ISSN 2385-1376
Testo massima
L’accertamento, ad opera del commissario giudiziale, di atti di occultamento o di dissimulazione dell’attivo, della dolosa omissione della denuncia di uno o più crediti, dell’esposizione di passività insussistenti o della commissione di altri atti di frode da parte del debitore, determina la revoca dell’ammissione al concordato preventivo, a norma dell’art. 173 della legge fallimentare (R.D. n. 267 del 1942), a prescindere dal voto espresso dai creditori in adunanza e, quindi, anche nell’ipotesi in cui i creditori medesimi siano stati resi edotti di quell’accertamento.
Questo è il principio affermato dalla Corte di Cassazione, Sezione Prima, Sent., 26-06-2014, n. 14552, Presidente Est. RORDORF Renato.
Il CASO
Il Tribunale di Busto Arsizio dichiarava il fallimento di una società dopo aver rigettato una domanda di omologazione del concordato preventivo presentata dalla stessa.
Proposto reclamo, la Corte d’Appello rigettava lo stesso rilevando che solo dalla lettura della relazione del commissario giudiziale L. Fall., ex art. 172, i creditori erano venuti a conoscenza del fatto che la società debitrice, già in situazione finanziaria critica, aveva commesso una pluralità di atti nei quali la Corte d’Appello ravvisava atti fraudolenti idonei a determinare la revoca dell’ammissione al concordato preventivo in base alla previsione della L. Fall., art. 173.
Avverso tale sentenza veniva proposto ricorso per cassazione, con la denuncia la violazione della L. Fall., art. 173 sul presupposto che all’approvazione dei creditori non si potrebbe sovrapporre alcun controllo di tipo dirigistico operato dal tribunale, neppure in presenza di atti distrattivi del patrimonio, se commessi in data anteriore all’apertura della procedura, allorché i creditori, prima della libera espressione del loro voto in assemblea, ne abbiano comunque acquisito conoscenza – come nella specie – per mezzo della relazione del commissario giudiziale.
IL PRINCIPIO DI DIRITTO AFFERMATO
Con la sentenza in esame la S.C. richiama in primis la decisione a Sezioni Unite n. 1521 del 2013 in punto di natura giuridica del concordato preventivo, secondo cui “seppur l’istituto del concordato preventivo sia caratterizzato da connotati di indiscussa natura negoziale (come d’altro canto si desume anche dal nome del procedimento), tuttavia nella relativa disciplina siano individuabili evidenti manifestazioni di riflessi pubblicistici, suggeriti dall’avvertita esigenza di tener conto anche degli interessi di soggetti ipoteticamente non aderenti alla proposta, ma comunque esposti agli effetti di una sua non condivisa approvazione, ed attuati mediante la fissazione di una serie di regole processuali inderogabili, finalizzate alla corretta formazione dell’accordo tra debitore e creditori, nonché con il potenziamento dei margini di intervento del giudice in chiave di garanzia”.
La Corte rileva, a questo punto, come non è dunque ad impostazioni dogmatiche di carattere generale che occorra aver riguardo, bensì alla concreta disciplina normativa di volta in volta applicabile. Si afferma, infatti, innegabile che la revoca dell’ammissione al concordato, per avere il debitore occultato o dissimulato parte dell’attivo, dolosamente omesso di denunciare uno o più crediti, esposto passività insussistenti o commesso altri atti di frode – revoca contemplata dalla L. Fall., art. 173, in modo sostanzialmente invariato rispetto al regime anteriore alla riforma – già per il carattere ufficioso da cui è connotata, non appaia riducibile ad una dialettica di tipo meramente negoziale, ma pienamente invece sia da iscrivere nel novero degli interventi del giudice in chiave di garanzia.
