ISSN 2385-1376
Testo massima
Alla luce di quanto previsto dall’art. 2403 c.c., il dovere di vigilanza dei sindaci non può ritenersi circoscritto allo svolgimento della funzione di controllo contabile e formale, poiché esso è da intendersi esteso anche al contenuto della gestione, avendo il collegio sindacale il potere ed il dovere di chiedere agli amministratori informazioni circa l’andamento delle operazioni sociali o su fatti determinati.
Può pertanto sussistere la responsabilità dei sindaci ai sensi dell’art. 2407 c.c. per violazione del dovere di vigilanza nel caso in cui l’esercizio dell’attività sociale sia stata protratta al di fuori dei limiti consentiti dalla legge, laddove i membri del collegio sindacale non abbiano rilevato una macroscopica violazione o non abbiano reagito in alcun modo al comportamento illecito tenuto dagli amministratori, ponendo cioè in essere tutti gli atti necessari all’adempimento dell’incarico con diligenza, correttezza e buona fede.
Per poter affermare la sussistenza della responsabilità dei sindaci rimane tuttavia necessario accertare la presenza del requisito del nesso di causalità, essendo indispensabile provare che un differente e più diligente comportamento nell’esercizio delle funzioni di vigilanza da parte dei sindaci avrebbe consentito di evitare le conseguenze dannose causate dalle condotte illecite poste in essere dagli amministratori.
Sono questi i principi sanciti dalla Suprema Corte di Cassazione chiamata a decidere su di una controversia posta alla cognizione del Tribunale di Udine conclusa, in primo grado, con l’accoglimento della domanda di risarcimento formulata da un curatore fallimentare così come rivolta nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale di una s.p.a. dichiarata fallita per i danni cagionati alla società ed ai creditori sociali.
La causa risarcitoria era stata azionata dalla curatela fallimentare a causa della mancata adozione dei provvedimenti previsti dall’art. 2447 cc e della continuazione dell’esercizio dell’attività pur in presenza di una perdita del capitale sociale al di sotto del limite legale.
Il Giudice di primo grado aveva ritenuto che la prosecuzione dell’attività sociale era avvenuta nonostante la società avesse integralmente perso tutto il capitale sociale, ciò a causa all’annotazione in contabilità di una fattura per un’operazione oggettivamente inesistente.
La sentenza del Giudice di primo grado, veniva poi confermata dalla Corte di Appello di Trieste che ravvisava la sussistenza di ragioni di responsabilità in capo ai sindaci.
La Corte di Appello di Trieste confermava l’accertamento condotto dal Giudice di primo grado che aveva ritenuto sussistente la responsabilità dei sindaci per violazione, quanto meno colposa, dei doveri di controllo a partire, come minimo, dalla data di ultima verifica effettuata sulla contabilità sociale – espletata nel mese di febbraio 1989.
La Corte di Appello di Trieste contestava, in particolare, il fatto che i sindaci non solo avevano omesso di effettuare a partire dalla fine del 1988 – le verifiche trimestrali, ma non avevano fatto alcuna osservazione in merito alla contabilizzazione della fattura in relazione alla quale era stata, peraltro, emessa una successiva nota di accredito. La nota di accredito aveva indi determinato lo storno di componenti attive dello stato patrimoniale della società per un importo tale da alterare consistentemente l’equilibrio finanziario della stessa tanto da far dubitare della sussistenza delle condizioni di operatività della società.
La Corte di Appello di Trieste riteneva poi non provato il fatto che l’effetto distorsivo della fattura sarebbe stato compensato da un’altra fattura emessa per un’operazione passiva relativa ad un’attività parallela, anch’essa inesistente, concernente la conclusione di un rapporto contrattuale di agenzia poi successivamente stornata.
La Corte di Appello non attribuì infine alcun pregio alla delibera di aumento del capitale sociale assunta dall’assemblea straordinaria dei soci a titolo di copertura delle perdite del capitale poiché non posta in esecuzione.
Contro la sentenza della Corte di Appello di Trieste, i sindaci proponevano ricorso per cassazione, denunciando violazioni di norme di diritto e vizi di motivazione della sentenza del Giudice d’appello con particolare riferimento all’art. 2403 cc, art. 2404 cc, art. 2406 cc ed art. 2407 cc, nella formulazione previgente alla riforma del diritto societario dettata dal nostro legislatore con il D.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6.
Nell’affrontare i motivi di doglianza sollevati dai ricorrenti, la Cassazione si è ampiamente soffermata sulla parte della sentenza oggetto di impugnazione relativa all’accertamento della responsabilità dei sindaci.
La Cassazione ha da sempre osservato che deve ritenersi sussistere la violazione del dovere di vigilanza dei sindaci previsto dall’art. 2407 c.c. con riferimento allo svolgimento da parte degli amministratori di un’attività sociale protratta nel tempo al di fuori dei limiti consentiti dalla legge. Ciò in ragione del fatto che l’obbligo di vigilanza dei sindaci non può dirsi soltanto limitato allo svolgimento di compiti di mero controllo contabile e formale, estendendosi detto dovere di controllo anche al contenuto della gestione. I sindaci hanno infatti il dovere di chiedere agli amministratori notizie sull’andamento delle operazioni sociali oppure su fatti determinati.
