ISSN 2385-1376
Testo massima
Si pubblica un approfondimento in materia di Trust e diritto delle imprese in crisi a cura del Professore avvocato Francesco Fimmanò, quale strumento più che mai attuale e di rilevante utilità per la prevenzione e il governo della crisi dell’impresa e dell’insolvenza.
Testo del provvedimento
Si pubblica un approfondimento in materia di Trust e diritto delle imprese in crisi a cura del Professore avvocato Francesco Fimmanò, quale strumento di rilevante utilità per la prevenzione e il governo della crisi dell’impresa e dell’insolvenza.
Francesco Fimmanò
Trust e diritto delle imprese in crisi
SOMMARIO: 1. Trust in funzione protettiva del patrimonio del debitore e concorso dei creditori. 2. Il Trust nelle liquidazioni volontarie, nei piani di risanamento e negli accordi di ristrutturazione dei debiti. 3. La protezione temporanea e cautelare prevista dal nuovo articolo 182 bis l. fall. – 4. La segregazione dei beni nel concordato preventivo. 5. Il Trust nel fallimento. – 6. La protezione dei creditori nella Convenzione dell’Aja. – 7. I rimedi revocatori. – 8. Trust interno ed internazionale. – 9. La inimitabilità dell’istituto nell’ordinamento giuridico italiano. – 10. L’applicazione analogica di istituti di diritto interno. – 11. Il contratto fiduciario. – 12. La liceità e la meritevolezza nelle destinazioni omnibus di cui all’art. 2645 ter c.c. – 13. Lo sdoppiamento del diritto di proprietà tra legal estate ed equitable interests. – 14. La costituzione di una newco di scopo funzionale alla liquidazione fallimentare. – 15. Il conferimento in una società terza come forma di garanzia concordataria.
1. Il trust costituisce uno straordinario strumento di autonomia privata per istituire patrimoni destinati a scopi predeterminati, consentendo di derogare in questo modo al principio di responsabilità patrimoniale universale, per cui il debitore risponde delle obbligazioni con tutti i propri beni presenti e futuri.
Ciò ha consentito nei paesi di matrice anglosassone la disciplina delle diverse pretese intorno a patrimoni separati, situazione risolta spesso negli ordinamenti di civil law mediante soluzioni di secondo grado, quale è la costituzione di soggetti giuridici, distinti dalle persone fisiche, che traducono in atti giuridici l’esigenza di dare rilevanza autonoma a tali patrimoni. In buona sostanza si dà luogo invece che all’attribuzione ad uno scopo, all’attribuzione ad una persona che non esiste in natura e che somiglia più ad un interesse precostituito e che ad un soggetto naturalistico .
Si tratta del frutto della nota contrapposizione, nell’ambito degli ordinamenti giuridici di stampo anglosassone, fra i due sistemi normativi del common law e dell’equity, entrambi di creazione giudiziale , privo di equivalenze concettuali nella civil law.
Il trust non ha infatti natura contrattuale, coinvolge il settlor, che compie l’atto di disposizione (e che può riservarsi determinati diritti di ingerenza sul patrimonio), il trustee che ha l’amministrazione dei beni di cui acquista la proprietà vincolata allo scopo, i beneficiari che acquistano il diritto all’intestazione dei beni al momento dello scioglimento del trust e possono vantare diritti agli utili o ad attribuzioni di denaro in pendenza del rapporto, se l’atto di costituzione lo prevede.
L’istituto è una sorta di figura esponenziale delle tecniche di segregazione: i beni che ne costituiscono l’oggetto vengono messi al riparo sia dai creditori personali del trustee, sia dai creditori del disponente salvo che non sia istituito in loro frode ed essi possano ricorrere ai rimedi posti dall’ordinamento per reintegrare la garanzia patrimoniale, sia dai creditori del beneficiario tranne che questi possano pignorare il credito del loro debitore nei confronti del trustee e tale posizione soggettiva implichi il diritto di ottenere il capitale del trust.
Per quanto riguarda il trust in funzione protettiva del patrimonio, questo realizza, mediante un rapporto di natura fiduciaria, un trasferimento o una destinazione di proprietà, a cui è connesso l’obbligo del trustee di eseguire le disposizioni del settlor a vantaggio del beneficiary, talora sotto la supervisione di uno o più protectors, ed a cui è collegato il diritto del beneficiario di esigere tale prestazione. Il disponente può disporre anche verso se stesso oltre che trasferire i beni al fiduciario, il quale ne diventa titolare legale a tutti gli effetti, anche se rimangono segregati nel suo patrimonio a vantaggio di eventuali beneficiari.
Si è affermato in giurisprudenza, con riferimento all’utilizzo dell’istituto nell’ambito di procedure concorsuali, che mediante il trasferimento di beni ad un soggetto quale trustee si verifica immediatamente un effetto segregativo, tale per cui i beni, seppur entrano pienamente nel patrimonio del ricevente, sono esclusivamente deputati al perseguimento degli obiettivi indicati dall’atto istitutivo. Di conseguenza: essi sono insensibili alle vicende personali e patrimoniali del trustee (per cui, ad esempio, i suoi creditori personali non possono soddisfarsi su detti beni; così come, in caso di sua morte non entrano nell’asse ereditario); essi sono trasferiti di diritto, in caso di decesso, revoca o sostituzione del precedente trustee, al nuovo trustee nominato secondo le modalità previste dall’atto istitutivo .
Il fenomeno, dunque, per sua natura si incrocia (o si scontra a seconda dei casi) con i due capisaldi, almeno tendenziali, del diritto delle imprese in crisi: il divieto di azioni esecutive individuali e la par condicio creditorum.
Il trust può infatti essere utilizzato come strumento al servizio delle procedure concorsuali al fine di garantire nell’avvio o nell’esecuzione delle stesse la conservazione dinamica delle masse o può costituire uno strumento preventivo di protezione patrimoniale di masse separate appartenenti od appartenute a soggetti insolventi.
2. Negli ultimi anni si è registrato un crescente utilizzo del trust nel diritto delle imprese in crisi, come tecnica di accelerazione delle operazioni di chiusura del fallimento o di liquidazione dell’attivo o, ancora, come forma di garanzia della massa dei creditori nei concordati preventivi e fallimentari.
Tuttavia si è immaginato l’uso del trust anche nelle liquidazioni volontarie, nei piani di risanamento e negli accordi di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182 bis, l. fall., come strumento funzionale al controllo dei modi e dei tempi di preparazione ed esecuzione delle operazioni oltre che per aumentarne il livello di trasparenza, così da ridurre il rischio che i creditori meglio organizzati entrino in conflitto con il debitore al fine di indirizzare la liquidazione, il risanamento o la ristrutturazione verso un risultato espropriativo delle ragioni di quelli estranei alla “direzione” dell’operazione .
