ISSN 2385-1376
Testo massima
In tema di responsabilità disciplinare degli avvocati, la pubblicità informativa che lede il decoro e la dignità professionale costituisce illecito, ai sensi del R.D.L. 27 novembre 1933, n.1578, art.38, poiché l’abrogazione del divieto di svolgere pubblicità informativa per le attività libero- professionali non preclude all’organo professionale di sanzionare le modalità ed il contenuto del messaggio pubblicitario, quando non conforme a correttezza.
E’ quanto emerge dalla sentenza n.10304 pronunziata in data 03-05-2013 dalla Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, a seguito del ricorso presentato da un avvocato avverso la sanzione disciplinare comminatale dall’ordine di appartenenza e convalidata dal Consiglio nazionale forense.
Nel caso di specie, il ricorrente era stato “richiamato” dal Consiglio dell’ordine di appartenenza per aver rilasciato un’ intervista, su un periodico mensile, considerata lesiva delle norme deontologiche in materia di pubblicità e informazione dell’attività professionale.
Ad avviso del Consiglio dell’ordine, infatti, il ricorrente era venuto meno ai doveri di lealtà, decoro e correttezza propri dell’esercizio della professione di avvocato, rilasciando tale intervista, corredata da numerose fotografie, al solo fine di trasmettere un messaggio pubblicitario occulto e, dunque, in violazione degli artt.5, 6, 17, 17 bis e 18 del codice deontologico.
Ebbene, la giurisprudenza delle Sezioni Unite, con sentenza n. 19705 del 13 novembre 2012, si era già pronunziata in materia di responsabilità disciplinare degli avvocati, affermando che il consiglio dell’ordine può sempre fare una valutazione sulle forme di pubblicità poste in essere dagli avvocati e lesive del decoro della dignità professionale, ribadendo pertanto il principio di diritto secondo il quale la pubblicità informativa deve essere funzionale all’oggetto, veritiera, corretta, non deve violare l’obbligo del segreto professionale e non deve essere equivoca, ingannevole o denigratoria
Nel caso de quo, i giudici di Piazza Cavour, hanno rilevato che il “tipo di pubblicazione“, il “titolo dell’articolo“, la “forma dell’intervista“, costituivano una “modalità” non consona, perché non consentivano al lettore di percepire con immediatezza di trovarsi al cospetto di una informazione pubblicitaria, che ben poteva, quindi, definirsi “occulta“.
In conclusione, dunque, i giudici di legittimità, ravvisando nel contenuto della rivista, oggetto di contestazione, violazioni della deontologia professionale del tipo di quelle sospettate dal Consiglio dell’ordine, hanno rigettato il ricorso avanzato dall’avvocato.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
TIZIA
– ricorrente –
contro
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI
– intimato –
e PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;
– intimato –
Avverso la sentenza del Consiglio Nazionale Forense, n.121/12, del 31 marzo 2012, depositata il 22 settembre 2012, notificata il 17 ottobre 2012;
Udito il P.M., in persona dell’Avvocato Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
Nel settembre 2007 sul periodico mensile “(OMISSIS)”, allegato al quotidiano “(OMISSIS)”, era pubblicato il testo di una intervista rilasciata dall’avv. TIZIA con il titolo “Tra Germania e Italia accompagnando i clienti nella costituzione di joint venture e partnership all’estero. L’avv. TIZIA racconta la sua ventennale esperienza. L’impresa in primo piano”.
Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, ritenendo che la predetta intervista implicasse una violazione delle norme deontologiche in materia di pubblicità e informazione dell’attività professionale, il 25 settembre 2007 chiedeva all’avv.TIZIA e al di lei fratello CAIO, di fornire opportuni chiarimenti, nell’ambito di un procedimento che era stato aperto d’ufficio.
I chiarimenti erano forniti con lettera datata 27 settembre 2007, negando che nel contenuto dell’intervista potessero ravvisarsi violazioni della deontologia professionale del tipo di quelle sospettate dal COA.
Quest’ultimo, tuttavia, con delibera del 1 dicembre 2008, notificata il successivo giorno 11, procedeva all’incolpazione dei fratelli TIZIA e CAIO, contestando loro i seguenti addebiti:
“essere venuti meno ai doveri di lealtà, decoro e correttezza propri dell’esercizio della professione di avvocato, concordando e rilasciando – la sola TIZIA – e comunque consentendo la pubblicazione – entrambi gli incolpati -, sul periodico (OMISSIS) apparso nel settembre 2007 allegato al quotidiano (OMISSIS), di un’intervista, corredata da numerose fotografie:
a) integrante mera pubblicità, ancorché, in apparenza, priva delle caratteristiche proprie della stessa – stante l’utilizzazione dello strumento dell’intervista -, così da trasmettere al lettore, anche in ragione dell’assenza di qualsivoglia esplicito riferimento alla reale natura dell’informazione, un messaggio pubblicitario occulto;
b) dal contenuto non limitato alle sole indicazioni previste dall’art.17-bis del codice deontologico forense.