Per poter affermare la sussistenza della responsabilità dei sindaci, la Cassazione sostiene, peraltro, che non sia necessario individuare specifici comportamenti posti in essere dagli amministratori, essendo sufficiente il fatto di non aver rilevato una macroscopica violazione o non aver reagito in alcun modo, ponendo in essere tutti gli atti necessari all’adempimento dell’incarico con diligenza, correttezza e buona fede.
La Cassazione rileva infatti che i sindaci hanno la possibilità di segnalare all’assemblea dei soci le irregolarità di gestione riscontrate, oppure, qualora ne ricorrano i presupposti, denunziare i fatti al P.M., di modo da consentire all’ufficio di provvedere ai sensi dell’art. 2409 cc..
La Cassazione infatti sottolinea che il ricorso a questi rimedi od anche la mera minaccia di giovarsi di tali mezzi può costituire elemento idoneo ad evitare o almeno ridurre le conseguenze dannose derivanti dalla condotta gestoria illecita (si veda Cass. civ. Sez. I, 11 novembre 2010, n. 22911).
Si tratta di un orientamento che, secondo quanto affermato dai giudici di legittimità, non collide con i principi giurisprudenziali posti alla base dell’indispensabilità dell’accertamento del nesso causale necessario per poter affermare la sussistenza della responsabilità dei sindaci in relazione ai danni subiti dalla società per effetto di un loro illegittimo comportamento omissivo.
A tal fine è infatti necessario accertare che un diverso e più diligente comportamento dei sindaci nell’esercizio dei loro compiti e funzioni sarebbe stato idoneo ad evitare le conseguenze dannose causate dalle condotte illecite poste in essere dagli amministratori (si veda Cass. civ. Sez. I, 8 febbraio 2005, n. 2538).
Per i Giudici di legittimità, il rapporto causale tra condotta illecita e conseguenze negative nella sfera giuridica altrui nonché la prova della sussistenza del nesso di causalità rimangono elementi fondamentali nel caso si presenti la fattispecie della responsabilità concorrente tra amministratori e sindaci per violazione dell’art. 2449 cc nel testo in vigore prima delle modifiche apportate dal D.lgs. n. 6/2003 – derivante dal compimento di nuove operazioni vietate che si concretizzino in atti gestori non finalizzati alla liquidazione della società e, quindi, al soddisfacimento dei creditori sociali, bensì al conseguimento di finalità diverse.
Sulla base di detti principi, la Cassazione ha rilevato plurimi profili di criticità del provvedimento impugnato laddove è stata riscontrata la responsabilità concorrente dei sindaci per violazione dell’art. 2449 cc per il compimento di nuove operazioni con riferimento al periodo successivo all’ultima verifica della contabilità sociale effettuata nel mese di febbraio 1989 – dai membri del collegio sindacale.
Nella ricostruzione operata dai Giudici di prime cure, in detto momento, i sindaci avrebbero dovuto rilevare l’esistenza dell’anomalia rappresentata dalla fatturazione dell’operazione oggettivamente inesistente ed, in particolare, la successiva nota di accredito – effettuata nel mese di aprile 1989 – che determinava lo storno delle componenti attive dello stato patrimoniale per un importo sufficiente ad alterare consistentemente l’equilibrio finanziario della società.
La Cassazione ha, nel merito, accertato un vizio della sentenza impugnata, avendo rilevato l’impossibilità di ritenere sussistente una responsabilità dei sindaci a far tempo dalla data di ultima verifica della contabilità per non aver accertato l’operazione di storno peraltro non fittizia – posta in essere in un momento successivo.
La Cassazione ha inoltre ritenuto carente la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui è stato affermato che non era stata provata in grado di appello dai ricorrenti che l’effetto distorsivo della fattura emessa per la riferita operazione inesistente sarebbe stato compensato da un’altra fattura passiva per un’operazione parallela anch’essa poi stornata.
La Cassazione ha ravvisato che il Giudice di prime cure aveva dato all’operazione un valore preminente non essendo stato possibile riscontrare nella motivazione la presenza di altri elementi in grado di rivelare la perdita del capitale sociale a far data dall’ultimo accertamento contabile condotto dai sindaci.
Per quanto concerne la delibera di aumento del capitale sociale – poi non eseguita -, la Cassazione ha evidenziato che tale operazione non poteva essere derimente ai fini dell’accertamento della responsabilità dei sindaci.
La convocazione dell’assemblea, l’adozione della delibera di aumento del capitale sociale, la sottoscrizione di capitale da parte di un nuovo socio e il versamento dei 3/10 costituivano fatti a favore dei sindaci, laddove invece il mancato versamento della somma nelle casse sociali era invece imputabile agli amministratori.
A fronte delle questioni riscontrate, la Cassazione ha dunque ritenuto necessario cassare con rinvio la sentenza impugnata, rinviando al giudice d’appello per un nuovo esame conforme ai principi di diritto pronunciati dai giudici di legittimità.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 17889/2009 proposto da:
contro
FALLIMENTO alfa S.P.A., in persona del Curatore Dott. ZA. R.,
– CONTRORICORRENTE –
contro
contro
beta ASSICURAZIONI S.P.A.