Si è evidenziato in particolare che il trust potrebbe divenire uno strumento efficiente al fine di favorire il coordinamento dell’agire dei creditori, consentendo «a coloro che pianificano il superamento dell’insolvenza, anche tramite una liquidazione “controllata” degli assets del debitore, di perseguire quell’obiettivo con utilità, vanificando le iniziative esecutive e disgregative dei singoli, non impegnati nello stesso tentativo e nello stesso modo» .
D’altra parte le procedure concorsuali sono dirette, sul piano economico, a risolvere i problemi connessi all’azione collettiva , in quanto impediscono le azioni espropriative e cautelari dei singoli creditori che produrrebbero altrimenti effetti distruttivi per l’impresa in default .
Ci si è chiesto innanzitutto se un imprenditore illiquido ma sufficientemente patrimonializzato possa prevenire un’istanza di fallimento, o resistere alla stessa, destinando tutti i suoi beni (o comunque una parte di essi di valore superiore ai debiti) al pagamento dei creditori mediante l’istituzione di un trust . In realtà l’istituto non ha effetti solutori, ma tutt’al più uno scopo solutorio o liberatorio, che tuttavia potrà dirsi realizzato solo in un secondo momento, mediante l’azione del trustee.
Peraltro, se pure si volesse assegnare “valenza sostanzialmente solutoria all’istituzione del trust, non si potrebbe comunque sfuggire alla constatazione che questo non è un mezzo normale o regolare di adempimento” . Ancora meno senso avrebbe la tecnica per le società in liquidazione (per le quali la nozione di insolvenza è diversa dal momento che non si propongono di tornare sul mercato, ma solo di definire i rapporti pendenti) in quanto il suo scopo si andrebbe interamente a sovrapporre a quello della società istituente ed al cui raggiungimento sono obbligati istituzionalmente i liquidatori.
In realtà l’istituto potrebbe servire in particolare a “coprire” quella fase delicata delle trattative funzionali alla conclusione di un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis l. fall., diretto ad evitare la dichiarazione di fallimento, visto che fino alla sua pubblicazione non si produce, o meglio non si produceva, alcuno degli effetti protettivi previsti dalla legge . E comunque una delle criticità ravvisate nella disciplina sta nella breve durata della sospensione (o temporanea improcedibilità) delle azioni esecutive, visto che trascorsi sessanta giorni dalla pubblicazione dell’accordo, i creditori estranei possono aggredire esecutivamente il patrimonio del debitore, mettendo a repentaglio la buona riuscita dell’operazione di risanamento.
Il trust diverrebbe così una via, su base privatistica, per garantire una protezione immediata già nella fase delle trattative sul modello statunitense del cd. “automatic stay”, efficace non appena presentata la domanda di ammissione alla procedura di reorganization . Inoltre la tecnica consentirebbe di segregare una parte del patrimonio del debitore proponente, destinandolo in via esclusiva al soddisfacimento dei creditori aderenti e sottraendolo all’aggressione di quelli estranei (free riders) in modo duraturo, anziché limitatamente a soli sessanta giorni dalla pubblicazione. Per l’effetto i creditori estranei potrebbero agire sui residui beni del debitore, che del resto dovrebbero quale condizione essenziale per l’omologazione essere di valore sufficiente .
In questa logica l’accordo di ristrutturazione potrebbe persino prevedere un guardian del trust da far designare al tribunale, pervenendo alla emersione, sulla base dell’autonomia privata, di una sorta di organo di vigilanza con funzioni analoghe a quelle del commissario giudiziale.
Ma anche in questo caso il problema sarebbe l’emersione di una modifica di fatto della disciplina legislativa di cui all’art. 182 bis, l. fall., con l’introduzione di un blocco definitivo delle azioni esecutive individuali laddove il legislatore ne prevede una sospensione di durata limitata nel tempo e comunque non automatica.
Si corre, infatti, il concreto rischio che una operazione di questo tipo, formalmente finalizzata a tutelare i creditori, rappresenti al contrario una forma di liquidazione atipica diretta in realtà alla sottrazione dei beni sociali rispetto al loro impiego e finalità di regolazione dei debiti . E ciò avverrebbe anche se si utilizzassero strumenti negoziali “domestici”, come la destinazione omnibus ex art. 2645 ter c.c. di cui parleremo più innanzi, in modo da ottenere risultati che il legislatore riconnette solo all’avvio di procedure tipiche (come la domanda di concordato preventivo).
L’atipicità della costruzione potrebbe in questa logica configurare un contegno indiretto in frode alla legge, oltre che ai creditori, e comunque non meritevole di tutela . A tal fine, anche quella giurisprudenza che riconosce l’ammissibilità del trust liquidatorio, rileva che per armonizzarsi con l’art. 15 della Convenzione dell’Aja, l’atto istitutivo deve comunque apparire meritevole di tutela e contenere clausole che ne limitino l’operatività in caso di insolvenza, ed in particolare che prevedano la restituzione dei beni segregati al curatore . La convenzione dell’Aja non ostacola l’applicazione delle disposizioni di legge previste dalle regole di conflitto del foro, allorchè non si possa derogare a dette disposizioni mediante una manifestazione della volontà, in particolare in materia di “protezione dei creditori in casi di insolvibilità” .
E’ chiaro che sarà da considerarsi comunque ripugnante il trust diretto in realtà ad ostacolare le pretese creditorie e a dribblare le istanze di fallimento, per dirla secondo la giurisprudenza anglosassone “to set up a screen to shield his resources from other claims” .
3. La nostra impostazione secondo cui ubi lex voluit dixit è stata confermata dall’intervento normativo di cui al decreto legge 31 maggio 2010, n. 78 (convertito con Legge del 30 luglio 2010, n. 122), nella parte in cui introduce i nuovi tre ultimi comma all’art. 182 bis, l. fall., .
Il legislatore sancisce che il divieto di iniziare o proseguire le azioni cautelari o esecutive può essere richiesto dall’imprenditore anche nel corso delle trattative e prima della formalizzazione dell’accordo di ristrutturazione depositando presso il tribunale competente ai sensi dell’articolo 9 l. fall. , la documentazione di cui all’articolo 161, primo e secondo comma, e una proposta di accordo corredata da una dichiarazione dell’imprenditore, avente valore di autocertificazione, attestante che sulla proposta sono in corso trattative con i creditori che rappresentano almeno il sessanta per cento dei crediti e da una dichiarazione del professionista attentatore revisore contabile, circa la idoneità della proposta, se accettata, ad assicurare il regolare pagamento dei creditori con i quali non sono in corso trattative o che hanno comunque negato la propria disponibilità a trattare. L’istanza di sospensione è pubblicata nel registro delle imprese e produce l’effetto del divieto di inizio o prosecuzione delle azioni esecutive e cautelari, nonché del divieto di acquisire titoli di prelazione, se non concordati, dalla pubblicazione.
