunga che, essendo intervenuta la riforma operata con Legge n. 134/2012 ed avendo essa stessa l’obiettivo di ridurre il carico in appello e di contenerne i tempi processuali, è ammissibile una motivazione succinta nel caso in cui il giudice d’appello consideri il gravame non avere una ragionevole probabilità di accoglimento già ad un primo preliminare e sommario esame.
Pertanto, la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente nell’ultimo motivo di ricorso risulta manifestamente infondata, essendo la sommarietà del preliminare esame coerente con i tentativi di eliminazione delle criticità del secondo grado di giudizio e di recupero della funzionalità del sistema.
II. Egualmente infondata risulta la prima questione di legittimità costituzionale sollevata in ordine al contrasto tra l’art. 348-ter e gli artt. 3, 24 e 111, commi 6 e 7, Cost. nella parte in cui esclude la ricorribilità in Cassazione della sentenza di primo grado ex art. 360, comma 1, n. 5 allorquando la pronuncia di inammissibilità del giudice d’appello si sia fondata sulle stesse ragioni di fatto poste a base della decisione impugnata.
La ratio sottesa alla eliminazione del controllo di legittimità in caso di cosiddetta “doppia conforme” è la medesima posta a base del preliminare filtro in appello: accelerare i tempi di definizione della controversia, lasciando, però, immutate le garanzie costituzionali di base del diritto di azione.
A parere della Corte, il diritto di azione non esclude, ma anzi impone il ricorso a forme semplificate di definizione, essendo evidente la loro capacità deflattiva del carico e quindi la loro idoneità a mettere in grado il sistema giudiziario di far fronte al maggior numero possibile di controversie in un tempo accettabile.
A maggior ragione, dunque, qualora il convincimento del giudice del gravame si sia fondato sulle stesse ragioni di fatto poste a base del provvedimento impugnato, è giusto limitare l’accesso al giudizio di legittimità.
III. Quanto al primo motivo di ricorso, la Corte di Cassazione ha ritenuto innanzitutto applicabile al caso di specie la novella dell’art. 360 introdotta con Legge n. 134/2012, essendo la sentenza impugnata pubblicata dopo l’11 settembre 2012.
Ciò posto, la Suprema Corte ha dichiarato infondato il motivo in questione non sussistendo il nuovo requisito previsto dall’art. 360, comma 1, n. 5, ossia di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.
La nuova formulazione della norma richiede, infatti, affinché si possa ricorrere in Cassazione, che la motivazione sia affetta da vizi giuridici, oppure manchi del tutto, oppure sia articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi, oppure obiettivamente incomprensibili.
Nel caso di specie, non solo tali vizi non sarebbero ravvisabili, ma soprattutto il giudice dell’appello avrebbe esposto in maniera chiara e comprensibile i motivi a sostegno della sua nuova ricostruzione di merito.
IV. Quanto al secondo e terzo motivo, la Suprema Corte ha ritenuto entrambe le doglianze infondate non sussistendo, nel primo caso, alcuna confusione da parte del giudice di prime cure in ordine alle figure di responsabilità precontrattuale e dolo contrattuale e, nel secondo caso, essendo stata adeguatamente motivato il rigetto dell’eccezione sollevata ai sensi del 1460 c.c.
La sentenza in commento è, con tutta evidenza, ricca di spunti di riflessione, soprattutto tenuto conto dell’ancora dibattuta riforma del secondo grado di giudizio.
La Legge n. 134/2012, di conversione del D.L. n. 83/2012, ha apportato rilevanti modifiche alla struttura dell’appello civile, sia per quanto riguarda il procedimento che l’atto.
Di certo, la modifica più rilevante è rinvenibile nell’art. 348-bis c.p.c., con il quale si è introdotto quell’obbligatorio “filtro” preliminare grazie al quale il giudice del gravame è tenuto a dichiarare l’inammissibilità dell’impugnazione allorquando quest’ultima risulti non avere alcuna ragionevole probabilità di accoglimento.
Le reazioni della dottrina non sono state concordi, essendo il “filtro” considerato da alcuni come uno strumento eccessivo non in grado di aiutare il giudice a comprendere a pieno la fondatezza del gravame con un esame sommario della vicenda; per altri, viceversa, risultando non in grado di ridurre i tempi processuali giacché obbliga il giudice d’appello ad approfondire lo studio della questione sin dal primo momento.
Invero, la questione da risolvere è piuttosto da individuare nella interpretazione della locuzione “ragionevole probabilità”.
Cosa si intenda per “ragionevole probabilità di accoglimento” è ancora un interrogativo al quale dottrina e giurisprudenza non sono state in grado di dare una univoca risposta.
Sono almeno cinque le tesi fin ad ora elaborate dai più recenti commentatori (cfr. L. VIOLA, Il nuovo appello filtrato le modifiche introdotte dal Decreto “Cresci Italia” (Montecatini Terme 2012) p. 31 ss):
– tesi della probabilità giurisprudenziale;
– tesi dei due terzi;
– tesi della manifesta infondatezza;
– tesi della ragionevolezza;
– tesi del fumus boni iuris rafforzato.
La tesi maggiormente accreditata è l’ultima, ossia quella per la quale, al pari del giudizio sul fumus boni iuris per l’emissione di una misura cautelare, ciò che conta è che prima facie il diritto da salvaguardare appaia verosimile e possibile alla luce degli elementi di prova sussistenti. L’unica differenza con il giudizio cautelare consisterebbe nel quid pluris statistico richiesto per superare l’ostacolo dell’inammissibilità, ossia l’esistenza non già di una possibilità, bensì di una probabilità.
A parere dello scrivente, egualmente degna di considerazione è la tesi della ragionevolezza, per la quale è probabilmente accoglibile quella domanda che appare ragionevole, ossia adeguatamente motivata.
A sostegno di questa ricostruzione, infatti, vi è soprattutto la espressa richiesta di motivazione prescritta dall’art. 342 c.p.c. novellato, in luogo della precedente esposizione sommaria dei fatti e specificità dei motivi.
La motivazione richiesta, pertanto, sarebbe funzionale al superamento del filtro preliminare, per cui solo l’atto adeguatamente motivato potrebbe evitare la pronuncia di inammissibilità ex art. 348-bis c.p.c.
Testo del provvedimento
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Numero Protocolo Interno : 13/2014