– RESISTENTE –
sul ricorso 17973/2009 proposto da:
P.P.,
– controricorrente e ricorrente incidentale –
contro
FALLIMENTO alfa S.P.A., in persona del Curatore Dott. ZA. R.,
– CONTRORICORRENTE AL RICORSO INCIDENTALE –
contro
contro
beta ASSICURAZIONI S.P.A.
– resistente –
avverso la sentenza n. 163/2009 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 24/04/2009;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- Con sentenza non definitiva del 31.7.2001 il Tribunale di Udine, pronunciando sulla domanda proposta dal curatore del fallimento della s.p.a. alfa, accertò e dichiarò la responsabilità dei componenti del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale della società fallita in carica a partire dal 31.12.1988 per i danni cagionati alla società ed ai creditori sociali per effetto della mancata adozione dei provvedimenti previsti dall’art. 2447 c.c., e della protrazione della attività sociale oltre la predetta data e, in esito all’istruttoria; con sentenza definitiva del 29.12.2005 (per quanto ancora interessa), condannò – tra gli altri – Z. C. e P.P. in solido tra loro a risarcire al fallimento alfa s.p.a. i danni cagionati alla società in violazione dei doveri inerenti la loro qualità di sindaci, complessivamente liquidati in Euro 601.286,89, oltre interessi e rivalutazione, nonchè la beta Assicurazioni s.p.a. – chiamata in garanzia – a rimborsare allo Z. quanto lo stesso era tenuto a corrispondere al fallimento attore, esclusa la franchigia di Euro 2.582,28 e fino alla concorrenza di Euro 258.228,45 e al P. quanto lo stesso era tenuto a corrispondere al fallimento attore esclusa la franchigia di Euro 2.582,28 e fino alla concorrenza di Euro 258.228,45, provvedendo sulle spese.
In sintesi, il Tribunale ha ritenuto, con riferimento alla prosecuzione dell’attività dopo il 31.12.1988 – data alla quale la alfa s.p.a. aveva perduto tutto il capitale sociale, circostanza dissimulata dall’annotazione in contabilità della fattura, datata 29.12.1988; dell’importo di lire 2.500.000.000, emessa nei confronti della gamma s.r.l. ed attinente ad un’operazione inesistente – la responsabilità di amministratori e sindaci in carica a partire dal 31.12.1988 (imputando ai sindaci soltanto il danno riferibile al periodo intercorrente tra il 7.2.1989 ed il 10.6.1989, e cioè tra la data dell’ultima verifica della contabilità sociale e la data del fallimento). Con la sentenza impugnata (depositata il 24.4.2009) la Corte di appello di Trieste ha confermato la sentenza di primo grado, rigettando l’appello principale proposto da Z. e P. e dichiarando inammissibile l’appello incidentale della s.p.a. beta Assicurazioni. In particolare, la corte di merito – rilevato che non appariva necessario procedere all’integrazione del contraddittorio nei confronti, tra l’altro, del terzo sindaco A., che risultava “avere definito transattivamente la vertenza con la curatela, come emerso dagli atti concernenti il procedimento ex artt. 351 e 283 c.p.c.” – ha disatteso le censure degli appellanti principali in punto di: a) sussistenza di ragioni di responsabilità in capo ai sindaci; b) pretesa insussistenza di perdite risarcibili; c) pretesa natura di debito di valuta propria del credito risarcitorio; d) sproporzione tra il valore della causa e misura della condanna alle spese.
2.- Contro la sentenza di appello Z.C. e P. P. hanno proposto distinti ricorsi per cassazione affidati a quattro motivi.
Resiste con distinti controricorsi la curatela fallimentare intimata.
La società assicuratrice intimata non ha notificato controricorso limitandosi a depositare procura speciale a nuovo difensore.
I ricorsi – proposti contro la medesima sentenza ù son stati riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c..
Nel termine di cui all’art. 378 c.p.c., la difesa del ricorrente P. ha depositato memoria.
2.1.- I motivi di ricorso formulati dai due ricorrenti – conclusi da quesiti di diritto ex art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis – denunciano violazioni di norme di diritto e vizi di motivazione sostanzialmente sovrapponibili – come evidenziato anche dal P.G. in udienza – e possono, quindi, essere esaminati congiuntamente.
Con il PRIMO motivo di ricorso i ricorrenti denunciano violazione falsa applicazione di norme di diritto (artt. 2403, 2404, 2405, 2406 e 2407 c.c., – nella formulazione previgente, applicabile ratione temporis) nonchè vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità e deducono – in estrema sintesi – che l’accertamento della responsabilità di cui all’art. 2407 c.c., comma 2, (nel testo previgente al D.Lgs. n. 6 del 2003) e lo stabilire se, nel caso di appropriata vigilanza dei sindaci, il danno si sarebbe ugualmente prodotto o meno, importa un giudizio ipotetico da condurre con valutazione ex ante dei fatti, ricostruendone il loro sviluppo normale secondo indici di comune esperienza (id quod plerumque accidit) e considerando quali sono, di regola, gli effetti di un controllo diligente in relazione alle circostanze del caso. Deducono, ancora, di avere fornito la prova (liberatoria) di aver vigilato con diligenza e ciò esclude che il fatto costitutivo dell’azione (i fatti o le omissioni degli amministratori) possa di per sè essere produttivo della responsabilità di cui all’art. 2407 c.c., comma 2.