II tribunale, verificata la completezza della documentazione depositata, fissa con decreto l’udienza entro il termine di trenta giorni dal deposito dell’istanza, disponendo la comunicazione ai creditori della documentazione stessa. Nel corso dell’udienza, riscontrata la sussistenza dei presupposti per pervenire a un accordo di ristrutturazione dei debiti con le maggioranze di cui al primo comma e delle condizioni per il regolare pagamento dei creditori con i quali non sono in corso trattative o che hanno comunque negato la propria disponibilità a trattare, dispone con decreto motivato il divieto di iniziare o proseguire le azioni cautelari o esecutive e di acquisire titoli di prelazione se non concordati assegnando il termine di non oltre sessanta giorni per il deposito dell’accordo di ristrutturazione e della relazione redatta dal professionista a norma del primo comma .
Il legislatore è dunque intervenuto ampliando la protezione del patrimonio sia quanto all’oggetto sia quanto ai tempi, vanificando del tutto quella funzione sostitutiva dell’automatic stay che si era tentato di attribuire al trust. Oltre al divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari, i creditori non possono acquisire titoli di prelazione che non siano concordati, ivi comprese, evidentemente le ipoteche giudiziali. Si tratta di un sub-procedimento di natura cautelare seppur atipico, per alcuni versi analogo a quello previsto dall’ultimo comma dell’art. 15 l. fall., laddove il tribunale fallimentare può tra l’altro disporre una “sospensione ragionata dei pagamenti o delle attività esecutive” che potrebbero depauperare il patrimonio aziendale a vantaggio di alcuni soltanto dei creditori . Anche se, in quella sede, il tribunale fallimentare non può sospendere eventuali procedure esecutive in corso , in quanto, come ha giustamente rilevato la migliore giurisprudenza, tale potere è da ritenersi devoluto al giudice dell’esecuzione sino al momento in cui viene aperta quella super-procedura esecutiva, caratterizzata da universalità e concentrazione, con l’attivazione del rimedio di cui all’art. 51 l. fall. .
Il debitore durante la fase delle trattative funzionali al raggiungimento dell’accordo ristrutturativo ha comunque piena capacità negoziale e può dunque vincolare il patrimonio a favore di taluni creditori, con la conseguenza che queste operazioni saranno poi poste al vaglio dei creditori estranei e dei creditori aderenti ma più “critici”.
Resta di conseguenza aperto il problema dell’uso del trust finalizzato ad una duratura protezione dei beni durante tutta l’esecuzione dell’accordo di ristrutturazione e comunque oltre i sessanta giorni previsti dalla norma. L’istituzione in questa logica sarebbe esente da revocatoria, stante l’ampia e generica formula impiegata dall’art. 67, comma 3, lett. e, l.f., che parla di pagamenti, di garanzie e, più in generale, anche di «atti».
In realtà anche questo utilizzo finirebbe con l’introdurre nell’ordinamento una disciplina convenzionale che il legislatore ha voluto collegare alla sola ammissione alla procedura di concordato preventivo. D’altra parte dalla liquidazione dei beni residui, prevista nell’accordo di ristrutturazione, potrebbe ricavarsi meno del previsto ed i creditori estranei all’accordo potrebbero restare almeno in parte insoddisfatti. I dati rappresentati potrebbero non essere veritieri (o non esserlo più per ragioni sopravvenute) ed il proponente potrebbe aver dissimulato parte del passivo o sovrastimato l’attivo. Neppure la relazione attestata garantisce in modo effettivo da questi possibili eventi, salva l’azione di responsabilità da parte dei creditori pregiudicati nei confronti del professionista. Ed in ogni caso laddove fosse accertato successivamente che l’accordo non si sarebbe dovuto omologare perché difettavano le risorse per assicurare il regolare pagamento dei creditori estranei, non sarebbe concepibile un effetto esonerativo ex art. 67, comma 3, l.f. e l’atto istitutivo del trust andrebbe comunque revocato o annullato in quanto in frode ai creditori o, peggio ancora, alla legge.
Dunque, l’utilizzo del trust più conforme all’ordinamento, nei limiti che vedremo più innanzi, rimane quello funzionale alla segregazione soltanto di beni di terzi diversi dal debitore posti a garanzia della corretta e tempestiva esecuzione dell’accordo.
4. Nel caso di utilizzo del trust con funzioni di garanzia di un concordato, il problema principale è invece rappresentato dalla difficoltà di costituire un vincolo sui beni personali dei terzi che si rendano garanti dell’adempimento della proposta mettendo a disposizione il proprio patrimonio.
Si tratta infatti di soggetti diversi dal debitore assoggettato alla procedura, sì che i vincoli previsti dall’art. 168, l. fall., non possono trovare applicazione. E’ stato escluso, in passato, in relazione alla possibilità per il creditore di realizzare una garanzia pignoratizia, che nel concordato preventivo ci si potesse avvalere delle norme generali dettate in materia, in quanto la cessione era vincolata alla procedura ex art. 168 l. fall. Con riferimento alla disciplina di cui all’art. 53 l. fall., era stato negato dalla giurisprudenza che il creditore pignoratizio potesse soddisfarsi del proprio credito nel procedimento di concordato preventivo mediante il ricorso alla vendita del bene .
Nello stesso tempo il patrimonio non viene normalmente messo a disposizione attraverso la costituzione di una garanzia reale a favore della massa dei creditori, sì che è ben possibile che in pendenza del concordato e prima della sua omologazione, i creditori personali del terzo possano agire a tutela dei loro crediti, vanificando di fatto la messa a disposizione dei beni a favore dei creditori concordatari .
La costituzione del trust viene perciò concepita come uno strumento più efficiente della concessione di una garanzia reale sui beni ad assicurare l’effettiva destinazione degli stessi, nei limiti della percentuale concordataria offerta, al pagamento dei creditori, tramite la costituzione di un vincolo, in forza del quale il trust è finalizzato alla liquidazione del patrimonio ed alla distribuzione del ricavato ai creditori concordatari. E si è evidenziato che la giurisprudenza esclude il diritto dei creditori del disponente di assoggettare ad esecuzione forzata i beni immobili costituiti in trust «con atto avente data certa anteriore al pignoramento , considerato che dal riconoscimento del trust, istituito in conformità alla legge regolatrice, deriva (automaticamente) l’effetto segregativo del patrimonio del trustee » e che inoltre «
la nomina del commissario giudiziale o di soggetto indicato dagli organi della procedura come trustee , assicura l’effettivo adempimento delle finalità per le quali il trust è stato costituito».
