ISSN 2385-1376
Testo massima
Ai fini dell’annullamento di un negozio per incapacità naturale non è necessaria l’esistenza di una malattia che annulli in modo assoluto le facoltà psichiche del soggetto, essendo sufficiente un turbamento psichico risalente al momento della conclusione del negozio tale da menomare gravemente, anche senza escluderle, le facoltà volitive ed intellettive, che devono risultare diminuite in modo da impedire o ostacolare una seria valutazione dell’atto o la formazione di una volontà.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 903-2008 proposto da:
A.S.
– ricorrente –
contro
L.F. , AM.SA
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 877/2007 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 06/09/2007, R.G.N. 1204/2004;
Svolgimento del processo
A.S. convenne, davanti al tribunale di Siracusa, Am.Sa. e L.F. chiedendone la condanna alla restituzione della somma di lire centomilioni – dalla stessa affidata ai convenuti in attesa che si presentasse l’opportunità di comprare una casa ad (OMISSIS), nonchè al risarcimento dei danni.
I convenuti, costituitisi, negarono il fondamento della domanda.
II tribunale, con sentenza del 9.1.2004, condannò i convenuti a pagare all’attrice la somma di Euro 51.645,68, rigettando le ulteriori domande.
A diversa conclusione pervenne la Corte d’Appello che, con sentenza del 6.9.2007, accolse l’impugnazione proposta dagli originari convenuti rigettando la domanda di restituzione della somma, avanzata dalla A..
Quest’ultima ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un motivo.
Resistono con controricorso Am.Sa. e L. F..
Motivi della decisione
Il ricorso è stato proposto per impugnare una sentenza pubblicata una volta entrato in vigore il D.Lgs. 15 febbraio 2006, n. 40, recante modifiche al codice di procedura civile in materia di ricorso per cassazione; con l’applicazione, quindi, delle disposizioni dettate nello stesso decreto al Capo 1^.
Secondo l’art. 366 bis c.p.c. – introdotto dall’art. 6 del decreto – i motivi di ricorso debbono essere formulati, a pena di inammissibilità, nel modo lì descritto ed, in particolare, nei casi previsti dall’art. 360, nn. 1), 2), 3) e 4, l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere con la formulazione di un quesito di diritto, mentre, nel caso previsto dall’art. 360, comma 1, n. 5), l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.
Segnatamente, nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione; e la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (S.U. 1.10.2007 n. 20603; Cass. 18.7.2007 n. 16002).
Il quesito, al quale si chiede che la Corte di cassazione risponda con l’enunciazione di un corrispondente principio di diritto che risolva il caso in esame, poi, deve essere formulato, sia per il vizio di motivazione, sia per la violazione di norme di diritto, in modo tale da collegare il vizio denunciato alla fattispecie concreta (v. S.U. 11.3.2008 n. 6420 che ha statuito l’inammissibilità – a norma dell’art. 366 bis c.p.c. – del motivo di ricorso per cassazione il cui quesito di diritto si risolva in un’enunciazione di carattere generale ed astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo od integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo).
La funzione propria del quesito di diritto – quindi – è quella di far comprendere alla Corte di legittimità, dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (da ultimo Cass.7.4.2009 n. 8463; v, anche S.U. ord. 27.3.2009 n. 7433).
Inoltre, 1’art. 366 bis c.p.c., nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, comporta – ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso stesso -, una diversa valutazione, da parte del giudice di legittimità, a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, ovvero del motivo previsto dal numero 5 della stessa disposizione.
Nel primo caso ciascuna censura – come già detto – deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., all’enunciazione del principio di diritto, ovvero a dieta giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza.
Nell’ipotesi, invece, in cui venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo iter argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso (c.d. momento di sintesi) – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (v. da ultimo Cass. 25.2.2009 n. 4556).
Il quesito posto con riferimento alla violazione contestata ed il momento di sintesi in relazione al vizio motivazionale rispettano i requisiti posti dall’art. 366 bis c.p.c..
Con unico motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1782, 1766 c.c. e art. 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – Insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Il motivo è fondato per le ragioni che seguono.
La Corte di merito afferma (pag. 8 della sentenza): “Il primo giudice ha puntualmente contestato la veridicità delle affermazioni degli odierni appellanti con valutazioni condivisibili, ma 1’eventuale accertata falsità delle tesi dei coniugi A. – L. non è sufficiente all’accoglimento di una domanda che rimane pur sempre sfornita di prova.
L’unico fatto certo, perchè non contestato, è 1’avvenuta dazione di denaro dall’appellata agli appellanti, ma la domanda di restituzione non poteva essere accolta non avendo la A. provato di averne il corrispondente diritto e varie potendo essere le causali della predetta dazione”.
