ISSN 2385-1376
Testo massima
Il cliente-curatore ed il professionista possono concordare, sia prima che dopo l’espletamento della prestazione professionale, un compenso in deroga ai minimi di tariffa; in assenza di tale accordo il giudice delegato deve liquidare il compenso spettante al professionista sulla base della tariffa professionale ed avendo riguardo al valore della causa determinato secondo le norme del codice di procedura civile.
E’ quanto affermato con sentenza n.11232 della Corte di Cassazione pronunziata in data 10/05/2013 a seguito del ricorso presentato da un legale avverso il decreto del Tribunale di Milano con cui veniva liquidato il compenso per l’attività professionale da lui espletata.
In particolare, ad avviso del ricorrente, il giudice di merito, in violazione delle tariffe professionali di cui al D.M. 8 aprile 2004 n.127, aveva derogato ai minimi di tariffa in assenza di un accordo tra le parti.
Ebbene, secondo gli ermellini, nel caso de quo trova concreta applicazione, ratione temporis, la disciplina dettata dal D.L. n.223 del 2006 (decreto Bersani) secondo il quale il cliente e il professionista possono concordare un compenso in deroga ai minimi tariffari, mentre, in assenza di tale accordo, il giudice delegato deve liquidare il compenso spettante al professionista sulla base della tariffa professionale avendo riguardo al valore della causa determinato secondo le norme del codice di procedura civile, non potendo derogare ai minimi tariffari.
I giudici di legittimità hanno dunque riconosciuto che, in difetto di un accordo preventivo o successivo tra il curatore e il professionista, il Tribunale aveva preso in considerazione uno scaglione diverso da quello corrispondente al valore della causa secondo le norme del codice di procedura civile, giungendo pertanto a liquidare erroneamente un compenso in misura inferiore ai minimi previsti, peraltro in assenza del parere del Consiglio dell’Ordine che, in tal senso, è espressamente previsto.
In conclusione, la Corte di Cassazione ha cassato il decreto impugnato dall’avvocato atteso che, nella fattispecie in esame, trovando ancora applicazione la disciplina dettata dalla Legge Bersani, il compenso accordato dal giudice delegato può essere inferiore al minimo tariffario soltanto in presenza di un accordo fra le parti.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 10014/2010 proposto da:
TIZIO
– RICORRENTE –
Contro
FALLIMENTO BETA SRL
– INTIMATO –
avverso il decreto del TRIBUNALE di MILANO, depositato il 03/02/2010;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per l’accoglimento del terzo motivo di ricorso, per l’accoglimento del secondo motivo per quanto di ragione e per il rigetto del primo motivo.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con decreto del 21 gennaio 2010 il Tribunale di Milano rigettava il reclamo proposto dall’avv. TIZIO avverso il provvedimento con cui il giudice delegato al fallimento della BETA SRL aveva liquidato il suo compenso per l’attività professionale svolta in un giudizio di responsabilità, promosso, ai sensi della L. Fall., art.146, nei confronti degli ex amministratori della società fallita.
In particolare, premesso che il professionista nella richiesta di liquidazione del compenso aveva fatto riferimento all’importo di Euro 420.000,00 realizzato dalla procedura con la transazione, anziché al valore della domanda di Euro 4.000.000,00 e premesso che il reclamante aveva lamentato, tra l’altro, la violazione delle tariffe professionali di cui al D.M. 8 aprile 2004, n.127, il Tribunale osservava che: 1) ai sensi del d.l. n.223/2006, c.d. Bersani, l’inderogabilità dei minimi di tariffa non era più operante nei rapporti tra cliente e avvocato e sopravviveva soltanto in caso di liquidazione delle spese di giudizio nei confronti del soccombente e di liquidazione giudiziale dei compensi professionali in caso di gratuito patrocinio;
2) il D.M. 8 aprile 2004, n.127, già prevedeva la derogabilità dei minimi di tariffa in presenza, per particolari circostanze del caso, di una manifesta sproporzione tra le prestazioni dell’avvocato e l’onorario previsto dalle tabelle;
3) nella specie, considerato che la fase cautelare, che aveva preceduto quella di merito, era stata autonomamente liquidata e che il giudizio di merito, rimasto nella fase embrionale, aveva sostanzialmente richiesto soltanto una rielaborazione del materiale cognitivo già acquisito nella fase cautelare, lo scaglione di riferimento, per non incorrere in una manifesta sproporzione tra l’entità della prestazione e l’onorario, andava individuato mediando il valore individuato dal tribunale nella fase cautelare (Euro 700.000,00) con il risultato utile conseguito dalla procedura (Euro 420.000,00) e perciò in quello compreso tra Euro 258.300,00 ed Euro 516.500,00; 4) avendo riguardo al predetto scaglione la somma degli onorari minimi era superiore all’importo liquidato dal giudice delegato.
TIZIO propone ricorso per cassazione, deducendo tre motivi.
Il fallimento non ha svolto attività difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il PRIMO motivo il ricorrente deduce la violazione del D.M. 8 aprile 2004, n.127, art.6, lamentando che, poiché le parti non avevano concordato ai sensi del D.L. n.223 del 2006, una deroga ai minimi di tariffa, la liquidazione del compenso doveva avvenire sulla base del valore della causa da determinarsi, nei rapporti tra cliente ed avvocato, secondo le norme del codice di procedura civile e non sulla base del risultato conseguito dalla procedura; erroneamente, inoltre, il Tribunale, al fine di ridurre il valore di riferimento, aveva posto in raffronto l’entità della prestazione e l’onorario, anziché, come previsto dal citato art.6, comma 2, il valore effettivo della controversia e quello presunto a norma del codice di procedura civile.