Esistono precedenti giurisprudenziali specifici, anche ante riforma, secondo cui l’istituto consentirebbe di superare le incertezze interpretative registrate sul concordato misto e sulle modalità di attuazione, assicurando la meritevole composizione degli interessi coinvolti nella procedura, non unilateralmente definibili e valutabili con riferimento al solo debitore concordatario in quanto parallelamente assistiti dall’adempimento del terzo .
5. Le più risalenti applicazioni dell’istituto in esame riguardano il conferimento, nell’ambito del fallimento, in trust di crediti di natura fiscale maturati nel corso della procedura , od anche i crediti commerciali di difficile realizzo, ed esigibili solo dopo la chiusura della stessa.
Secondo una certa giurisprudenza di merito il conferimento delle attività fallimentari nel trust sarebbe più vantaggioso rispetto ad una cessione, posto che nessuna garanzia dell’esistenza dei crediti conferiti risulterebbe dovuta dal fallimento cedente e considerato che la cessione comporterebbe sempre una decurtazione del credito, per via dell’attesa e del rischio che si assume il cessionario. Inoltre i creditori insinuati non risentirebbero di alcun danno, atteso che gli stessi, essendo designati nell’atto costitutivo del trust come «beneficiari», acquisterebbero il diritto, azionabile in giudizio, di essere pagati con i beni segregati, secondo l’ordine già stabilito nello stato passivo della procedura. Il regime di segregazione eliminerebbe poi qualsiasi rischio di distrazione per il soddisfacimento delle ragioni di eventuali creditori del trustee .
Si tratta di un utilizzo in verità opinabile, che, pur ammissibile in astratto, finisce con il vanificare le funzioni della procedura in assenza di previsioni normative, in quanto le attività di liquidazione e distribuzione non sarebbero più disciplinate dalla legge ma dal regolamento del trust . La tecnica lascia peraltro irrisolte le controversie eventualmente sorte nel corso della liquidazione e del riparto, considerato che la chiusura del fallimento fa decadere tutti gli organi della procedura e che non può certo competere al trustee definire il contenzioso oppure autorizzare azioni e transazioni.
La previsione di specifici casi di ultrattività degli organi non costituisce un principio generale ed anzi esclude la sopravvivenza degli stessi dopo la formale chiusura del fallimento. Anche la possibilità di delega di singole operazioni a terzi (art. 104-ter, comma 3, e art. 106, ult. comma, l. fall.) è limitata a casi specifici e comunque endoprocedimentali. Peraltro con la cessazione di tutti gli effetti del fallimento sul patrimonio del fallito, i creditori insoddisfatti possono riprendere le eventuali azioni individuali e va escluso che le somme in questo modo incassate possano essere legittimamente sottratte alla garanzia dei creditori che non abbiano partecipato alla procedura concorsuale.
Il fallimento, a norma dell’art. 118, comma 1, n. 3, l. fall., si può chiudere «quando è compiuta la ripartizione finale dell’attivo» e quindi l’esistenza di crediti o di altre attività fallimentari, non ancora liquidate, da conferire nel trust, è di per sé ostativa alla chiusura. Si è osservato che la ripartizione finale non è la mera redazione del progetto, ma l’effettivo pagamento dei creditori, eventualmente anche mediante assegnazione dei crediti o di altri beni, come risulta confermato sia dall’art. 115 l. fall., ove si parla di pagamento delle somme assegnate ai creditori, sia dall’art. 116 l. fall., ove è previsto che il curatore presenti il proprio rendiconto dopo aver compiuto la liquidazione dell’attivo . Inoltre spetta al curatore, a norma dell’art. 115 l. fall., dover provvedere al pagamento delle somme assegnate nel piano di ripartizione, nei modi stabiliti dal giudice delegato e tale funzione non è certo delegabile. Nello stesso senso va la disposizione secondo cui «
il giudice delegato, nel rispetto delle cause di prelazione, può disporre che a singoli creditori che vi consentono siano assegnati, in luogo delle somme agli stessi spettanti, crediti di imposta del fallito non ancora rimborsati» (art. 117, comma 3, l. fall.).
D’altra parte ubi lex voluit dixit e se il legislatore della riforma fallimentare avesse effettivamente voluto prevedere soluzioni quali il trust o la cartolarizzazione , per la chiusura anticipata o la liquidazione alternativa, l’avrebbe fatto e non avrebbe viceversa contemplato altri istituti quali: la cessione dei crediti futuri anche di natura fiscale (art. 106, comma 1, l. fall.), la stipulazione di contratti di mandato per la relativa riscossione (art. 106, comma 3, l. fall.) , la cessione aggregata di attività e passività aziendali (art. 105, comma 5 l. fall.) e soprattutto la possibilità di liquidazione mediante conferimento in società (art. 105, comma 8, l.fall.) .
Il curatore infatti può costituire una newco in cui conferire l’azienda, rami della stessa o beni e rapporti aggregati, che può rimanere statica in prospettiva della vendita, o laddove appaia opportuno, divenire almeno fino alla cessione un veicolo dinamico anche per l’esercizio concreto dell’attività economica con amministratori che rappresentino una diretta promanazione della procedura . D’altra parte ciò accade normalmente quando nel patrimonio fallimentare siano comprese partecipazioni di società in bonis, rispetto alle quali la procedura esercita i diritti di socio, a cominciare dalla nomina in assemblea degli organi, fino al momento della vendita a terzi. Esattamente come in quel caso il titolare delle partecipazioni della società rimane il debitore fallito, che tuttavia ne viene spossessato e sostituito nell’esercizio dei diritti dal curatore che le vende oppure se il fallimento viene chiuso (o revocato prima della liquidazione), le restituisce.
Peraltro in alternativa alla vendita, il curatore potrebbe soddisfare i creditori concorsuali mediante l’assegnazione delle partecipazioni della società veicolo, in questo caso saremmo di fronte ad una liquidazione mediante conferimento in senso stretto, irrealizzabile con lo strumento del trust . Nello stesso senso va, infine, la disposizione secondo cui «
il giudice delegato, nel rispetto delle cause di prelazione, può disporre che a singoli creditori che vi consentono siano assegnati, in luogo delle somme agli stessi spettanti, crediti di imposta del fallito non ancora rimborsati» (art. 117, comma 3, l. fall.).
6. In ogni caso, in tutte le procedure concorsuali ed in tutti i possibili utilizzi si pone il problema dei problemi ovvero quello dell’ammissibilità del c.d. trust interno o domestico, rispetto al quale la novità rappresentata dall’art. 2645 ter, c.c., è molto rilevante.