Queste conclusioni sono errate.
La pacifica qualificazione del rapporto intercorso fra le parti di deposito irregolare – riconosciuta da entrambi i giudici di merito – non consente, infatti, di giungere alla conclusione per la quale sarebbe stata la depositante a dovere provare le ragioni del suo diritto alla restituzione.
E’ giurisprudenza consolidata di questa Corte di legittimità che, in caso di deposito irregolare di beni fungibili, come il denaro, che non siano stati individuati al momento della consegna, essi entrano nella disponibilità del depositario, che acquista il diritto di servirsene e, pertanto, ne diventa proprietario, pur essendo tenuto a restituirne altrettanti della stessa specie e qualità; e ciò, salvo che al negozio sia stata apposta un’apposita clausola derogatoria (Cass. 23.8.2011 n. 17512; Cass. 20.4.2001 n. 5843; Cass. 22.9.2000 n. 12552).
La conclusione non muta solo perchè, invece di denaro, sia stato consegnato un assegno circolare – come nella specie -per la sua natura pacifica di mezzo di pagamento (Cass. 9.5.2006 n. 11851; Cass. 10.6.2005 n. 12324).
Ed allora, posto che risulta pacifico dalla sentenza impugnata (pag.7) che fra le parti “vi fosse stata la dazione di denaro (in realtà si trattava di un assegno circolare) dall’appellata agli appellanti” e che fosse stata ritenuta provata “sulla base della dichiarazione della teste D.M.M., la circostanza che A.S. intendesse acquistare una casa in (OMISSIS)”; il corollario che ne fa discendere la Corte di merito – che “si tratta di fatti che, però, non provano l’esistenza di un obbligo di restituzione a carico dei coniugi A. – L.” – non è condivisibile.
La natura di deposito irregolare, impone al depositario la restituzione del tantundem al depositante “salvo che al negozio sia stata apposta un’apposita clausola derogatoria”; ipotesi questa non ricorrente nella specie.
Non era, quindi, l’odierna ricorrente a dovere provare il suo diritto alla restituzione, ma gli odierni resistenti a dovere provare le ragioni di fatto della insussistenza di un loro obbligo a tale restituzione; ciò che non hanno fatto.
Anzi, la Corte di merito, sotto questo profilo, ha dimostrato di condividere (pag. 7 della sentenza) “la valutazione del primo giudice che ha considerato pretestuose le imputazioni di pagamento, riferite dai coniugi A. – L.”.
Conclusivamente, il ricorso è accolto e la sentenza cassata.
Sussistono, poi, le condizioni per una pronuncia nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto.
Le conclusioni cui si è giunti giustificano il rigetto dell’appello proposto da A.S. e L.F., con la conseguente conferma della sentenza di primo grado.
Le spese dei due gradi (di appello e di legittimità), seguono la soccombenza e, liquidate come in dispositivo, sono poste a carico solidale degli odierni resistenti.
PQM
La Corte accoglie il ricorso. Cassa e, decidendo nel merito, rigetta l’appello e conferma la sentenza di primo grado. Condanna i resistenti in solido al pagamento delle spese che liquida, per il giudizio di appello in complessivi Euro 3.250,00, di cui Euro 125,00 per spese vive; e per il giudizio di cassazione in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 4.000,00 per compensi; il tutto oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 14 febbraio 2013.
Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2013
SEGNALA UN PROVVEDIMENTO
COME TRASMETTERE UN PROVVEDIMENTONEWSLETTER - ISCRIZIONE GRATUITA ALLA MAILING LIST
ISCRIVITI ALLA MAILING LIST© Riproduzione riservata
NOTE OBBLIGATORIE per la citazione o riproduzione degli articoli e dei documenti pubblicati in Ex Parte Creditoris.
È consentito il solo link dal proprio sito alla pagina della rivista che contiene l'articolo di interesse.
È vietato che l'intero articolo, se non in sua parte (non superiore al decimo), sia copiato in altro sito; anche in caso di pubblicazione di un estratto parziale è sempre obbligatoria l'indicazione della fonte e l'inserimento di un link diretto alla pagina della rivista che contiene l'articolo.
Per la citazione in Libri, Riviste, Tesi di laurea, e ogni diversa pubblicazione, online o cartacea, di articoli (o estratti di articoli) pubblicati in questa rivista è obbligatoria l'indicazione della fonte, nel modo che segue:
Autore, Titolo, in Ex Parte Creditoris - www.expartecreditoris.it - ISSN: 2385-1376, anno
Numero Protocolo Interno : 469/2013