Con il SECONDO motivo il ricorrente deduce la violazione del D.M. 8 aprile 2004, n.127, art.4, lamentando che la manifesta sproporzione tra l’entità della prestazione e l’onorario era stata utilizzata non per una liquidazione al di sotto dei minimi tariffari, ma per individuare un diverso scaglione di riferimento e senza, inoltre, acquisire il previsto parere del Consiglio dell’Ordine.
Con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione del D.L. n.223 del 2006, art.2, lamentando che il Tribunale aveva derogato ai minimi di tariffa in assenza di un accordo tra le parti.
Il TERZO motivo, dal quale secondo ordine logico occorre prendere le mosse, è fondato.
Invero, il D.L. n.223 del 2006, art.2, dopo avere abrogato le disposizioni che prevedevano, con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali, l’obbligatorietà di tariffe minime, ha anche previsto, al comma secondo, che “il giudice provvede alla liquidazione delle spese di giudizio e dei compensi professionali, in caso di liquidazione giudiziale e di gratuito patrocinio, sulla base della tariffa professionale“.
Pertanto, tale ultima disposizione ha fatto esplicitamente salve le tariffe professionali non solo nel caso della liquidazione delle spese di giudizio a carico del soccombente, ma anche nei casi in cui il giudice deve determinare il compenso professionale.
Al riguardo sembra di dovere escludere che l’espressione liquidazione giudiziale sia riferibile soltanto alla liquidazione delle spese di giudizio nei confronti del soccombente mentre la liquidazione dei compensi professionali sia riferibile soltanto al gratuito patrocinio.
Non vi è dubbio, infatti, che anche la liquidazione del compenso nei rapporti tra il cliente e l’avvocato sia una liquidazione giudiziale quando è operata dal giudice; e, infatti, sia la L. n.794 del 1942, art.29, sia, per quanto attiene più specificamente al caso in esame, l’art.25, comma 1, n.6, parlano di liquidazione dei compensi.
Sembra perciò che la previsione specifica del gratuito patrocinio (rectius patrocinio a spese dello Stato) sia ridondante poiché anche in questo caso la liquidazione può definirsi giudiziale, in quanto operata dal magistrato innanzi al quale pende la causa.
D’altro canto, la disposizione così intesa non sarebbe altro, quanto ai rapporti tra avvocato e cliente, che una applicazione dei principi stabiliti dagli artt.2225 e 2233 cc, secondo cui, in assenza di accordi, si doveva fare riferimento alle tariffe, almeno sino alla loro abrogazione, disposta, con riferimento alle professioni regolamentate nel sistema ordinistico, dal D.L. n.1 del 2012, art.9.
L’estensione della operatività della tariffa anche nei rapporti tra avvocato e cliente, quando tra essi non sia intervenuto un accordo preventivo o successivo e la liquidazione deve essere effettuata dal giudice, risponde del resto ad una identità di ratio, all’esigenza cioè di stabilire preventivamente un parametro rispetto al quale il giudice deve effettuare la liquidazione anche quando le tariffe professionali non siano vincolanti. Una conferma in questo senso è offerta dalla successiva disciplina dettata dall’art. 9 citato che, infatti, dopo avere abrogato le tariffe, ha previsto che “nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del Ministro vigilante“.
Il PRIMO motivo di ricorso è fondato.
In difetto di un accordo preventivo o successivo tra il curatore ed il professionista, il Tribunale ha preso in considerazione uno scaglione diverso da quello corrispondente al valore della causa secondo le norme del codice di procedura civile.
Anche il SECONDO motivo è fondato.
E’ vero che, come prevede il D.M. 8 aprile 2004, n.127, art.4, comma 2, “qualora fra le prestazioni dell’avvocato e l’onorario previsto, dalle tabelle appaia, per particolari circostanze del caso, una manifesta sproporzione, possono essere… diminuiti i minimi indicati nelle tabelle” ed è vero anche che, da un lato, la manifesta sproporzione può trovare ragionevolmente causa, secondo una valutazione riservata al giudice di merito, nel fatto che l’attività chiesta al professionista sia in parte ripetitiva di quella già chiesta allo stesso professionista in una precedente fase cautelare e che, d’altro canto, la diminuzione dei minimi può avvenire attraverso il riferimento ad un inferiore scaglione di valore. Tuttavia, in questo caso, la liquidazione in misura inferiore ai minimi previsti dallo scaglione di valore determinato secondo le regole del codice di procedura civile richiede necessariamente, come espressamente previsto dalla disposizione, l’esibizione da parte dell’interessato, e cioè nella fattispecie in esame da parte del curatore, del parere del competente Consiglio dell’Ordine.
In conclusione, il decreto impugnato deve essere cassato con rinvio al Tribunale di Ascoli Piceno in diversa composizione, che si uniformerà al seguente principio di diritto: nel vigore della disciplina dettata dal D.L. n.223 del 2006 (c.d. decreto Bersani) e prima della abrogazione delle tariffe professionali ad opera del D.L. n.1 del 2012, il cliente-curatore ed il professionista possono concordare, sia prima che dopo l’espletamento della prestazione professionale, un compenso in deroga ai minimi di tariffa; in assenza di tale accordo il giudice delegato deve liquidare il compenso spettante al professionista sulla base della tariffa professionale ed avendo riguardo al valore della causa determinato secondo le norme del codice di procedura civile; soltanto in presenza del parere obbligatorio del competente Consiglio dell’Ordine il giudice delegato può liquidare il compenso in misura inferiore ai minimi di tariffa, se ritiene sussistente una manifesta sproporzione fra le prestazioni dell’avvocato e l’onorario previsto.
PQM
accoglie il ricorso; cassa il decreto impugnato e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, al Tribunale di Milano in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 3 aprile 2013.
Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2013
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