Con riferimento agli “atti in frode” contemplati dal citato art. 173, la Corte richiama alcuni precedenti ove è stato osservato come non si possa prescindere dall’accertamento che il comportamento del proponente è stato posto in essere con dolo (Cass. n. 17038 del 2011), consistente anche nella mera consapevolezza di aver taciuto nella proposta circostanze rilevanti ai fini dell’informazione dei creditori (Cass. 10778 del 2014); e come la condotta del debitore debba appunto risultare volta ad occultare situazioni di fatto idonee ad influire sul giudizio dei creditori (Cass. n. 13817 del 2011, e Cass. n. 3543 del 2014), non identificandosi con quelle di cui agli artt. 64 e ss. della medesima legge fallimentare, ma occorrendo che esse siano state inizialmente ignorate dagli organi della procedura e dai creditori e successivamente accertate dal commissario giudiziale (Cass. n. 23387 del 2013).
La Corte richiama, poi, il principio espresso dalla sentenza n. 9050 del 2014 della stessa Corte con cui si è affermato che “nell’interpretazione letterale e sistematica del riferimento agli atti accertati dal commissario, la L. Fall., art. 173, comma 1, non esaurisce il suo contenuto precettivo nel richiamo al fatto “scoperto” perché ignoto nella sua materialità, ma ben può ricomprendere il fatto non adeguatamente e compiutamente esposto in sede di proposta di concordato ed allegati, e che quindi può dirsi “accertato” dal commissario, in quanto individuato nella sua completezza e rilevanza ai fini della corretta informazione dei creditori, solo successivamente“.
Ciò premesso, la Corte, con la sentenza in esame, ha affermato che non necessariamente la fraudolenza degli atti posti in essere dai debitori assume una valenza ai fini della revoca dell’ammissione al concordato preventivo, ma solo ove l’inganno dei creditori si sia effettivamente realizzato e si possa quindi dimostrare che, in concreto, i creditori medesimi hanno espresso il loro voto in base ad una falsa rappresentazione della realtà in quanto ciò che rileva è il comportamento effettivamente fraudolento e non l’effettiva consumazione della frode.
Si osserva, infatti, come l’accertamento degli atti fraudolenti ad opera del commissario non può, essere superato dal voto dei creditori, preventivamente edotti della frode ed ugualmente intenzionati ad approvare la proposta, in quanto il legislatore ricollega immediatamente alla scoperta degli atti in frode il potere-dovere del giudice di revocare l’ammissione al concordato. E ciò senza la necessità di alcuna presa di posizione sul punto dei creditori, senza dare spazio alcuno a possibili successive loro valutazioni in proposito.
Sulla base delle suesposte argomentazioni la Corte ha, dunque, affermato il seguente principio di diritto: “l’accertamento, ad opera del commissario giudiziale, di atti di occultamento o di dissimulazione dell’attivo, della dolosa omissione della denuncia di uno o più crediti, dell’esposizione di passività insussistenti o della commissione di altri atti di frode da parte del debitore determina la revoca dell’ammissione al concordato, a norma della L. Fall., art. 173, indipendentemente dal voto espresso dai creditori in adunanza e quindi anche nell’ipotesi in cui i creditori medesimi siano stati resi edotti di quell’accertamento”.
La Corte ha precisato, poi, che l’affermazione dei principi sopra esposti non vale a reintrodurre il giudizio di meritevolezza, che la riformata legge fallimentare ha espunto dal novero dei presupposti per l’ammissione al concordato preventivo in quanto tale concetto era certamente nozione più ampia dell’assenza di atti di frode, non solo genericamente pregiudizievoli, ma direttamente finalizzati, in esecuzione di un disegno preordinato, a trarre in inganno i creditori in vista dell’accesso alla procedura concordataria.
La Corte ha, in conclusione, ritenuto che il legislatore ha inteso sbarrare la via del concordato al debitore il quale abbia posto dolosamente in essere gli atti contemplati dal citato art. 173, individuando in essi una ragione di radicale non affidabilità del debitore medesimo e quindi, nel loro accertamento, un ostacolo obiettivo ed insuperabile allo svolgimento ulteriore della procedura.
Testo del provvedimento
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Numero Protocolo Interno : 404/2014