La circostanza, poi, che gli amministratori abbiano di fatto impedito la vigilanza dei sindaci, dolosamente occultando con artifici la stessa esistenza di operazioni attive rilevanti e decisive per l’equilibrio patrimoniale della società, e per tale via in grado di occultare l’intervenuta perdita del capitale sociale, esclude che possa ritenersi sussistente la responsabilità dei sindaci per la obiettiva impossibilità, dovuta a causa non imputabile ex art. 1218 c.c., di assolvere ai ridetti obblighi di vigilanza. La corte di merito non avrebbe fatto un uso corretto della c.d. presunzione semplice di cui all’art. 2729 c.c., e avrebbe negato che fosse stata fornita dimostrazione delle allegazioni degli appellanti, omettendo di considerare chiare, univoche e decisive risultanze documentali regolarmente acquisite agli atti di causa: a) la fattura gamma – alla data del 7.2.1989 – non era stata registrata nel registro IVA mentre non era scaduto il termine di sessanta giorni per l’annotazione in contabilità; b) la fattura non costituiva un fatto in sè anomalo se rapportata ai ricavi per oltre L. 17.000.000.000 risultanti dal bilancio depositato dal consulente tecnico d’ufficio; c) l’importo della fattura Coges era compensato in parte da quello della fattura, di segno contrario, di L. 1.800.000.000, pure stornata, unitamente alla prima, soltanto a fine aprile 1989.
Deducono, poi, che la deliberazione, da parte della società, di un aumento di capitale in grado di sanare lo squilibrio patrimoniale della stessa ed il contestuale versamento dei tre decimi da parte del nuovo socio a mani degli amministratori nel corso dell’assemblea straordinaria ed alla presenza dei sindaci, doveva essere ritenuta rilevante ai fini di escludere la responsabilità dei sindaci stessi ex art. 2407 c.c., comma 2, perchè essa avrebbe rafforzato la legittima e ragionevole convinzione dei medesimi che le condizioni patrimoniali della società fossero in sostanziale equilibrio, nonostante che l’aumento di capitale non fosse stato in seguito omologato e i tre decimi del capitale sottoscritto non fossero stati versati dagli amministratori nelle casse sociali.
2.2.- Con il SECONDO motivo i ricorrenti denunciano vizio di motivazione e violazione di norme di diritto (art. 2449 c.c. – nella formulazione vigente all’epoca dei fatti). Deducono che la motivazione adottata dal giudice di appello, laddove la stessa, per la sua laconicità e per l’essere formulata in termini di mera adesione, anche con il ricorso alla pedissequa trascrizione della relativa parte motiva della sentenza di primo grado, non consente in alcun modo di ritenere che all’affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame. Deducono che ai sensi dell’art. 2449 c.c. (nel testo previgente al D.Lgs. n. 6 del 2003), deve ritenersi lecito il completamento di attività in corso destinate al miglior esito della liquidazione e, così, in particolare, non possono considerarsi nuove operazioni le spese di manutenzione ordinaria e conservazione dei beni di terzi detenuti dalla società, le spese di pulizia, quelle per le prestazioni professionali di elaborazione paghe e contributi del personale e quelle inerenti la raccolta di rifiuti, nonchè le spese pubblicitarie e ancora di imballaggio e trasporto dei beni oggetto di contratti conclusi in epoca antecedente la data di ritenuta perdita del capitale.
Deducono che la liquidazione equitativa del danno ai sensi dell’art. 1226 c.c., presuppone la già accertata sussistenza dell’illecito, oltre ad una congrua ed adeguata motivazione vuoi in ordine alle ragioni che inducono il giudice a ritenere impossibile o grandemente difficile la prova in questione, vuoi circa il concreto processo logico e valutativo di quei dati attraverso i quali si è giunti, e con quale sufficiente approssimazione, alla liquidazione stessa e, in presenza di operazioni che risultino avere data antecedente quella di ritenuta perdita del capitale ovvero non risultino avere data certa e/o concretamente individuata, una corretta applicazione ed interpretazione degli artt. 2449, comma 1, e 1226 cod. civ., esclude che gli effetti delle operazioni medesime siano presi in considerazione, sia pure in via equitativa, ai fini della determinazione del danno imputabile ad amministratori e sindaci, atteso che per tale via non appare possibile dimostrare la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta materiale (compimento di nuove operazioni) e l’evento di danno, che solo avrebbe permesso, anche in assenza di prove riguardanti l’esatta quantificazione del pregiudizio, la predetta liquidazione equitativa”. In particolare, in presenza di sanzioni tributarie irrogate in epoca successiva alla data di accertata responsabilità dei sindaci per la ritenuta perdita del capitale, ma relative ad obbligazioni tributarie insorte prima di tale stessa data, delle stesse non deve tenersi conto ai fini della determinazione del danno imputabile ai sindaci stessi, secondo una corretta applicazione ed interpretazione dell’art. 2407 c.c., e art. 2449 c.c., comma 1.
