ISSN 2385-1376
Testo massima
Le nuove norme in materia di presentazione del ricorso per cassazione sono applicabili anche nei confronti delle sentenze emesse dalla Commissione tributaria.
Con la interessante pronuncia in commento, la Suprema Corte, nella sua più autorevole composizione, ha posto la parola “fine” alla vexata quaestio circa l’applicazione o meno, nel giudizio tributario nomofilattico, delle “ordinarie” norme del codice di rito, in luogo della normativa speciale delineata dal D.Lgs 546/92.
Nello specifico, numerosi dibattiti erano sorti in dottrina all’indomani della novella introdotta dal Legislatore del 2012 col c.d. “decreto sviluppo” (art. 54, DL 22 giugno 2012, n. 83) in merito all’art 360, primo comma, n. 5 del c.p.c., (per mezzo della quale il legislatore ha limitato la possibilità di impugnare le sentenze di secondo grado, quanto al vizio di motivazione, all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione fra le parti), in combinato disposto con il comma 3bis del citato art. 54 (per il quale la novella, non si applicherebbe al giudizio tributario).
Le specificità e le peculiarità del rito tributario nei primi due gradi di giudizio hanno quindi imposto l’intervento delle Sezioni Unite, che hanno (si spera definitivamente) chiarito che le regole introdotte dalla novella del 2012 valgono a tutti gli effetti anche nel giudizio tributario in quanto, argomentano gli Ermellini, “non esiste nell’attuale sistema normativo un giudizio di legittimità tributario“. Per cui ne discende che “le regole per il ricorso in Cassazione non divergono se la sentenza impugnata sia stata emessa dal giudice ordinario o dal giudice tributario, restando sempre, nell’uno e nell’altro caso, quelle dettate dal codice di rito.
Una volta appurata la piena applicazione anche nel giudizio di Cassazione delle norme processualcivilistiche ordinarie, i giudici nomofilattici hanno altresì chiarito che è preciso onere dei giudici tributari di merito motivare adeguatamente le sentenze poiché, qualora fosse passata la tesi del “processo tributario di Cassazione“, il giudice d’appello non avrebbe più dovuto motivare, ma si sarebbe potuto limitare a riassumere i fatti di causa e le argomentazioni delle parti. A seguito della pronuncia in commento, al contrario, sarà possibile far valere in giudizio il motivo di violazione di legge (art. 360, n. 3 c.p.c.) non solo quando la motivazione è del tutto assente, ma finanche quando la stessa sia meramente apparente o fortemente illogica, tanto da apparire del tutto incomprensibile od ancora, per utilizzare le parole dei Giudici di Piazza Cavour, qualora si verifichino ipotesi di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, o via sia una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”.
Si tratta, com’è agevole intuire, di un aspetto di non poco momento, in quanto va ad incidere sul “come” e sul “se” si possa procedere con un ricorso per Cassazione avverso le sentenze della CTR, ed al contempo si vincolano in un certo qual modo i giudici tributari di seconde cure sulla tecnica di redazione delle proprie sentenze.
In queste ipotesi, detto altrimenti, il vizio di motivazione diventa un vero e proprio vizio di violazione di legge, ovverosia di quella legge che impone al giudice di motivare (adeguatamente) le sue sentenze.
Inoltre, altro aspetto quanto mai interessante ed innovativo affrontato dagli Ermellini con la pronuncia in commento, attiene al tema delle presunzioni. Gli stessi affermano infatti che, qualora la sentenza sia basata su una presunzione che non risulti essere grave, precisa e concordante, la pronuncia stessa può essere sottoposta al vaglio della Suprema Corte, la quale deve necessariamente cassarla poiché emessa in falsa applicazione dell’art. 2729 c.c.. E non vi è chi non veda l’importanza fondamentale di questo passo della sentenza, posto che, come noto, buona parte degli accertamenti tributari sono, essenzialmente, fondati su presunzioni. A detta delle Sezioni Unite dunque, d’ora innanzi il giudice tributario dovrà rigorosamente vagliare la tenuta logica degli accertamenti, in caso contrario la sentenza non potrà che essere annullata.
Infine, non lascia indifferenti l’ulteriore passo della sentenza n.8053, laddove il Supremo Consesso afferma che, sempre in tema di presunzioni, qualora il contribuente avesse opposto dei fatti diversi, idonei a privare di fondamento l’atto impugnato (dimostrando, ad esempio, che la spesa valorizzata dal redditometro proviene da risparmi od i maggiori ricavi sono stati sottoposti ad imposta sostitutiva), qualora gli stessi non fossero adeguatamente valutati dal giudice tributario, questi andrebbe incontro ad un omesso esame di fatto decisivo, ricadendo perciò nel vizio di cui al “nuovo” n. 5 dell’art. 360 c.p.c.
In conclusione, con la sentenza in commento, i Supremi Giudici offrono un duplice insegnamento: da un lato sanciscono definitivamente l’inesistenza, nel nostro ordinamento, di un giudizio tributario di legittimità, ed in secondo luogo, “ordinano” ai Collegi tributari di seconde cure di redigere le proprie sentenze con una motivazione reale, offrendo effettiva dimostrazione di aver compiutamente esaminato i fatti di causa, pena la illegittimità della sentenza. Onere per i giudici che diventa ancor più pregnante nel caso di accertamenti presuntivi, posto che in questo caso le motivazioni debbono finanche essere rigorosamente logiche e plausibili.
Testo del provvedimento
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