Quanto sopra in violazione degli artt.5, 6, 17, 17 bis e 18 del codice deontologico”.
Disposto il rinvio a giudizio ed espletata l’udienza, il COA dichiarava: a) l’avv.CAIO non responsabile per non aver commesso il fatto, ritenendo non conseguita la prova del suo personale coinvolgimento nei fatti contestati;
b) l’avv. TIZIA responsabile dell’illecito disciplinare contestato e ritenuto assorbito il punto b) della contestazione in quello di cui al punto a) applicando la sanzione dell’avvertimento.
Notificata la decisione il 9 novembre 2009, la stessa era impugnata dall’avv. TIZIA con atto del 27 novembre 2009.
L’impugnazione era respinta dal Consiglio Nazionale Forense con la sentenza in epigrafe, avverso la quale l’avv. TIZIA propone ricorso alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con cinque motivi.
Non si sono costituiti nel giudizio nè il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, nè il procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, ai quali l’impugnazione è stata notificata.
Motivi della decisione
1. Con i primi QUATTRO motivi del ricorso, che possono essere valutati congiuntamente per ragioni di connessione logica, l’avv. TIZIA contesta la sussistenza nella specie sia di un supporto normativo che legittimi l’addebito della condotta come formulata nell’incolpazione e nella motivazione della sentenza impugnata, sia i contenuti specifici della condotta stessa descritti dal COA, prima, e dal Consiglio Nazionale Forense, poi, il cui difetto sarebbe denunciato dallo stesso titolo della c.d. intervista, laddove esso fosse stato letto e valutato nella sua integralità.
1.2. Le censure sono infondate.
La giurisprudenza di queste Sezioni Unite ha già avuto modo di affermare che “in tema di responsabilità disciplinare degli avvocati, la pubblicità informativa che lede il decoro e la dignità professionale costituisce illecito, ai sensi del R.D.L. 27 novembre 1933, n.1578, art.38, poiché l’abrogazione del divieto di svolgere pubblicità informativa per le attività libero- professionali, stabilita dal D.L. 4 luglio 2006, n.223, art.2, convertito nella L.4 agosto 2006, n.248, non preclude all’organo professionale di sanzionare le modalità ed il contenuto del messaggio pubblicitario, quando non conforme a correttezza, in linea con quanto stabilito dagli artt.17, 17 bis e 19 del codice deontologico forense, e tanto più che il D.P.R. 3 agosto 2012, n.137, art.4, al comma 2, statuisce che la pubblicità informativa deve essere funzionale all’oggetto, veritiera e corretta, non deve violare l’obbligo di segreto professionale e non deve essere equivoca, ingannevole o denigratoria” (Cass. SU 13 novembre 2012, n.19705; v. anche Cass. S.U. 10 agosto 2012, n.14368 secondo la quale:
“In tema di responsabilità disciplinare degli avvocati, la pubblicità informativa finalizzata all’acquisizione della clientela costituisce illecito, ai sensi del R.D.L. 27 novembre 1933, n.1578, art.38, e degli artt.17 e 17 bis del codice deontologico forense, ove venga svolta con modalità lesive del decoro e della dignità della professione. A tal fine, invero, resta irrilevante sia che il D.Lgs. 2 agosto 2007, n.145, abbia disciplinato esaustivamente la materia della pubblicità ingannevole e comparativa, attribuendo i poteri sanzionatori all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in quanto questi non attengono alle violazioni del codice di deontologia forense, sia che il D.L. 4 luglio 2006, n.223, art.2, comma 1, lett. b), conv. dalla L.4 agosto 2006, n.248, consenta di svolgere pubblicità informativa, siccome la disposizione non incide sul rilievo disciplinare delle modalità e del contenuto con cui la pubblicità informativa è realizzata, sia, infine, che l’incolpato si sia immediatamente adeguato al modello comportamentale suggerito dall’incolpazione, giacché non esiste alcuna norma nel sistema disciplinare forense che escluda l’illecito in ragione del c.d.ravvedimento operoso”.