Prima di entrare nel merito della questione va detto che in ogni caso, l’istituto non può essere impiegato in violazione dei diritti dei creditori personali del terzo, che siano già venuti in essere, i quali possono, secondo alcuni, impugnare la costituzione del trust con l’azione revocatoria, ordinaria e fallimentare, secondo altri chiederne la declaratoria di nullità per violazione di norme imperative e per altri ancora agire (non contro l’atto istitutivo del trust – che non produce effetti dispositivi bensì) contro l’atto di trasferimento al fiduciario ovvero contro l’atto con il quale i beni sono posti sotto il controllo dello stesso o ancora contro l’atto di segregazione del patrimonio del disponente.
In realtà, la ratifica italiana alla Convenzione de L’Aja ha posto come limiti all’operatività dell’istituto soltanto le regole di diritto interno ritenute di applicazione necessaria, e tra queste la riserva contenuta nell’art. 15, lettera e), riguardante la protezione dei creditori in caso di insolvenza . Di conseguenza va escluso che attraverso il riconoscimento degli effetti del trust, si possa derogare alle norme ed ai principi di ordine pubblico della legge richiamata dalle norme di conflitto del foro.
Si è perciò affermato che nel caso di trust liquidatorio istituito a tutela della massa dei creditori quando la società disponente non era insolvente, la successiva dichiarazione di fallimento di quest’ultima si configurerebbe come causa sopravvenuta di scioglimento dell’atto istitutivo, analogamente a quelle ipotesi negoziali la cui prosecuzione è incompatibile con la dichiarazione di fallimento . Mentre nel caso di trust liquidatorio istituito a tutela dei creditori nel momento in cui l’imprenditore disponente era già insolvente, il relativo atto istitutivo dovrebbe ritenersi radicalmente nullo ab origine in quanto diretto ad eludere le norme imperative che presiedono alla liquidazione concorsuale in violazione degli artt. 13 e 15 lett. e) della Convenzione dell’Aja .
A nostro avviso il rimedio è rappresentato dall’azione revocatoria che può riguardare evidentemente solo gli atti del disponente là dove gli elementi soggettivi ed oggettivi siano collegati al diritto interno ossia quando, come nella specie, i beni si trovano nello Stato ovvero quando il disponente è soggetto al diritto interno, considerato che i beni del trust sono necessariamente segregati all’interno del patrimonio del fiduciario ed i creditori del beneficiario possono solo agire per i crediti che questi può vantare nei confronti del trust (e in linea di principio, tali creditori non possono aggredire i beni del trust che il beneficiario non ha diritto di ottenere anticipatamente o difformemente dalle originarie disposizioni del settlor).
Diversa è la condizione di soggetti e beni che si trovino al di fuori della sfera del nostro diritto interno e che possono beneficiare di particolari trust, che proteggono i beni da un attacco indiretto da parte dei creditori del beneficiario . In particolare, nel sistema inglese la clausola protective protegge i beni da un attacco indiretto da parte dei creditori del beneficiario mettendo fine al diritto di quest’ultimo di ricevere i benefici del trust al verificarsi di determinati eventi nei quali egli non potrebbe percepire le somme altrimenti a lui dovute. All’avverarsi di tali eventi, il trust diviene discrezionale e l’interesse del beneficiario una mera aspettativa . Quando il beneficiario è anche disponente, esistono tuttavia limiti all’efficacia di questa clausola, che non è infatti opponibile al fallimento. La procedura può quindi chiedere al trustee quello che spettava al debitore prima dell’insolvenza in base ai termini del trust fisso che si sarebbe dovuto trasformare in discrezionale all’avverarsi della condizione dedotta nella clausola protective.
Si parla di trust protettivi in senso proprio ed in senso lato. Nel primo caso si fa riferimento alla categoria del protective trusts che si ha quando l’interesse del beneficiario viene meno all’occorrere di un certo evento. Nel diritto inglese si distingue fra condizione risolutiva e determinable interest. La condizione risolutiva opera sul diritto facendolo venire meno in conseguenza del suo verificarsi; il determinable interest nasce fin da principio con una inerente limitazione . La seconda accezione riguarda gli asset protection trusts ossia ai trust di protezione patrimoniale, che vengono istituiti allo scopo di prevenire l’accesso dei creditori del disponente ai beni che altrimenti formerebbero oggetto della sua garanzia patrimoniale generica .
Nel modello americano, invece, lo spendthrift permette al disponente di attribuire al beneficiario un interest intrasferibile, né volontariamente, né per forza di legge: egli non può disporne ed i suoi creditori non possono appropriarsene. Al contrario di ciò che avviene per i protective trusts inglesi, nessuna condizione risolutiva è quindi imposta alla posizione soggettiva del beneficiario, la quale invece è semplicemente separata nel patrimonio di quest’ultimo e gravata da un vincolo d’indisponibilità. La clausola spendthrift non è opponibile ai creditori del beneficiario quando egli sia stato anche disponente, è inopponibile al singolo creditore del beneficiario-disponente che abbia avviato un’esecuzione individuale ed a certe classi di creditori del beneficiario, indipendentemente dal fatto che egli sia stato o meno disponente .
Nel modello di trust c.d. internazionale , infine, l’autonomia negoziale del disponente incontra limiti ancor più ridotti nell’impiegare l’istituto come strumento per la protezione del patrimonio. Le varie leggi c.d. off shore contengono norme sostanziali dirette a restringere l’ambito d’applicazione dell’azione revocatoria, ed eliminano in sostanza la possibilità di dichiarare il negozio simulato o di riqualificarlo in termini di mandato, abolendo peraltro le limitazioni poste dal diritto inglese e da quello americano all’efficacia degli spendthrift o protective trusts in favore del disponente.
7. Tornando al rimedio revocatorio, comunque, va detto che questo non riguarda il riconoscimento degli effetti del trust nel diritto interno, né tanto meno la validità degli atti di disposizione, ma solo la possibilità di ottenere una dichiarazione di inefficacia dei singoli atti di disposizione del patrimonio che, anche se validi, arrechino pregiudizio alla garanzia patrimoniale .
Da questo punto di vista va ricordata la natura costitutiva della dichiarazione di inefficacia, proprio perché tale dichiarazione non considera l’atto di disposizione in sé, ma gli effetti che lo stesso produce sul patrimonio del debitore.
Oggetto della revocatoria non può essere l’atto istitutivo del trust che non produce effetti dispositivi ma l’atto di trasferimento al fiduciario ovvero l’atto col quale i beni sono posti sotto il controllo dello stesso o ancora l’atto di segregazione nel patrimonio del disponente, nell’interesse del beneficiario o per uno scopo specifico . A questo sistema fa eccezione il trust «autodichiarato» di diritto anglosassone (col quale si dà un’articolazione di funzioni e di patrimoni in assenza totale di alterità soggettiva fra gerito e gestore) che non determina il trasferimento del diritto ed in cui il settlor si autodichiara trustee di detto diritto apponendo sul medesimo il vincolo di destinazione.