Lamentano, infine, che non si sia tenuto conto di tutti gli incassi comunque effettuati dalla società nel periodo rilevante ex art. 2449 c.c., e dei risultati delle azioni revocatorie aventi ad oggetto la cessione di merci, nonchè dei crediti liquidi ed esigibili ingiustificatamente non azionati dalla curatela fallimentare.
2.3.- Con il TERZO motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 1292 c.c. e ss., e relativo vizio di motivazione. Deducono che, qualora in corso di causa uno dei condebitori solidali stipuli con il creditore una transazione, anche laddove non ricorrano le condizioni affinchè gli altri condebitori profittino della transazione ex art. 1304 c.c., si riduce l’intero debito dell’importo corrispondente alla quota transatta, con il conseguente scioglimento del vincolo solidale fra lo stipulante e gli altri condebitori, i quali pertanto rimangono obbligati nei limiti della loro quota. Deducono che il giudice, reso edotto in corso di causa della transazione stipulata da uno dei condebitori solidali, deve limitare la condanna e, in caso si tratti di Giudice d’appello, la conferma della sentenza di primo grado nei confronti dei soggetti rimasti in giudizio, al pagamento della sola parte dell’obbligazione che a questi ultimi avrebbe fatto carico nei rapporti interni con l’altro condebitore stipulante.
2.4.- Con il QUARTO motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 1224 c.c., nonchè vizio di motivazione e deducono che, qualora la liquidazione del danno da fatto illecito contrattuale sia effettuata per equivalente, con riferimento, cioè, al valore del bene perduto dal danneggiato all’epoca del fatto illecito, e tale valore venga poi espresso in termini monetari che tengano conto della svalutazione intervenuta fino alla data della decisione definitiva, il risarcimento anche del mancato guadagno spetta al danneggiato a condizione che risulti dimostrato che il ritardato pagamento della suddetta somma abbia in concreto provocato un pregiudizio al danneggiato, e ciò sulla base delle allegazioni probatorie del danneggiato stesso, ovvero mediante ricorso da parte del giudice a criteri presuntivi ed equitativi, quale l’attribuzione degli interessi a un tasso stabilito, valutando tutte le circostanze obiettive e soggettive del caso.
4.- Va preliminarmente rilevato, in ordine all’integrità del contraddittorio, verificabile d’ufficio, che questa Corte ha di recente puntualizzato che “l’azione di responsabilità, promossa contro gli organi della società ai sensi dell’art. 2393 c.c., instaura un’ipotesi di litisconsorzio facoltativo, ravvisandosi un1obbligazione solidale passiva tra gli amministratori ed i sindaci (salvo allorchè l’accertamento della responsabilità di uno di essi presupponga necessariamente quella degli altri, come nel caso di imputazione per omessa vigilanza), con la conseguenza che, in caso di azione originariamente rivolta contro una pluralità di amministratori e sindaci di una società, essi non devono necessariamente essere parti in ogni successivo grado del giudizio, neppure nel caso in cui, in presenza di una transazione raggiunta tra la società ed alcuni tra i convenuti, riguardante le quote di debito delle parti transigenti ed avente l’effetto di sciogliere anche il vincolo di solidarietà passiva, si renda necessario graduare la responsabilità propria e degli altri condebitori solidali nei rapporti interni, all’esito di un accertamento che dovrà necessariamente riferirsi, in via incidentale, anche alle condotte tenute dalle parti transigenti” (Sez. 1, Sentenza n. 7907 del 18/05/2012; cfr. Sez. U, Sentenza n. 30174 del 30/12/2011).
La Corte di merito – come sopra evidenziato – ha correttamente applicato il principio enunciato da questa Corte rilevando che non appariva necessario procedere all’integrazione del contraddittorio nei confronti, tra l’altro, del terzo sindaco A., che risultava “avere definito transattivamente la vertenza con la curatela, come emerso dagli atti concernenti il procedimento ex artt. 351 e 283 c.p.c.”, pur non avendo da tale rilievo tratto la conseguenza per la quale, ove la transazione stipulata tra il creditore ed uno dei condebitori solidali abbia avuto ad oggetto solo la quota del condebitore che l’ha stipulata, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido si riduce in misura corrispondente all’importo pagato dal condebitore che ha transatto se costui ha versato una somma pari o superiore alla sua quota ideale di debito mentre, se il pagamento è stato inferiore alla quota che faceva idealmente capo al condebitore che ha raggiunto l’accordo transattivo, il debito residuo gravante sugli altri coobbligati deve essere ridotto in misura pari alla quota di chi ha transatto (Sez. U, Sentenza n. 30174 del 30/12/2011). Violazione giustamente dedotta con il terzo motivo dai ricorrenti.