1.3. Orbene, emerge con chiarezza dalla motivazione della sentenza impugnata, che la condotta posta a base dell’incolpazione consiste esclusivamente nella circostanza che la “pubblicità” sia stata svolta con modalità lesive della dignità e del decoro della professione.
2. La sentenza impugnata sottolinea che il “tipo di pubblicazione”, il “titolo dell’articolo” – del quale è posto in evidenza proprio la parte, “l’impresa in primo piano”, che, in contraddizione con il reale contenuto dell’intervista, rivela una attitudine “deviante” – e la “forma dell’intervista“, costituivano, in una considerazione unitaria e nella loro contestualità, una “modalità” non consona, perché “non consentivano al lettore di percepire con immediatezza di trovarsi al cospetto di una informazione pubblicitaria“, che ben poteva, quindi, definirsi “occulta”. Una informazione pubblicitaria confezionata, cioè, sotto “altre spoglie”, senza dichiarare espressamente che effettivamente di pubblicità si tratta.
3. A tanto contribuiva, poi, in maniera determinante “il contenuto intrinseco dell’intervista che, lungi dal contenere riferimenti alle problematiche tecnico giuridiche sui rapporti commerciali e societari che ci si aspetterebbe chiamate in causa dal titolo, si sviluppa in quattro pagine attardandosi, invece, sulla struttura, le competenze e le attività dello studio professionale arricchito da numerose rappresentazioni fotografiche”.
In proposito, si deve osservare, poiché molte delle censure argomentate dal parte ricorrente sconfinano nel merito delle questioni, sollecitando un controllo sulla motivazione, che, secondo la giurisprudenza di queste Sezioni Unite, “nei procedimenti disciplinari a carico di avvocati, la concreta individuazione delle condotte costituenti illecito disciplinare definite dalla legge mediante una clausola generale (abusi o mancanze nell’esercizio della professione o comunque fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale) è rimessa all’Ordine professionale, ed il controllo di legittimità sull’applicazione di tali norme non consente alla Corte di cassazione di sostituirsi al Consiglio nazionale forense nell’enunciazione di ipotesi di illecito, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza, che attiene non alla congruità della motivazione, ma alla individuazione del precetto e rileva, quindi, ex art.360 cpc, n.3″ (Cass. SU 13 novembre 2012, n.19705; v. anche SU 28 settembre 2007, n.20360, secondo la quale: “In materia di procedimento disciplinare a carico degli avvocati, con riguardo alla concreta individuazione delle condotte costituenti illecito disciplinare, il controllo di legittimità non consente alla Corte di Cassazione di sostituirsi al Consiglio Nazionale Forense nell’enunciazione di ipotesi di illecito nell’ambito della regola generale di riferimento, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza, atteso che l’apprezzamento della rilevanza dei fatti rispetto alle incolpazioni appartiene alla esclusiva competenza dell’organo disciplinare”).
4. Con il QUINTO motivo di ricorso, la parte ricorrente denuncia il mancato rispetto della normativa Europea dalla quale deriverebbe il riconoscimento di un principio di libertà nella pubblicizzazione delle attività professionali, sollecitando la Corte a proporre, se del caso, questione pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
4.1. Si tratta di una prospettiva esegetica che non può essere condivisa.
Si è già ricordato, come la giurisprudenza delle Sezioni Unite abbia posto in evidenza che le disposizioni di cui al D.L. n.223 del 2006, art.2, convertito in L. n.248 del 2006 – le quali delle norme comunitarie sulla libera concorrenza e sulla libertà di circolazione delle persone e dei servizi anche per quanto attiene alla materia delle professioni vuole essere concreta attuazione nell’ordinamento interno -, non incidono “sul rilievo disciplinare delle modalità e del contenuto con cui la pubblicità informativa è realizzata” (Cass. S.U. 10 agosto 2012, n.14368).
E nulla autorizza una lettura della normativa comunitaria nel senso che essa consenta la realizzazione della pubblicità professionale anche con modalità classificabili come “pubblicità occulta” o che siano lesive della dignità e del decoro della professione: in verità, nel caso di specie, non è in discussione il “diritto” al libero esercizio di una “pubblicità promozionale” dell’attività professionale, bensì esclusivamente la modalità secondo la quale detta pubblicità sia realizzabile nel doveroso rispetto di precisi e specifici limiti deontologici disciplinarmente rilevanti.
5. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato. Non occorre provvedere sulle spese, stante la mancata costituzione della parte intimata.
PQM
La Corte Suprema di Cassazione Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 9 aprile 2013.
Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2013
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Numero Protocolo Interno : 260/2013