ISSN 2385-1376
Testo massima
La sentenza penale di assoluzione per i reati di estorsione e usura impropria non salva il contribuente dalla tassazione dai redditi non dichiarati. L’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perchè il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario.
È quanto emerge dalla sentenza n.20496 del 06/09/2013 pronunciata dalla Corte di Cassazione, sezione tributaria sul ricorso promosso da un contribuente avverso alcuni accertamenti IRPEF effettuati in seguito ad alcune segnalazioni della Guardia di finanza, nel corso di indagini bancarie svolte in sede penale nei confronti del contribuente per i reati di estorsione e usura impropria
Avverso detto accertamento il contribuente, assolto in sede penale, proponeva ricorso che veniva rigettato sia in primo che in secondo grado.
In particolare la Commissione Tributaria Provinciale rilevava che, nonostante l’assoluzione in sede penale del contribuente, quel che rileva ai fini tributari è se le movimentazioni caratterizzatesi sul conto corrente del contribuente costituiscono prove sufficienti ai fini dell’accertamento dell’imponibile non dichiarato ed in tal senso riteneva “le prove acquisite in sede di accertamento tributario, in particolare per quanto riguarda gli accertamenti bancari, non contraddette da specifiche prove contrarie da parte dell’appellante, sufficienti in relazione anche alla qualificazione e quantificazione extra reddituale dell’imponibile accertato”.
Avverso tale pronuncia il contribuente proponeva ricorso per cassazione lamentando, tra l’altro, che l’ufficio non avrebbe dimostrato la fondatezza della pretesa risultante dall’avviso, “in difetto della produzione di qualsiasi elemento probatorio”.
La Corte ha rigettato il ricorso precisando che nel processo tributario, “nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorchè i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in materia di prova posti dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 4, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sè inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Ne consegue che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perchè il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario” (ex multis, Cass. n. 8129 del 2012);
Si è perciò precisato che “il giudice può fondare il proprio convincimento anche su elementi presuntivi, con una sua autonoma valutazione rispetto a quella del giudice penale; ne discende la legittimità della tassazione dei proventi di attività illecite anche quando dalla sentenza penale di condanna non è emerso in modo certo che il denaro in questione sia entrato nella disponibilità dell’interessato” (Cass. n. 12141 del 2008).
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Z.G. = CONTRIBUENTE;
RICORRENTE
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE;
INTIMATA
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio n. 23/06/06, depositata il 9 maggio 2006;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Z.G. propone ricorso per cassazione, sulla base di quattro motivi, illustrati con successiva memoria, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio che, rigettandone l’appello, ha confermato la legittimità dell’avviso di accertamento parziale ai fini dell’IRPEF per il 1993.
Con tale atto, sulla base di segnalazione della Guardia di finanza, la quale, nel corso di indagini bancarie svolte in sede penale nei confronti del contribuente per i reati di estorsione e usura impropria, aveva verificato i conti correnti a lui intestati, erano stati ritenuti i versamenti solo in parte giustificati dai redditi dichiarati, rilevandosi una differenza configurante redditi di capitali, come tali imponibili ai sensi della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4.
Il giudice d’appello, con riguardo alla assoluzione in sede penale del contribuente, osservava che quel che rileva ai fini tributari è se le movimentazioni caratterizzatesi sul conto corrente del contribuente costituiscano prove sufficienti ai fini dell’accertamento dell’imponibile non dichiarato. Ed in proposito riteneva “le prove acquisite in sede di accertamento tributario, in particolare per quanto riguarda gli accertamenti bancari, non contraddette da specifiche prove contrarie da parte dell’appellante, sufficienti in relazione anche alla qualificazione e quantificazione extra reddituale dell’imponibile accertato”.
