ISSN 2385-1376
Testo massima
Il trust costituisce strumento idoneo a vincolare i beni di terzi al buon esito della procedura concordataria, a condizione che l’elevato rischio di revoca dell’atto di dotazione da parte dei creditori del disponente non impedisca al trust di svolgere la sua funzione, cioè di garantire che l’apporto sia mantenuto alla finalità a cui il piano lo destina.
L’attribuzione al disponente di un illimitato potere di modificare l’atto istitutivo di trust determina l’irriconoscibilità del trust nell’ordinamento italiano, poiché l’art. 2 della Convenzione de L’Aja richiede che i beni siano posti sotto il controllo del trustee.
La modificazione ad nutum dell’atto istitutivo di trust da parte del disponente (con variazione delle finalità originarie e rideterminazione dell’assetto dei beni in trust), la designazione a guardiano dei disponente (individuato anche come beneficiario), la compiacenza del trustee (legato da stretti vincoli di parentela col disponente e a sua volta beneficiario), la pretermissione degli interessi di alcuni beneficiarî costituiscono indizi della mancanza della volontà di istituire un trust e della permanenza del controllo dei beni in capo al disponente, oltre che indici sintomatici di simulazione (sham).
Questi sono gli interessanti principi in materia di trust enunciati con la sentenza del 8 ottobre 2014 dal Tribunale di Reggio Emilia, chiamato a pronunciarsi sulla “fattibilità giuridica” di una proposta concordataria.
Nel caso sottoposto all’attenzione del Collegio, i disponenti di un trust modificavano il relativo atto istitutivo prevedendo, nella prospettiva del concordato preventivo, che il 100% del ricavato dall’alienazione dei beni in trust venisse destinato al finanziamento della società e, al tempo stesso, prevedendo l’integrale soppressione di un’altra posizione beneficiaria.
Secondo l’art. 2 della Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, relativa alla legge applicabile ai trust ed al loro riconoscimento, resa esecutiva in Italia con L. 16 ottobre 1989, n. 364, per trust s’intendono “i rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine determinato”, caratterizzato dal fatto che “i beni in trust costituiscono una massa distinta e non sono parte del patrimonio del trustee” venendo essi “intestati al trustee o ad un altro soggetto per conto del trustee”, che ha il potere e l’obbligo, “di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre dei beni in conformità alle disposizioni del trust e secondo le norme imposte dalla legge al trustee“.
Ciò che caratterizza in generale il trust, secondo la definizione dell’art. 2 della Convenzione, è lo scopo di costituire una separazione patrimoniale in vista del soddisfacimento di un interesse del beneficiario o del perseguimento di un fine dato. I beni vengono separati dal restante patrimonio ed intestati ad altro soggetto, parimenti in modo separato dal patrimonio di quest’ultimo.
Tuttavia, il “programma di segregazione” corrisponde solo allo schema astrattamente previsto dalla Convenzione, laddove il programma concreto non può che risultare sulla base del singolo regolamento d’interessi attuato, la causa concreta del negozio, secondo la nozione da tempo recepita dalla Corte di Cassazione. Quale strumento negoziale “astratto”, il trust può essere piegato invero al raggiungimento dei più vari scopi pratici; occorre perciò esaminare, al fine di valutarne la liceità, le circostanze del caso di specie, da cui desumere la causa concreta dell’operazione: particolarmente rilevante in uno strumento estraneo alla nostra tradizione di diritto civile e che si affianca, in modo particolarmente efficace, ad altri esempi di intestazione fiduciaria volti all’elusione di norme imperative.
Secondo la Convenzione dell’Aja il trust è regolato dalla legge scelta dal disponente (art. 6) o, ma solo in mancanza di scelta, dalla legge con la quale ha collegamenti più stretti in dipendenza del luogo di amministrazione del trust, dell’ubicazione dei beni, della residenza o domicilio del trustee e del luogo in cui lo scopo va realizzato (art. 7), disciplinando la legge così determinata la validità, l’interpretazione, gli effetti e l’amministrazione del trust (art. 8).
Ove pertanto, come nel caso di specie, il trust sia regolato dalla legge di Jersey (Channel Islands), la validità del medesimo, se lo si vuole riguardare quale atto istitutivo, andrebbe vagliata alla stregua di quella disciplina (nata per permettere con una certa ampiezza il ricorso allo strumento fiduciario).
