Testo massima
La questione di legittimità posta in riferimento alla
norma che impedisce di proporre domanda di equa riparazione per l’eccessiva
durata del processo è inammissibile, sebbene l’inammissibilità della questione
non esclude l’esigenza di evidenziare l’intollerabilità dell’eccessivo
protrarsi dell’inerzia legislativa nel dare soluzione a siffatto problema.
È il principio espresso dalla
Corte costituzionale con la sentenza n. 30 del 2014, decidendo sulla questione di legittimità
costituzionale dell’art. 55, comma 1, lettera d), del decreto-legge 22 giugno
2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con
modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, in
riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della
Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali.
Nel
caso di specie, un creditore era stato ammesso al passivo del fallimento di un
imprenditore senza però, a distanza di anni, avere piena soddisfazione del
proprio credito, a causa degli eccessivi tempi di durata del processo.
Impedito il risarcimento del
danno a causa dell’art. 4 della legge 24 marzo
2001, n. 89 che dispone che «La domanda di riparazione può essere proposta, a
pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione che conclude
il procedimento è divenuta definitiva», il creditore ha proposto questione di
legittimità della norma con l’art. 3 Cost. in quanto
consentirebbe di agire in giudizio a chi lamenti l’eccessiva durata di un
processo che si è concluso, e non anche a chi si dolga dell’eccessiva durata di
quello ancora pendente, nonostante nel secondo caso la lesione appaia più
grave.
Il creditore poneva la questione di legittimità anche in
relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, il quale sebbene non imponga la
previsione di specifici rimedi risarcitori in caso di violazione, riconosce
comunque agli Stati membri la possibilità di perseguire lo scopo della norma
comunitaria anche ricorrendo a strumenti di natura risarcitoria.
Secondo la Consulta, però, l’intervento additivo invocato
dal rimettente non è possibile per due motivi. Sia per l’inidoneità
dell’eventuale estensione a garantire l’indennizzo della violazione
verificatasi in assenza della pronuncia irrevocabile, sia perché la modalità
dell’indennizzo non potrebbe essere definita “a rime obbligate” a causa della
pluralità di soluzioni normative in astratto ipotizzabili a tutela del principio
della ragionevole durata del processo.
Per la Corte la Convenzione accorda allo Stato aderente
ampia discrezionalità nella scelta del tipo di rimedio interno tra i molteplici
ipotizzabili, ma nel caso in cui opti per quello risarcitorio, detta discrezionalità
incontra il limite dell’effettività, che deriva dalla natura obbligatoria
dell’art. 13 CEDU, secondo il quale: «Ogni persona i cui diritti e le cui
libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto
ad un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale [
]».
“Il vulnus riscontrato e la necessità che
l’ordinamento si doti di un rimedio effettivo a fronte della violazione della
ragionevole durata del processo, se non inficiano impongono tuttavia di
evidenziare che non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia
legislativa in ordine al problema individuato nella presente pronuncia“, in
questo modo ha concluso la Consulta.
Per ulteriori approfondimenti in materia
si veda:
EQUA
RIPARAZIONE: INDENNIZZABILE ANCHE IL RITARDO NELL’ADEMPIMENTO AL “DECRETO
PINTO”
DIRITTO
ALL’EQUA RIPARAZIONE PER IL MANCATO RISPETTO DEL TERMINE RAGIONEVOLE DEL
PROCESSO
EQUA
RIPARAZIONE: IL MINISTERO INADEMPIENTE RISPONDE DI DANNO DA RITARDO EX ART.114
CPA
IRRAGIONEVOLE
DURATA DEL PROCESSO: IL RISARCIMENTO SPETTA ANCHE AL CONTUMACE
Testo del provvedimento
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