ISSN 2385-1376
Testo massima
La vicenda trae origine dalla contestazione, mossa ad un professionista, del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture false, ex art. 2, D.Lgs. 74/2000, in quanto lo stesso, in qualità di commercialista di una società, indicava nelle dichiarazioni ai fini delle imposte dirette presentate per conto di quest’ultima, elementi passivi fittizi provenienti da fatture relative ad operazioni inesistenti, emesse da una società c.d. “cartiera” (con conseguente, sostanzioso, abbattimento della base imponibile).
La Corte di Appello di Milano confermava la condanna del professionista alla pena di un anno e sei mesi di reclusione.
L’imputato proponeva, pertanto, ricorso in Cassazione deducendo, in primo luogo, l’inutilizzabilità del verbale di accertamento redatto dalla Guardia di Finanza, considerato “atto irripetibile”, perciò illegittimamente valutato ai fini probatori, unitamente alla inammissibilità della testimonianza indiretta di un maresciallo delle Fiamme Gialle. Veniva avanzata altresì l’ipotesi dell’insussistenza degli elementi di reità a suo carico ed, in particolare, dell’elemento soggettivo del reato di dichiarazione fraudolenta.
Il Supremo Consesso, con la sentenza n. 39873 depositata lo scorso 26 settembre, respingeva le doglianze del commercialista, confermando definitivamente la sua condanna, argomentando come segue.
In primis, i giudici nomofilattici affermano che la pronuncia di responsabilità penale dell’imputato ben può fondarsi anche sulla documentazione legittimamente acquisita in sede di verifica fiscale. Ciò in quanto, sarebbe pienamente legittima l’utilizzazione dei cc.dd. “atti irripetibili” compiuti dalla polizia giudiziaria, tra cui rientrano, per usare le parole dei Giudici, “quelli mediante i quali la P.G. prende diretta cognizione di fatti, situazioni e comportamenti dotati di una qualsivoglia rilevanza penale e suscettibili di modificazione in attesa del dibattimento”.
Nel caso di specie, tale sarebbe stata l’acquisizione delle dichiarazioni dei redditi e delle fatture false.
Con riferimento invece alla testimonianza resa dal maresciallo della GdF, i giudici l’hanno ritenuta legittima, in quanto nessuna parte “ha chiesto espressamente che il teste di riferimento fosse chiamato a deporre”. Dette dichiarazioni sono comunque state considerate di “mero contorno”, attese le risultanze probatorie ampiamente confermate dai dati oggettivi riscontrati.
Per ciò che riguarda, poi, la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, la Cassazione si basa sul fatto che il commercialista era ben consapevole (o lo sarebbe comunque dovuto essere) della natura fittizia delle fatture e delle società che le avevano emesse.
Le fatture inoltre, erano “oggettivamente tali da indurre sospetto in un commercialista appena avveduto, poiché in esse le attività fornite, a fronte di importi considerevoli, erano solo genericamente descritte”.
Tutti elementi, questi, che hanno spinto la Cassazione a ritenere pienamente sussistente il dolo del reato di dichiarazione fraudolenta in capo all’imputato ed a confermare, quindi, la sua condanna.
Le motivazioni enucleate dagli Ermellini, se possono essere condivise per quanto concerne gli aspetti processuali, attesa pacificamente la possibilità dell’utilizzo ai fini probatori (finanche nel giudizio tributario) degli atti cc.dd. irripetibili, lasciano al contrario quanto meno perplessi relativamente al profilo dell’elemento psicologico.
Ciò in quanto, dalla ricostruzione della vicenda, così come risultante dalla sentenza in commento, emerge un coinvolgimento del professionista in quanto, tra le altre cose, una delle due Società considerate come “cartiera” (con cui il cliente aveva contratto), aveva sede presso un amministratore deceduto: secondo i giudici nomofilattici, quindi, il commercialista dovrebbe preoccuparsi non solo del corretto operato dei propri clienti, ma finanche di verificare se i fornitori della stessa “siano in vita” e operino in compliance con le norme di settore.
In secundis, il contenuto delle fatture ritenuto generico rispetto agli importi fatturati (che avrebbe dovuto far sorgere il sospetto della violazione al consulente) porterebbe a ritenere che il commercialista debba chiedere ai clienti i giustificativi per tutte le fatture considerate “generiche”, andando altresì a sindacare nel merito le stesse.
Appare infine quanto mai singolare, che il professionista, in questo caso, non sia stato condannato, ex art. 110 c.p., in concorso col suo cliente nel reato in questione, atteso che quest’ultimo, sottoscrivendo la dichiarazione dei redditi (ritenuta fraudolenta), risulta essere, di fatto, il soggetto attivo del reato delineato dall’art. 2, D.Lgs. 74/2000.
Con la pronuncia testè esaminata, viene ribadita la “linea dura” perseguita dai Giudici di Piazza Cavour nei confronti dei professionisti, considerati responsabili (in concorso coi clienti) di vari reati fiscali.
Detto orientamento giurisprudenziale, è stato “inaugurato” dall’arresto n. 13982 del 12 aprile 2012, dove i giudici di legittimità hanno condannato per evasione fiscale (con conseguente sequestro per equivalente) il commercialista che ha coadiuvato il suo cliente nell’eseguire manovre atte all’evasione IVA.
Dello stesso “segno”, le successive sentenze. n. 39988 del 9 ottobre 2012, e n. 40332 del 30 settembre 2013.
Testo del provvedimento
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