Si deve rilevare che l’atto istitutivo del trust disciplinato dalla Trusts (Jersey) Law non riserva ai disponenti alcuno dei poteri elencati dall’art. 9A della menzionata legge regolatrice e che, anzi, la norma non era nemmeno stata menzionata nell’atto istitutivo del trust; la scrittura autenticata con la quale veniva apportata la modifica si fondava, infatti, sul solo art. 37 della Legge di Jersey sui trust.
Il Tribunale ha rilevato che il potere di “variation” degli atti di trust non è nella legge regolatrice rimesso all’assoluta libertà del soggetto titolare del potere (di regola individuato nel trustee) e che, nel caso di specie, la variation clause contenuta nell’atto istitutivo del trust era assolutamente generica non individuando la finalità per cui il potere era stato attribuito ai disponenti né i limiti.
I giudici hanno affermato che anche volendo prescindere dalla validità da esaminare in base alla legge regolatrice (permissiva, ma non tanto da consentire modificazioni ad libitum in assenza di riserva di poteri ex art. 9A) delle variazioni apportate dai disponenti del trust, si dovrebbe accogliere la tesi secondo cui ai settlor è, nel caso de quo, riconosciuto dall’atto istitutivo il diritto di revocare, variare o modificare tutte le disposizioni del trust od una qualsiasi obbligazione o potere che in tutto od in parte derivino da esso: in pratica senza nemmeno richiamare nell’atto l’art. 9A della Legge di Jersey e in forza del solo art. 37 i settlors si sarebbero riservati tutti i poteri di modifica (e, conseguentemente, di intervento “diretto” sulla gestione), in contrasto con il modello tradizionale del trust che, tra le fondamenta della propria disciplina, annovera un rigido divieto di ingerenza del disponente (che, nel diritto inglese, “esce di scena”).
Tuttavia, tale approccio conduce direttamente alla irriconoscibilità del trust di specie nell’ordinamento italiano poiché, come stabilito da Cass. 10105/2014, un trust irriconoscibile è del tutto privo di effetti: è tamquam non esset.
In altre parole il trust, nel caso di specie, è stato impiegato dai settlor con intenti simulatori “to set up a screen to shield his resources from other claims” (Minwalla v. Minwalla, [2005] 1 FLR 771 (FD)); in ogni caso, il dominio assoluto dei disponenti sul fondo in trust e sulle sorti del medesimo ha posto il trust al di fuori del perimetro della Convenzione de L’Aja.
Quanto al rischio di revocatoria degli atti di dotazione del trust, paventato dal Collegio onde evitare di privare l’attivo concordatario dell’essenziale finanza esterna, i disponenti avevano inteso rimediare all’incapienza del proprio patrimonio e, indirettamente, ai rilievi formulati dal Collegio sulla “tenuta” dell’apporto derivante dai trust alla società srl mediante l’assegnazione a loro stessi di uno dei cespiti del trust-fund.
Tuttavia, l’atto è stato ritenuto privo di effetti poiché un trust riconoscibile nel nostro ordinamento non può soggiacere totalmente al volere dei disponenti pena la violazione del principio donner et retenir ne vaut.
Neanche l’avvenuta trascrizione di contratti preliminari tra i trustee e soggetti terzi esclude a parere dei giudicanti il rischio di revocatoria: infatti, l’art. 2645-bis c.c. è disposizione che giova al promissario acquirente ponendo il suo (promesso) acquisto al riparo da eventuali successive domande ex art. 2901 c.c., ma la norma non impedisce ai creditori di intercettare (anche con sequestro) il pagamento del prezzo da parte del terzo (e ciò che conta per la riuscita del piano concordatario è proprio la liquidità che dovrebbe derivare dalle alienazioni dei beni in trust).
In conclusione, il Tribunale ha dichiarato inammissibile la proposta concordataria.
A latere, il Collegio ha ribadito i seguenti principi di diritto:
Si deve qualificare “concordato preventivo con continuità aziendale” quello il cui piano prevede “la cessione dell’azienda in esercizio” (cosiddetta “continuità indiretta”), indipendentemente dal fatto che il godimento dell’azienda sia stato concesso a terzi in data anteriore al deposito del ricorso.
Ai sensi dell’art. 186-bis, comma 2°, lett. a), L.F. occorre, per tale concordato, “anche un’analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura” e il controllo di “fattibilità giuridica” del Tribunale riguarda sia la soddisfazione di tale requisito normativo, sia la completezza e logicità della relazione del professionista attestatore sulla sussistenza di risorse sufficienti (direttamente incidenti sulla “causa” del concordato).
Per approfondimenti, si vedano i seguenti precedenti:
Testo del provvedimento
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