ISSN 2385-1376
Testo massima
In tema di simulazione, la quietanza priva di data certa non è opponibile al curatore del fallimento che agisca per il recupero del corrispondente credito sorto in favore dell’imprenditore “in bonis“, assumendone la simulazione del relativo pagamento.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 15629/2008 proposto da:
alfa S.P.A.
– ricorrente –
contro
CURATELA DEL FALLIMENTO DELLA beta S.R.L.
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3882/2007 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 14/12/2007, R.G.N. 3953/2004;
Svolgimento del processo
Il fallimento della beta srl convenne, davanti al tribunale di Napoli, la alfa spa chiedendone la condanna al pagamento del residuo credito, dalla società in bonis vantato nei confronti della convenuta per lavori di ristrutturazione eseguiti.
Quest’ultima, costituitasi, negò il fondamento della domanda per avere già pagato la somma richiesta.
Il tribunale, con sentenza del 27.1.2004, dichiarò simulate le quietanzi di pagamento, condannando la convenuta al pagamento della somma ancora dovuta.
Ad eguale conclusione pervenne la Corte d’Appello che, con sentenza del 14.12.2007, rigettò, sia l’impugnazione principale della alfa spa, sia quella incidentale del Fallimento in ordine alle spese giudiziali.
Ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi la alfa spa.
Resiste con controricorso illustrato da memoria il Fallimento della beta srl.
Motivi della decisione
Preliminarmente, risulta rispettato il disposto dall’art. 366 c.p.c., n. 3, che dispone che il ricorso per cassazione deve contenere, a pena d’inammissibilità, l’esposizione sommaria dei fatti di causa.
Tale requisito può ritenersi, infatti, osservato anche quando nel ricorso – come nella specie – sia stata trascritta la sentenza impugnata, purchè se ne possa ricavare la cognizione dell’origine e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni assunte dalle parti, senza necessità di ricorrere ad altre fonti (Cass. 26.3.2012 n. 4782) . Ciò che è avvenuto.
Il ricorso, poi, è stato proposto per impugnare una sentenza pubblicata una volta entrato in vigore il D.Lgs. 15 febbraio 2006, n. 40, recante modifiche al codice di procedura civile in materia di ricorso per cassazione; con l’applicazione, quindi, delle disposizioni dettate nello stesso decreto al Capo 1^.
Secondo l’art. 366 bis c.p.c. – introdotto dall’art. 6 del decreto – i motivi di ricorso debbono essere formulati, a pena di inammissibilità, nel modo lì descritto ed, in particolare, nei casi previsti dall’art. 360, nn. 1), 2), 3) e 4, l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere con la formulazione di un quesito di diritto, mentre, nel caso previsto dall’art. 360, comma 1, n. 5), l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.
Segnatamente, nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione; e la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (S.U. 1.10.2007 n. 20603; Cass. 18.7.2007 n. 16002).
Il quesito, al quale si chiede che la Corte di cassazione risponda con l’enunciazione di un corrispondente principio di diritto che risolva il caso in esame, poi, deve essere formulato, sia per il vizio di motivazione, sia per la violazione di norme di diritto, in modo tale da collegare il vizio denunciato alla fattispecie concreta (v. S.U. 11.3.2008 n. 6420 che ha statuito l’inammissibilità – a norma dell’art. 366 bis c.p.c. – del motivo di ricorso per cassazione il cui quesito di diritto si risolva in un’enunciazione di carattere generale ed astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo od integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo).
La funzione propria del quesito di diritto – quindi – è quella di far comprendere alla Corte di legittimità, dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (da ultimo Cass. 7.4.2009 n. 8463; v., anche S.U. ord. 27.3.2009 n. 7433).
Inoltre, l’art. 366 bis c.p.c., nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, comporta – ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso stesso -, una diversa valutazione, da parte del giudice di legittimità, a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, ovvero del motivo previsto dal numero 5 della stessa disposizione.
Nel primo caso ciascuna censura – come già detto – deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., all’enunciazione del principio di diritto, ovvero a dieta giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza.