D’altra parte, l’istituto del trust si può manifestare in diverse articolazioni con una sorprendente varietà di strutture e funzioni in cui va identificato, ai fini della revocatoria, il soggetto terzo, che non è il fiduciario, ma chi riceve i benefici e subisce correlativamente gli effetti negativi dell’azione. A quest’ultimo si deve fare riferimento per individuare «la consapevolezza o la partecipazione alla dolosa preordinazione» di cui all’art. 2901, comma 1, n. 2, c.c., o la scientia decoctionis richiesta o meno rispettivamente nei due commi dell’art. 67 l. fall.
Dunque ai fini della revocabilità, le singole fattispecie di trust devono essere analizzate caso per caso, valutando la gratuità o l’onerosità dei singoli atti dispositivi in relazione all’intero, e spesso complesso, assetto degli interessi in gioco, quale risulta dal collegamento tra il momento istitutivo e dispositivo e dal coinvolgimento sia del disponente, sia del fiduciario, sia del beneficiario (o dei beneficiarii), che, nella logica del trust, come risulta dall’art. 2, comma 1 della Convenzione dell’Aja, risultano titolari di pretese e di situazioni giuridiche protette. Al fine quindi di una corretta configurazione dell’atto revocabile come gratuito oppure oneroso occorrerà nel trust sempre verificare l’assetto dei rapporti sottostanti tra disponente e beneficiario , a prescindere dalla qualificazione formale dei rapporti tra il settlor ed il fiduciario che esegue il compito di realizzarne le finalità attraverso la gestione.
L’istituzione del trust è insomma di per sé un atto pianificatorio neutro, che infatti nella common law si pone ai margini dell’area del contract, collocandosi nell’ambito del law of property in quanto fonte di una trust property, visto che gli effetti traslativi non si fanno rientare nell’ambito del contract ed il trasferimento della proprietà non costituisce di per sé conseguenza del contratto ma esige uno specifico atto tra le parti .
Mentre ad esempio l’atto di costituzione del fondo patrimoniale secondo l’orientamento consolidato è inquadrabile tra gli atti a titolo gratuito e, come tale, soggetto all’azione revocatoria , tale principio è applicabile al trust, soltanto là dove il disponente non era in grado di adempiere alle proprie obbligazioni assunte prima del trasferimento dei beni in trust o anche a quelle assunte dopo , se l’atto dispositivo era dolosamente preordinato . In tale prospettiva, per valutare l’eventuale consapevolezza o la partecipazione alla dolosa preordinazione da parte del terzo, presupposti richiesti per la revocabilità in via ordinaria degli atti onerosi (art. 2901, comma 1°, n. 2, c.c.), ovvero il requisito soggettivo della revocatoria fallimentare (art. 67 l.fall.), bisogna fare riferimento al beneficiario del trust .
Le stesse considerazioni, in ordine alla valutazione caso per caso della fattispecie concreta, valgono per i c.d. trust solutori e che possono riguardare sia l’adempimento di obbligazioni legali che contrattuali, e per i c.d. trusts con funzioni di garanzia. In particolare questi ultimi possono presentarsi in forme particolarmente variegate sia per struttura che per contenuto e pur svolgendo una funzione analoga alle tradizionali cause di prelazione prevedono un assetto di interessi del tutto diverso, anche rispetto alle c.d. garanzie atipiche . Si è osservato che a causa di tali diversità «molto spesso manca nel trust ogni possibile configurazione del pregiudizio patrimoniale del debitore disponente, mentre il più delle volte non è possibile nemmeno configurare una sua legittimazione passiva, non essendo il prestito mai entrato nel suo patrimonio, poiché è affluito, con i relativi vincoli di segregazione, nel patrimonio del fiduciario» .
Quanto ai trusts utilizzati nell’ambito di un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis l.f. oppure di un piano di risanamento “attestato” ex art. 67, comma 3, lett. d) l.f. , l’esenzione da revocatoria, dovrebbe coprire in linea di principio anche l’atto di disposizione dei beni in favore del trustee.
8. E’ pacifico in ogni caso che la Convenzione non abbia introdotto un trust di diritto interno nè abbia dettato una disciplina nazionale per l’istituto , e quindi si continua a discutere, anche dopo la ratifica italiana , sull’ammissibilità del trust c.d. interno che non presenti cioè elementi importanti di estraneità rispetto all’ordinamento, ed in cui le parti siano cittadini italiani ed i beni da trasferire siano ubicati all’interno del territorio italiano, con la mera peculiarità della legge straniera scelta dal disponente per regolamentare il negozio istitutivo.
In realtà obiettivo della Convenzione è quello di garantire lo sviluppo dell’istituto, mediante la fissazione di norme internazionali di diritto privato, che introducano, negli ordinamenti dei diversi Stati, criteri univoci per il riconoscimento dei trusts di diritto estero e che consentano, per quanto possibile, di uniformare tra loro anche le norme interne di conflitto. La finalità di diffondere l’istituto è stata perseguita prevedendo la libertà di sceglierne la legge regolatrice per cui il concreto utilizzo diviene possibile anche ai cittadini di «non Trust Country» (artt. 6 e 7) e sancendo l’obbligatorietà per tutti gli Stati aderenti di riconoscerlo quando corrisponda al modello convenzionalmente tipizzato (art. 11) .
La Convenzione dell’Aja rimane però una convenzione in tema di conflitti di leggi e, non assumendo il carattere di convenzione di diritto sostanziale uniforme, non produce l’effetto di introdurre nel nostro ordinamento un trust di diritto interno ma di individuare la legge regolatrice di quelle fattispecie che presentano elementi di estraneità. D’altra parte l’art 13 sancisce che «Nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione».
L’interpretazione letterale della norma sembra escludere la legittimità del trust domestico non avendo lo Stato italiano previsto e disciplinato tale figura e mancando elementi obiettivi di internazionalità della fattispecie . Il citato articolo attribuisce ad ogni Stato sottoscrittore, che non preveda il Trust, ma anche ad uno Stato che lo preveda (Trust Country), il potere di rifiutarne il riconoscimento. L’ambito individuato dall’art. 13 è quello del Trust interno di uno Stato che non lo prevede, nel quale i soggetti e l’oggetto, cioè gli elementi importanti, sono localizzati nel territorio dello Stato medesimo. Così, un Trust interno allo Stato italiano sarebbe quello costituito (in base a legge straniera) da un cittadino a favore di un altro cittadino, entrambi residenti, mediante conferimento di beni situati in Italia. Nessuno degli Stati sottoscrittori, compresa l’Italia, è quindi tenuto a riconoscere un Trust di questo tipo .