Quanto alla riqualificazione della tipologia dell’accertamento sostenuta dal contribuente in ordine alla dicotomia tra disciplina del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 41 bis e art. 38, la considerava arbitraria, in quanto secondo la prima disposizione è sufficiente che dalla segnalazione risultino elementi che consentano di stabilire l’esistenza di un reddito non dichiarato o il maggior ammontare di un reddito parzialmente dichiarato, sicchè non è richiesto che dalla segnalazione debba emergere la prova certa dell’imponibile accertato, ma che da essa risultino elementi propedeutici a stabilire l’esistenza di un reddito non dichiarato.
L’Agenzia delle entrate non ha svolto attività nella presente sede.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente rilevato che la produzione documentale effettuata dal contribuente in udienza non attiene al giudizio.
Con il PRIMO motivo il ricorrente assume che l’ufficio non avrebbe dimostrato la fondatezza della pretesa risultante dall’avviso, “in difetto della produzione di qualsiasi elemento probatorio“;
con il SECONDO, lamenta l’omessa pronuncia sul rilievo, formulato in appello, con il quale si era doluto della modifica del fondamento della pretesa tributaria rispetto all’avviso, a seguito dell’assoluzione del contribuente;
con il TERZO assume che la disciplina di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, nn. 2 e 7, non sarebbe applicabile per accertare i redditi da capitale;
con il QUARTO lamenta vizio di motivazione in ordine alla dedotta vendita di due immobili in (OMISSIS) nel 1991 e nel 1993.
I primi tre motivi, da esaminare congiuntamente in quanto connessi, sono infondati.
Nel processo tributario, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, “nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorchè i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in materia di prova posti dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 4, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sè inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Ne consegue che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perchè il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario” (ex multis, Cass. n. 8129 del 2012);
Si è perciò precisato che “il giudice può fondare il proprio convincimento anche su elementi presuntivi, con una sua autonoma valutazione rispetto a quella del giudice penale; ne discende la legittimità della tassazione dei proventi di attività illecite anche quando dalla sentenza penale di condanna non è emerso in modo certo che il denaro in questione sia entrato nella disponibilità dell’interessato” (Cass. n. 12141 del 2008).
A norma del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 41 bis, i competenti uffici dell’Agenzia delle entrate, senza pregiudizio dell’ulteriore attività accertatrice nei termini stabiliti dall’art.43, qualora dagli accessi, ispezioni e verifiche, nonchè dalle segnalazioni effettuate da altri uffici finanziari, dalla Guardia di finanza o da pubbliche amministrazioni ed enti pubblici oppure dai dati in possesso dell’anagrafe tributaria, “risultino elementi che consentano di stabilire l’esistenza di un reddito non dichiarato o il maggiore aumentare di un reddito parzialmente dichiarato, che avrebbe dovuto concorrere a formare il reddito imponibile..“, con l’accertamento parziale “possono limitarsi ad accertare, in base agli elementi predetti, il redito o il maggior reddito imponibili”.
L’accertamento parziale non è dunque circoscritto all’accertamento del reddito d’impresa o solo a talune delle categorie di redditi di cui all’art. 6 del T.U.I.R., nè, del resto, è richiesto all’ufficio di fornire la “prova certa” del maggior reddito, prova che può invece essere raggiunta anche con le presunzioni di cui alla fonte legale (qualora “risultino elementi che consentano di stabilire l’esistenza di un reddito non dichiarata., gli uffici possono limitarsi ad accertare, in base agli elementi predetti, il reddito o il maggior reddito imponibile“), fatta sempre salva la possibilità per il contribuente di fornire specifica prova contraria, che il giudice d’appello ha accertato non essere stata offerta (“prove acquisite in sede di accertamento tributario, e in particolare per quanto riguarda gli accertamenti bancari, peraltro non contraddette da specifiche prove contrarie da parte dell’appellante…“).
Il quarto motivo si rivela inammissibile, in quanto non corredato del momento di sintesi prescritto per la denuncia del vizio di motivazione dall’art. 366 bis c.p.c..
Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in Euro 11.000, oltre alle spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 10 aprile 2013.
Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2013
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Numero Protocolo Interno : 509/2013