Nell’ipotesi, invece, in cui venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo iter argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso (c.d. momento di sintesi) – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (v. da ultimo Cass. 25.2.2009 n. 4556). Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione art. 2710 c.c., artt. 1414 e 1411 c.c. – Eccesso di potere per contraddittorietà, difetto di istruttoria, omessa salutazione di circostanze di rilievo risolutivo, difetto assoluto di motivazione e motivazione insufficiente, perplessa e contraddittoria (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).
Il motivo non è fondato.
Il quesito, posto al termine della illustrazione del motivo, è del seguente tenore: “Dica l’Ecc.ma Corte Suprema di Cassazione che la disposizione di cui all’art. 2710 c.c., trova applicazione anche nel caso in cui una delle parti sia dichiarata fallita quando si tratta di provare un rapporto obbligatorio sorto in periodo antecedente alla dichiarazione di fallimento nel quale il curatore sia succeduti nella stessa posizione del fallito”.
Ora, al di là della sua genericità e dalla mancanza – sotto il profilo del vizio motivazionale – del momento di sintesi, il quesito non coglie la ratio del provvedimento impugnato sul punto, che non ha attribuito alcuna valenza alla documentazione contabile della società fallita per difetto di regolarità delle dette scritture, secondo quanto prescrive l’art. 2710 c.c. (pag. 7 della sentenza).
Infatti, è ben vero che l’art. 2710 c.c., trova applicazione anche nel caso in cui una delle parti sia stata dichiarata fallita, quando si tratta di provare un rapporto obbligatorio sorto in periodo antecedente alla dichiarazione di fallimento. E ciò perchè la prova, anche in tale caso, è relativa ad un rapporto sorto tra imprenditori – e non tra il curatore e l’imprenditore in bonis -, ma a patto che i libri bollati e vidimati nelle forme di legge siano regolarmente tenuti (Cass. 21.12.2005 n. 28299; v. anche Cass. 8.9.2004 n. 18059). Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione art. 2704 c.c. (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3).
Il motivo non è fondato.
Il quesito posto è del seguente tenore: “Dica l’Ecc.ma Corte Suprema di Cassazione che il curatore del fallimento si considera terzo se fa valere situazioni soggettive che spetterebbero ai creditori e incompatibili rispetto agli atti di cui si propone di contrastare l’efficacia; in particolare ai fini delle revocatorie ma se però egli si avvale delle scritture contabili dell’imprenditore non può, per il principio della loro inscindibilità, sottrarsi ai loro effetti sfavorevoli perchè prive di data certa, con la conseguente opponibilità ad esso curatore delle quietanze di pagamento relative all’adempimento di un’obbligazione contratta dall’imprenditore prima del fallimento, nella quale ipotesi esso curatore perde la qualità di terzo”.
A di là della genericità della sua formulazione, il quesito, così posto, non è conferente in relazione alla motivazione adottata sul punto dalla Corte di merito.
A tal fine, deve rilevarsi che il Fallimento non si è per nulla avvalso delle scritture contabili dell’imprenditore fallito, avendo, viceversa, contestato la opponibilità di quelle depositata dalla Co.Da.P. spa perchè non regolarmente tenute; non senza sottolineare, ulteriormente, che la stessa Procedura non è mai entrata in possesso della documentazione di cui si parla “stante il difetto contabile accertato dalla Guardia di Finanza, a seguito di verbale del 19.12.96, a carico della predetta società” (pag. 7 della sentenza).
Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione artt. 1411, 2122, 2126 e 2129 c.c. (ai sensidell’art. 360 c.p.c. , n. 3).
Il motivo non è fondato.
Il quesito è il seguente: “Dica l’Ecc.ma Corte Suprema di Cassazione che secondo quanto prevedono gli artt. 2126 e 2129 c.c., non è di regola ammissibile la prova per testi o per presunzioni dell’esistenza di “un accordo simulatorio concluso allo specifico fine di negare l’esistenza giuridica della quietanza”; mentre solo per il combinato disposto degli artt. 1411 e 2729 c.c. la prova per testimoni e la prova presuntiva in ordine alla simulazione di una quietanza di pagamento sono ammissibili qualora la domanda sia diretta a far valere l’illiceità dell’accordo simulatorio”.