5.- La sentenza impugnata (di cui appare opportuno riportarne le parti essenziali per consentire di cogliere i vizi di motivazione denunciati), per la parte relativa alla responsabilità dei sindaci, ha evidenziato che il tribunale l’aveva ritenuta sussistente affermando “la sussistenza…di una violazione, quanto meno colposa dei loro doveri di controllo almeno a partire dal 7.2.1989, data dell’ultima verifica da loro effettuata sulla contabilità sociale”:
“Tardivo e del tutto insufficiente ad escludere la loro responsabilità è il telegramma del 3.6.1989 con il quale è stata intimata agli amministratori la esibizione della bozza di bilancio non ancora predisposta, non foss’altro perchè il bilancio dell’esercizio 1988 avrebbe dovuto essere approvato entro il 30 aprile o, in via alternativa, i sindaci avrebbero dovuto essere informati delle particolari esigenze che impedivano la convocazione dell’asssemblea entro il termine previsto dal secondo comma dell’art. 2364 c.c.; rilevando, inoltre che ..a partire dalla fine del 1988 i sindaci hanno omesso le prescritte verifiche trimestrali e, pur avendo partecipato alle riunioni del consiglio di amministrazione fino al 31.5.1988 (recte: 1989?), nulla hanno osservato in merito alla contabilizzazione della fattura emessa nei confronti della GAMMA s.r.l. e soprattutto della successiva nota di accredito, che determinava lo storno dalle componenti attive dello stato patrimoniale di un importo sufficiente ad alterare grandemente l’equilibrio finanziario della società ed a far dubitare della permanenza delle condizioni per la sua operatività”.
In particolare, poi, quanto ai motivi di appello, la Corte di merito ha osservato che:
a) le riunioni trimestrali di cui all’art. 2404 c.c., rappresentano il dovere minimo gravante sui sindaci (ed, infatti, la disposizione utilizza il termine “almeno”), ma il rispetto formale di tale cadenza (garantito nella fattispecie dalle riunioni del 7 febbraio e del 3 giugno 1989) non esonera i sindaci da responsabilità, in presenza di condizioni di criticità quali quelle sopra evidenziate;
b) quanto alla fattura GAMMA (del rilevante importo di lire 2.500.000.000) emessa dalla ALFA in data 29.12.1988 (all’evidente scopo di far risultare un credito dal bilancio che si sarebbe dovuto chiudere al 31.12.1988, così simulando un positivo andamento economico della società), gli appellanti sostengono di non essere stati in grado di rendersi conto dell’esistenza della fattura durante la visita di verifica e controllo del 7.2.1989 (a quanto consta, l’ultima effettuata), posto che le scritture contabili erano aggiornate al 30.11.1988; così facendo, non considerano però che, come emerge dal relativo verbale, all’osservazione dei sindaci concernente il fatto che l’ultima registrazione annotata a giornale era oltre i 60 giorni previsti dal D.P.R. n. 600 del 1972, art. 22, il responsabile amministrativo rag. R. faceva presente che …le registrazioni del mese di dicembre risultano tutte caricate sull’elaboratore e sono disponibili per la stampa;
c) agli effetti dell’IVA, poi, gli stessi appellanti riconoscono che la registrazione della fattura GAMMA avrebbe dovuto avvenire entro il 29 gennaio 1989, mentre il 7 febbraio la fattura non risultava ancora registrata, risultando aggiornato il registro IVA vendite al 30.12.1988, e portando l’ultima fattura registrata il n. (OMISSIS), mentre la fattura GAMMA portava un numero successivo: tutto ciò considerato (e considerata, altresì, la presenza di altri rilievi contestualmente mossi dai sindaci nei confronti del R. per mancati versamenti d’imposta precedentemente occultati ed anomalie relative al credito IVA del mese di dicembre) la funzione di controllo – esplicabile in qualsiasi momento dai sindaci, anche individualmente, con atti d’ispezione (art. 2403 c.c.) – in presenza di dubbi sulla regolarità della gestione avrebbe dovuto (e potuto) essere esercitata in modo particolarmente analitico e penetrante, quantomeno con riferimento a tutte le operazioni effettuate sino al 31.12.1988;
d) quanto al fatto che, in ogni caso, i sindaci non avrebbero potuto rilevare la fittizietà dell’operazione sulla sola base di un controllo che avrebbe potuto verificare solo l’intervenuta fatturazione, può osservarsi che la fattura in questione era stata emessa per un importo pari a due volte e mezzo il capitale sociale e che l’obbligo di vigilanza dei sindaci non è limitato allo svolgimento di compiti di mero controllo contabile e formale, ma si estende anche al contenuto della gestione, atteso che la previsione della prima parte dell’art. 2403 c.c., comma 1, va combinata con quelle del terzo e del comma 4, del medesimo articolo, che conferiscono al collegio sindacale il potere – che è anche un dovere, da esercitare in relazione alle specifiche situazioni – di chiedere agli amministratori notizie sull’andamento delle operazioni sociali o sul determinati fatti (Cass. 5263/1993);
e) infine, la circostanza – che non pare essere stata allegata in primo grado – che l’effetto distorsivo della fattura GAMMA sarebbe stato in gran parte compensato da una partita passiva, relativa ad altra coeva e parallela operazione inesistente, anch’essa poi stornata (concernente un contratto d’agenzia di data 27.12.1988 intercorso tra ALFA e GAMMA, in base al quale GAMMA aveva emesso a carico di ALFA la fattura n. 1 del 31.12.1988, di lire 1.800.000.000 più IVA) non risulta adeguatamente provata, non avendo gli appellanti indicato specifiche prove a sostegno della loro tesi;
f) quanto alla deliberazione concernente l’aumento di capitale per L. 3.000.000.000, assunta dall’assemblea straordinaria del 17 maggio 1989, esattamente il Tribunale ha ritenuto che la stessa – non avendo avuto esecuzione – non potesse rivestire la medesima rilevanza della delibera di aumento di capitale assunta nel 1988, che invece aveva effettivamente coperto le perdite (così evitando l’insorgenza di danni alla società o ai creditori sociali derivanti dalla prosecuzione dell’attività, pur in presenza di un evidente mancato rispetto delle norme sulla redazione del bilancio e della mancata adozione delle iniziative previste dall’art. 2447 c.c.);
g) infine, la sentenza penale di assoluzione (per il concorso nel delitto di bancarotta fraudolenta commesso dagli amministratori) qui non rileva, per le ragioni diffusamente esposte dal Tribunale alle pagine da 44 a 48 della sentenza non definitiva e rivestendo, comunque, valore assorbente la circostanza che gli appellanti non hanno fornito la prova che il fallimento sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile nel processo penale (ed, in particolare, che allo stesso sia stato notificato, in qualità di persona offesa, l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare) per gli effetti di cui all’art. 652 c.p.p..