Comunque non ha alcun senso chiedersi se, per effetto della Convenzione, gli schemi formali del trust, come istituto di common law, «siano penetrati nel nostro ordinamento, acquistando cittadinanza italiana, per via del riconoscimento accordato ai negozi, posti in essere nell’ambito di ordinamenti stranieri mediante il ricorso a tali schemi» inimitabili. Ha molto più senso ammettere per le specifiche esigenze della fattispecie l’uso degli istituti e delle soluzioni, anche di secondo grado (come le società), dotati di cittadinanza. D’altra parte «ad ogni acquisto di cittadinanza corrisponde
.un nuovo status, che è quello definito dalle leggi del paese di mutata appartenenza»; né si può essere cittadini di un nuovo paese in base alle regole che, in quello di origine, regolano la cittadinanza. Osta ad una siffatta aporia, «il principio di relatività delle valutazioni e delle formalizzazioni giuridiche, che, sebbene oggi poco in auge, per via della crescente globalizzazione, qualche significato continua pur sempre a rivestire» .
9. A questo punto vediamo perché l’istituto è inimitabile nel nostro ordinamento e quindi inammissibile anche quando risponda a quegli interessi meritevoli di tutela cui si fa spesso riferimento nei provvedimenti giudiziali che ne ammettono l’uso nell’ambito di procedure concorsuali.
Il trust in funzione protettiva realizza, mediante un rapporto di natura fiduciaria, un trasferimento o una destinazione di proprietà di beni, a cui è connesso l’obbligo del trustee (che ne diventa titolare legale a tutti gli effetti anche se rimangono segregati nel suo patrimonio) di eseguire le disposizioni del settlor a vantaggio del beneficiary, talora sotto la supervisione di uno o più protectors, ed a cui è collegato il diritto del beneficiario di esigere tale prestazione.
Orbene, in primo luogo il nostro diritto di proprietà è concepito nel senso che, in capo al medesimo soggetto titolare, siano ricomprese tutte le facoltà di godimento, di gestione e di disposizione dei beni e quindi il trust, generando uno sdoppiamento del diritto (dual ownership) , o meglio una dissociazione tra proprietà e controllo , andrebbe considerato una sorta di diritto reale atipico . Essendo i diritti reali preordinati e riconosciuti dal codice civile (numerus clausus), non è ammessa la libera formazione di nuove fattispecie convenzionali (come invece consentito per i rapporti obbligatori dall’art. 1322 c.c.). Nel nostro ordinamento la proprietà si trasferisce tra vivi soltanto mediante atti giuridici determinati, compravendita e donazione, dei quali non vi è traccia nel trust anglosassone, ove mancano l’elemento del prezzo e l’intento di liberalità.
In secondo luogo, la costituzione di patrimoni separati violerebbe, in assenza di una norma espressa, il principio della responsabilità patrimoniale generale del debitore di cui all’art. 2740 c.c. . Tale impostazione nasce, come noto, dalla concezione di origine francese del patrimonio come emanazione della personalità, con i relativi corollari dell’unicità e della indivisibilità, da un lato, e dell’impossibilità di individuare l’appartenenza di più patrimoni in capo al medesimo individuo dall’altro (oltre che, ovviamente, nelle teorie patrimoniali dell’obbligazione di matrice tedesca) . Tale sistema presidia dall’esterno il buon funzionamento del rapporto obbligatorio e ne assicura comunque il risultato utile anche contro l’inerzia o la cattiva volontà del debitore, esponendo tutti i beni di quest’ultimo all’azione esecutiva. Perciò nel nostro ordinamento l’effetto segregativo discende solo da specifiche disposizioni di legge che hanno, in via eccezionale e di volta in volta, previsto una separazione fra godimento, gestione e disponibilità dei beni.
La separazione dei beni oggetto di trust rispetto al patrimonio del trustee deriva da un atto di autonomia privata, mentre i possibili analoghi effetti rinvenibili nel nostro ordinamento non sono ricollegabili semplicemente ad un atto di volontà proveniente dai privati . Essi sono espressamente previsti dalle leggi che li hanno introdotti e disciplinati e possono farsi rientrare in quelle «limitazioni della responsabilità» previste dall’art. 2740, comma 2, c.c. ed ammesse solo nei «casi stabiliti dalla legge».
Il divieto, espresso dall’art. 2740 c.c., di limitare convenzionalmente la responsabilità patrimoniale del creditore, e la conseguente riserva di competenza legislativa in materia, permane e rende i trusts della convenzione, ossia «costituiti volontariamente», astrattamente ad esso contrari. . Non è possibile parcellizzare, a mero arbitrio del disponente, alcuni elementi del patrimonio, sia pur per dare loro una specifica destinazione, sottraendoli alla responsabilità universale in contrasto con il principio dell’unicità del patrimonio, con vantaggio di taluni creditori e danno per gli altri .
10. Secondo una certa impostazione tuttavia l’applicabilità della disciplina specifica del trust deriverebbe dalla presenza nell’ambito dell’ordinamento italiano di istituti in cui si attua la disciplina della segregazione . Peraltro gli istituti «assimilabili» sono diretti a realizzare soltanto lo scopo assegnato a ciascuno dalla legge, mentre gli scopi perseguibili con il trust sono illimitati per numero e varietà.
Ad esempio la fondazione è destinata ad una finalità benefica come il charitable Trust, ma necessita del riconoscimento per venire ad esistenza come persona giuridica sulla base di controlli amministrativi preventivi (artt. 17 e 25 c.c.) e non comporta il trasferimento dei beni agli amministratori che non diventano proprietari dei beni. Il Trustee invece diviene proprietario e, salvo che sia stato previsto diversamente, i suoi eredi gli succedono nella specifica funzione. Nel Trust, ancora, i beneficiari sono titolari di un diritto che ha i caratteri della realità, mentre nella fondazione i beneficiari hanno un diritto personale alle prestazioni erogate dall’ente, con esclusione di qualsiasi pretesa sul suo patrimonio .