Ora, è opportuno ricordare quale sia l’oggetto di questo giudizio.
Il Fallimento ha agito nei confronti della beta spa per ottenere il pagamento di un residuo credito vantato per lavori di ristrutturazione effettuati dalla società in bonis.
Ha agito, quindi, per l’adempimento di un’obbligazione quella del pagamento del residuo credito in relazione al contratto di appalto concluso per lavori di ristrutturazione dalla società in bonis -, nell’ambito della quale la convenuta, per contestarne la debenza, ha fatto riferimento a presunte quietanze.
Ora, in questo caso, il Fallimento, non è terzo, ma il curatore fallimentare agisce in rappresentanza del fallito, e non della massa dei creditori (Cass. 27.1.2011 n. 1879; Cass. 8.9.2004 n. 18059;
Cass. 18.8.1998 n. 8143).
Egli, pertanto, non può provare per testimoni la simulazione della quietanza di pagamento rilasciata dal fallito alla controparte contrattuale.
Ma a ben vedere, nel caso in esame, quest’ultimo principio non è rilevante perchè, a richiedere la prova testimoniale, non è stato il fallimento, ma la beta. spa; ragion per cui tutte le contestazioni mosse in ordine alla sua ammissibilità sono fuor di luogo.
D’altro canto, vai la pena di sottolineare che, sotto questo profilo, il Fallimento non ha fatto valere la simulazione della quietanza di pagamento, ma la simulazione di un pagamento in contanti, di cui la quietanza sarebbe il documento certificativo, e che, per non avere data certa, non è al Fallimento opponibile (v. anche Cass. 9.7.2005 n. 14481). Non senza ricordare, comunque, che di dette quietanze in atti non vi è traccia.
Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione art. 2735 c.c., omessa e/o insufficiente motivazione e valutazione di circostanze di rilievo risolutivo, difetto assoluto di motivazione e motivazione insufficiente, perplessa e contraddittoria (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).
Il quesito è il seguente: “Dica l’Ecc.ma Corte Suprema di Cassazione che qualora si ritenga che le quietanze non producono effetti vincolanti nei confronti del curatore fallimentare e sono apprezzabili dal giudice al pari di qualsiasi altra prova desumibile dal processo debbono sussistere elementi presuntivi certi che portano a ritenere, non con una valutazione atomistica, ma con una valutazione globale di tutti gli elementi processuali, la simulazione delle quietanze”.
Anche in questo caso, il quesito è generico, non chiarendo la ricorrente, con riferimento al caso concreto, quali siano gli elementi presuntivi considerati “atomisticamente”, nè quali siano i vizi motivazionali addebitabili alla sentenza impugnata.
Peraltro, deve anche considerarsi che le valutazioni, in ordine agli elementi fattuali, spettano al giudice del merito e che – se congruamente motivati come nella specie (pagg. 6-7 della sentenza) -, si sottraggono al giudizio di legittimità. In ogni caso, il curatore fallimentare che agisca per la dichiarazione di simulazione di una quietanza di pagamento, al fine di recuperare il relativo importo al fallimento, può validamente dimostrare l’assenza dell’effettivo versamento della somma in contanti attraverso il collegamento tra presunzioni concordanti, quali ad esempio, l’assoluta mancanza di plausibilità dell’allegazione (Cass. 13.5.2009 n. 11144). Ora, nel caso in esame, la Corte di merito, attraverso il materiale probatorio acquisito al processo – quali le dichiarazioni rese dall’amministratore della alfa srl, le risultanze delle prove testimoniali dedotte dall’odierna ricorrente al fine di dimostrare il pagamento in contanti della somma oggetto delle supposte quietanze, e la mancanza di regolare documentazione contabile – ha correttamente tratto le conclusioni cui la sentenza è pervenuta; con ciò escludendosi il ricorso alle sole presunzioni, come censurato nel motivo in oggetto.
Conclusivamente, il ricorso è rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e, liquidate come in dispositivo, sono poste a carico della ricorrente.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese che liquida in complessivi Euro 8.200,00, di cui Euro 8.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 14 febbraio 2013.
Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2013
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Numero Protocolo Interno : 468/2013