6.- Alle questioni poste dalle censure di violazione di norme di diritto formulate dai ricorrenti sono applicabili i principi di recente enunciati da questa Corte secondo cui “sussiste la violazione del dovere di vigilanza, imposto ai sindaci dall’art. 2407 c.c., comma 2, con riguardo allo svolgimento, da parte degli amministratori, di un’attività protratta nel tempo al di fuori dei limiti consentiti dalla legge, tale da coinvolgere un intero ramo dell’attività dell’impresa sociale: al fine dell’affermazione della responsabilità dei sindaci, invero, non occorre l’individuazione di specifici comportamenti dei medesimi, ma è sufficiente il non avere rilevato una così macroscopica violazione, o comunque di non avere in alcun modo reagito ponendo in essere ogni atto necessario all’assolvimento dell’incarico con diligenza, correttezza e buona fede, anche segnalando all’assemblea le irregolarità di gestione riscontrate o denunziando i fatti al P.M., ove ne fossero ricorsi gli estremi, per consentire all’ufficio di provvedere ai sensi dell’art. 2409 c.c., in quanto può ragionevolmente presumersi che il ricorso a siffatti rimedi, o anche solo la minaccia di farlo per l’ipotesi di mancato ravvedimento operoso degli amministratori, avrebbe potuto essere idoneo ad evitare (o, quanto meno, a ridurre) le conseguenze dannose della condotta gestoria” (Sez. 1, Sentenza n. 22911 del 11/11/2010).
D’altra parte, non risulta smentito l’orientamento meno recente, espressamente richiamato dalla sentenza impugnata e risalente a Sez. 1, n. 2538/2005, secondo il quale l’accertamento del nesso causale è “indispensabile per l’affermazione della responsabilità dei sindaci in relazione ai danni subiti dalla società come effetto del loro illegittimo comportamento omissivo”, a tal fine occorrendo accertare che “un diverso e più diligente comportamento dei sindaci nell’esercizio dei loro compiti (tra cui la mancata tempestiva segnalazione della situazione agli organi di vigilanza esterni) sarebbe stato idoneo ad evitare le disastrose conseguenze degli illeciti compiuti dagli amministratori”.
Invero, i principi da cui è retto il risarcimento del danno civile impongono “l’individuazione di un preciso nesso di causalità tra il comportamento illegittimo di cui taluno è chiamato a rispondere e le conseguenze che ne siano derivate nell’altrui sfera giuridica, e richiedono che di tale nesso sia fornita la prova da parte di chi il risarcimento invoca” (Sez. 1, n. 2538/2005) e tali principi assumono particolare importanza nella concreta fattispecie, nella quale si imputa ai ricorrenti una responsabilità concorrente con quella degli amministratori per violazione dell’art. 2449 c.c., (nel testo previgente al D.Lgs. n. 6 del 2003), per il compimento di nuove operazioni vietate (ossia atti gestori diretti non a fini liquidatori, e quindi alla trasformazione delle attività societarie in denaro destinato al soddisfacimento dei creditori e, nei limiti del residuo, dei soci, ma al conseguimento di fini diversi, pur essendo lecito il completamento di attività in corso destinate al miglior esito della liquidazione: cfr. Sez. 1, Sentenza n. 3694/2007) limitatamente al periodo successivo al 7.2,1989.
Ciò perchè dall’ispezione eseguita in quella data i sindaci avrebbero dovuto rilevare l’anomalia costituita dalla fatturazione dell’operazione inesistente nei riguardi della GAMMA e “soprattutto” (cfr. motivazione del tribunale, fatta propria da quella di appello) dalla “successiva nota di accredito, che determinava lo storno dalle componenti attive dello stato patrimoniale di un importo sufficiente ad alterare grandemente l’equilibrio finanziario della società ed a far dubitare della permanenza delle condizioni per la sua operatività”. Ora, anche ai fini della determinazione del danno imputabile alla stregua dei criteri seguiti dalla stessa sentenza impugnata, un conto è che l’anomalia potesse emergere sin dal 7 febbraio 1989 (ma su ciò v. oltre le osservazioni circa la registrazione in contabilità) e un altro è che “soprattutto” dall’operazione di storno dovesse emergere l’anomalia, posto che i ricorrenti deducono (senza che la circostanza sia stata contestata) che lo storno è avvenuto nel mese di aprile del 1989. Sì che non si può ritenere sussistente a far tempo dal 7 febbraio una responsabilità “soprattutto” per non avere rilevato una determinata operazione posta in essere in aprile (operazione di cui, comunque, non è controversa la natura fittizia).
