ISSN 2385-1376
Testo massima
Il contratto di “sale and lease back” – in forza del quale un’impresa vende un bene strumentale ad una società finanziaria, la quale ne paga il prezzo e contestualmente lo concede in locazione finanziaria alla stessa impresa venditrice, verso il pagamento di un canone e con possibilità di riacquisto del bene al termine del contratto per un prezzo normalmente molto inferiore al suo valore – configura un contratto d’impresa socialmente tipico che, come tale, è, in linea di massima, astrattamente valido, ferma la necessità di verificare, caso per caso, la presenza di elementi sintomatici atti ad evidenziare che la vendita è stata posta in essere in funzione di garanzia ed è volta, pertanto, ad aggirare il divieto del patto commissorio. A tal fine, l’operazione contrattuale può definirsi fraudolenta nel caso in cui si accerti la compresenza delle seguenti circostanze: l’esistenza di una situazione di credito e debito tra la società finanziaria e l’impresa venditrice utilizzatrice, le difficoltà economiche di quest’ultima, la sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo versato dall’acquirente.
Non vale a configurare un’ipotesi di patto commissorio la clausola che, nell’ambito del contratto di “sale and lease back”, pur imponendo all’utilizzatore, in caso di risoluzione per inadempimento, l’obbligo di corrispondere i canoni scaduti ed a scadere attualizzati e il prezzo di opzione attualizzato, prevedendo la detrazione, da tale importo del valore dell’immobile, riconduce ad equità la clausola stessa.
Pur a fronte dell’eventuale risoluzione per inadempimento della controparte, ove l’entità del risarcimento è tale da non determinare alcuna indebita locupletazione in capo alla concedente, il quale non avrà nulla più di quanto avrebbe avuto in caso di regolare adempimento del contratto.
Questi i principi espressi dal Tribunale di Brescia, in persona della dott.ssa Alessia Busato, con la sentenza del 27 ottobre 2014 in materia di contratto di “sale and lease back”.
Nel caso di specie, una società (per comodità, Alfa) subentrava in un contratto di leasing stipulato tra altra società (per comodità, Beta) ed una banca avente ad oggetto un complesso immobiliare ad uso commerciale.
In particolare, Beta non riuscendo a reperire le risorse economiche necessarie per curare i lavori di finitura del predetto complesso immobiliare, pagare gli ingenti debiti degli appaltatori e fornitori e far fronte al mutuo stipulato con una banca concordava la cessione a quest’ultima dell’area già edificata e la contestuale conclusione di un contratto di leasing con erogazione alla società in più tranches di un finanziamento che avrebbe consentito di estinguere i debiti, terminare i lavori di fornitura e riacquistare l’immobile al termine del contratto.
Tanto premesso in punto di fatto, Alfa citava in giudizio l’istituto di credito deducendo che i contratti conclusi tra Beta e la banca integravano un patto commissorio e chiedeva, quindi, la dichiarazione di nullità di tali contratti, con conseguente condanna della concedente alla restituzione di quanto percepito a titolo di canoni di leasing; a tal uopo chiedeva nominarsi CTU contabile per determinare l’esatta entità dei canoni.
In disparte le numerose questioni preliminari analizzate, merita particolare attenzione la motivazione del Tribunale in ordine all’infondatezza della domanda di dichiarazione di nullità del contratto di leasing, e del collegato contratto di compravendita, per violazione del divieto di patto commissorio.
Come noto, il c.d. «sale and lease back» è un’operazione relativamente complessa che dà luogo a un contratto sinallagmatico, mediante il quale un’impresa vende un bene strumentale di sua proprietà ad una società finanziaria (concedente) la quale ne paga il prezzo e contestualmente lo concede in locazione finanziaria alla stessa impresa venditrice, dietro pagamento di un canone periodico e con la possibilità di riacquisto del bene al termine del contratto, mediante l’esercizio di un diritto di opzione, per un prezzo normalmente molto inferiore al valore del bene.
Questa figura risponde ad una struttura e a dei connotati dotati, pur nella sua formale atipicità, di una certa standardizzazione e dalla ricorrenza di determinati caratteri tali da rendere la stessa considerabile come un contratto «socialmente tipico», lecito ed ammissibile in quanto distinto dal patto commissorio, vietato dall’art. 2744 c.c., in quanto essa presuppone quanto meno l’inesistenza di un precedente credito da garantire; la strumentalità della vendita rispetto al successivo contratto di leasing; l’assenza di condizioni nel contratto di vendita; la necessità di un’altra manifestazione di volontà (un’opzione) per far sì che la proprietà ritorni al venditore-utilizzatore, con assenza di ogni automatismo nel ritrasferimento, l’obbligo di pagamento di un canone di utilizzazione e la necessità dell’erogazione di un’ulteriore somma per esercitare la facoltà di riscatto del bene.
Proprio la permanenza, di regola, del bene oggetto del c.d. “sale and lease back” nel possesso dell’utilizzatore, oltre al fatto che egli continui ad usarlo corrispondendo canoni periodici di leasing, con la possibilità di riacquisto al termine del contratto, rendono indubbie le somiglianze tra questa fattispecie contrattuale e le alienazioni a scopo di garanzia. Per tale ragione, occorre chiedersi se ed a quali condizioni sia possibile che il contratto di lease back possa costituire il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa.
Orbene, la sentenza in commento si è soffermata proprio su questo tema, richiamando alcuni indici rivelatori della fraus legis in rapporto alla figura negoziale in discorso, ossia in particolare:
1)la presenza di una situazione di credito e debito tra la società finanziaria (concedente) e l’impresa venditrice utilizzatrice, preesistente o contestuale alla vendita;
2) le difficoltà economiche dell’impresa venditrice, legittimanti il sospetto di un approfittamento della sua condizione di debolezza;
3) la sproporzione tra il valore del bene trasferito e il corrispettivo versato dall’acquirente, che confermi la validità di tale sospetto.
Nel caso di specie, a seguito di consulenza tecnica d’ufficio, il Tribunale ha potuto accertare la non sussistenza dell’ultima circostanza (sproporzione tra il valore del bene ed il corrispettivo versato).
Gli altri due elementi non risultavano né allegati né tanto meno provati nel corso del giudizio.
Anzi, con riferimento alla difficoltà economica dell’impresa venditrice, il Tribunale ha chiarito in quali casi si può escludere l’elemento dell’approfittamento.
In particolare, ha affermato che “la clausola (
) del contratto, (
) pur imponendo all’utilizzatrice, in caso di risoluzione per inadempimento l’obbligo di corrispondere i canoni scaduti ed a scadere attualizzati e il prezzo di opzione attualizzato, prevedendo la detrazione, da tale importo del valore dell’immobile, riconduce ad equità la clausola stessa. Infatti l’entità del risarcimento è tale da non determinare alcuna indebita locupletazione in capo alla concedente che, a fronte dell’eventuale risoluzione per inadempimento della controparte, non avrà nulla più di quanto avrebbe avuto in caso di regolare adempimento del contratto”.
In conclusione, la sentenza in commento, sulla scorta dei precedenti della Corte di legittimità in tema di lease back, nell’individuare la ratio del divieto di cui all’art. 2744 c. c., sembra attribuire maggior rilievo all’esigenza di impedire che il creditore, approfittando dello stato di debolezza del debitore, acquisisca l’eccedenza di valore del bene oggetto della garanzia rispetto al credito garantito; conseguentemente vede nella sproporzione tra l’entità del debito ed il valore del bene alienato in garanzia, un significativo segnale di una situazione di approfittamento della debolezza del debitore da parte del creditore.
Testo del provvedimento
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