Del pari poco chiara è la sentenza impugnata là dove (v. sopra p.5 sub b) implicitamente rimprovera ai sindaci di non avere richiesto la stampa dei dati contenuti nell’elaboratore, pure implicitamente supponendo che contenesse l’annotazione dell’operazione inesistente, fatturata, però, con numero successivo all’ultima fattura inserita nel registro IVA (V. p.5 sub c). Ciò tenuto conto che la stessa sentenza considera il termine di 60 giorni previsti per l’annotazione dal D.P.R. n. 600 del 1972, art. 22, e che tale termine, in relazione alla fattura emessa il 29.12.1988, scadeva ben oltre la data del 7 febbraio. Nè appare irrilevante l’anomalia riconosciuta dalla stessa Corte di appello, costituita da ciò che il registro IVA vendite risultava “aggiornato al 30.12.1988, e portando l’ultima fattura registrata il n. (OMISSIS), mentre la fattura gamma (del 29.12.1988:n.d.r.) portava un numero successivo”.
Circostanza che potrebbe denotare proprio l’intento degli amministratori di nascondere ai sindaci quella operazione anomala.
Del pari carente appare la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui afferma che “non risulta adeguatamente provata, non avendo gli appellanti indicato specifiche prove a sostegno della loro tesi” la circostanza “che l’effetto distorsivo della fattura GAMMA sarebbe stato in gran parte compensato da una partita passiva, relativa ad altra coeva e parallela operazione inesistente, anch’essa poi stornata (concernente un contratto d’agenzia di data 27.12.1988 intercorso tra ALFA e GAMMA, in base al quale GAMMA aveva emesso a carico di ALFA la fattura n. (OMISSIS) del 31.12.1988, di L. 1.800.000.000 più IVA)”. Che sfugge il significato di adeguatezza della prova circa l’esistenza di un’operazione commerciale di cui, per converso, si menziona – senza dare atto trattarsi di indicazioni di fantasia o senza negarne espressamente l’esistenza nei libri contabili – la data, l’importo, l’indicazione dei contraenti e il numero della fattura. La sentenza impugnata ha attribuito rilievo preminente a quella operazione e dalla motivazione non emerge se le altre circostanze evidenziate (… “considerata, altresì, la presenza di altri rilievi contestualmente mossi dai sindaci nei confronti del R. per mancati versamenti d’imposta precedentemente occultati ed anomalie relative al credito IVA del mese di dicembre”) fossero da sole sufficienti a far emergere, sin dal 7 febbraio 1989, la perdita del capitale sociale.
Infine, quanto alla delibera di aumento del capitale sociale (v. p. 5, sub f), va ricordato il principio per il quale “in tema di riduzione del capitale sociale per perdite, la mera deliberazione di aumento del capitale non è idonea a modificare la situazione contabile della società – e dunque il verificarsi della causa di scioglimento di cui all’art. 2448, n. 4, cod. civ. e la conseguente responsabilità degli amministratori ai sensi dell’art. 2449 – sin quando le nuove azioni non siano sottoscritte (e pagate almeno nella misura percentuale minima prescritta dalla legge)” (Sez. 1, Sentenza n. 13503/2007).
La sentenza impugnata, nel riportare la motivazione di quella del tribunale, afferma (a pag. 22) che “il 17.5.1989 l’assemblea straordinaria della ALFA s.p.a., informalmente convocata, aveva deliberato l’aumento del capitale sociale da uno a quattro miliardi, detta delibera non aveva mai avuto esecuzione e lo stesso versamento dei tre decimi da parte del nuovo socio Group s.r.l., asseritamente effettuato mediante assegno postale, non risultava essere mai stato accreditato sui conti delle società o altrimenti pervenuto nelle casse sociali”.
Ora, se è certo che la delibera – in quanto non eseguita – non poteva scriminare gli amministratori, tuttavia, ai fini della responsabilità concorrente dei sindaci (e, nella concreta fattispecie, al fine di determinare i danni imputabili a far tempo dall’una o dall’altra data) non può non giovare, in ipotesi, ai predetti, la circostanza della convocazione dell’assemblea, della positiva adozione della delibera di aumento del capitale sociale, la sottoscrizione dell’aumento di capitale da parte di nuovo socio (Group s.r.l.) e il versamento dei tre decimi, essendo il mancato versamento della somma nelle casse sociali imputabile agli amministratori.
Sono mancati tutti gli accertamenti innanzi evidenziati, talchè si impone un nuovo esame da parte del giudice del merito anche alla luce dei principi di diritto sopra richiamati.
PQM
La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame e per il regolamento delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Trieste in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 2 ottobre 2013.
Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2013
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