Il fondo patrimoniale costituito ad opera di uno o di entrambi i coniugi per atto pubblico, oppure da un terzo anche per testamento, per sopperire ai bisogni della famiglia (art. 167 c.c.), a differenza del trust, non realizza una separazione perfetta dei beni conferiti . Basti pensare all’art. 169 c.c., che consente di alienare i beni sottraendoli al vincolo di destinazione, e all’art. 170 c.c., per il quale non è possibile agire esecutivamente nella sola ipotesi di «debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei ai bisogni della famiglia») . La previsione, poi, dei casi di cessazione del fondo (art. 171 c.c.) e la eventualità che con una pronuncia del giudice si decida sulla destinazione dei beni accentua le differenze col trust, affidato alla autonomia privata senza ingerenze ad opera della legge o del giudice. La proprietà dei beni costituenti il fondo patrimoniale spetta ad entrambi i coniugi «salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di costituzione» (art. 168 c.c.); inciso che consente al terzo costituente di riservarsi la proprietà dei beni conferiti, nel quale caso spetterà ai coniugi uno speciale diritto di godimento. Il fondo è utilizzabile solo nel contesto della famiglia e sottoposto a vincoli normativi quanto alla natura dei beni conferibili, alla libertà di alienarli e alla durata (laddove, nel Trust, può essere conferito qualsiasi bene; il Trustee può venderli per esigenze di gestione; il disponente è libero di fissare le modalità di cessazione del rapporto) .
Nel contratto di mandato senza rappresentanza il mandatario deve compiere un atto ulteriore perché si produca in capo al mandante un effetto traslativo dei diritti acquistati in nome proprio dallo stesso mandatario. Nel trust, invece, l’attività del trustee è riferibile, senza che vi sia la necessità di compiere altre attività, al beneficiary in quanto anch’esso proprietario. Il mandante può rivendicare la cosa acquistata per suo conto dal mandatario in nome proprio, solo se si tratta di cosa mobile (art. 1706, comma 1, c.c.). Invece, se l’acquisto ha per oggetto un immobile o un mobile registrato, poiché il mandatario ha l’obbligo di ritrasferirlo al mandante (art. 1706, comma 2, c.c.), deve logicamente dedursene che è esso mandatario a diventarne proprietario in seguito all’acquisto da lui compiuto in nome proprio. .
Nel trust, ancora, a differenza di quanto accade nel contratto a favore di terzo , il settlor non si limita a far acquistare al trustee determinati obblighi nei confronti del beneficiary, ma trasferisce la legal estate al trustee e, soprattutto, l’equitable estate al beneficiary.
Rispetto poi allo schema dei patrimoni destinati della S.p.a., nel trust la segregazione dei beni avviene non nel patrimonio dal quale vengono distaccati, ma in quello del soggetto terzo cui sono trasferiti . Ed i beni trasferiti, pur essendo nella disponibilità del fiduciario, non sono suoi. Il diritto trasferito, non limitato nel suo contenuto, lo è invece nel suo esercizio, essendo finalizzato alla realizzazione degli interessi dei beneficiari. Nei patrimoni destinati, a differenza di ogni altra fattispecie derogatoria del sistema di cui all’art. 2740, c.c., si lascia alla società la discrezionalità nello stabilire se prevedere o meno la limitazione di responsabilità, ammettendo anche una responsabilità sussidiaria su base convenzionale del patrimonio generale per le obbligazioni delle singole cellule. E la segregazione funziona tuttavia solo se vengono rispettati, in fase genetica ed esecutiva, gli oneri informativi previsti dalla legge e la responsabilità non derivi da fatti illeciti od abuso della separazione (art. 2447 ter, lettera c, c.c.). La scelta del legislatore di non attribuire alcuna autonomia od alterità soggettiva alla funzionalizzazione ad un affare rende assimilabile la destinazione alla costituzione di una causa di prelazione convenzionale, una sorta di garanzia reale collettiva.
11. Secondo un certo orientamento la realtà giuridica italiana confrontabile con il Trust sarebbe il negozio fiduciario, pur non contemplato nel codice civile, , in virtù della comune causa fiduciae , come causa traslativa.
Tale causa, in grado di determinare l’effetto attributivo del trust, sarebbe individuabile nella stessa costituzione dell’atto funzionale allo scopo perseguito . In realtà completamente diversa è la tutela accordata alle posizioni del fiduciante e del Beneficiary, visto che il primo non è più proprietario e corre il rischio di non riottenere i beni dal fiduciario mentre il secondo è proprietario dei beni come dimostra il potere che ha di rivendicare i beni dai terzi (c.d. tracing) . Peraltro anche se provato, il pactum fiduciae non è opponibile a chi abbia acquistato in buona fede dal fiduciario, e nemmeno ai creditori di lui, nei confronti del quale, pertanto, siccome gravato da un mero obbligo (di restituzione o di destinazione) il denunciante non ha che l’azione per risarcimento del danno.
Il progetto di legge comunitaria per il 2010, comunque, prevede, tra l’altro, una delega al Governo per l’emanazione di uno o più decreti legislativi che disciplinino un istituto nuovo, che dovrebbe chiamarsi contratto di fiducia, inteso come strumento di utilità generale che possa completare l’assetto di strumenti alternativi al trust . La figura viene definita come il “contratto con cui il fiduciante trasferisce diritti, beni o somme di denaro specificamente individuati in forma di patrimonio separato ad un fiduciario che li amministra, secondo uno scopo determinato, anche nell’interesse di uno o più beneficiari determinati o determinabili” (art. 1, comma 6, d.d.l.).
Secondo la Relazione governativa, l’istituto riprende il Draft Common Frame of Reference del 2009 (elaborato su richiesta della Commissione europea, che individua in modo analitico la disciplina applicabile alle ipotesi di titolarità fiduciaria) e richiama il precedente francese del contratto di fiducie, introdotto con la novella al codice civile del 2007, emendata con provvedimenti entrati in vigore nel 2008 e nel 2009.
Il disegno di legge prevede che il contratto abbia di regola carattere consensuale, salva l’ipotesi di trasferimento di somme di danaro in cui il perfezionamento coincide con la data di versamento dell’intero importo in un deposito nella disponibilità del fiduciario. Inoltre è prevista obbligatoriamente, a pena di nullità, la forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata.
Il negozio dovrebbe produrre la separazione patrimoniale , la surrogazione del fiduciario e l’opponibilità del contratto ai terzi ed ai creditori in virtù di idonee formalità pubblicitarie riguardanti i diritti e i beni che costituiscono oggetto della fiducia.
Tali effetti potranno derivare anche da atti diversi dal contratto, ovvero dalla
sentenza del giudice, dal testamento, fatto salvo il disposto dell’art. 627 c.c. in relazione alla disposizione fiduciaria. e da atto dispositivo del titolare dei beni. Infatti, la legge Comunitaria contempla l’applicazione della disciplina della fiducia anche nel caso in cui “il titolare di beni se ne dichiari fiduciario per il perseguimento di uno scopo nell’interesse di terzi beneficiari”. Viene così concepita la possibilità di realizzare una finalità analoga a quella del trust autodichiarato, in cui la figura del fiduciario coincide con il fiduciante, ma realizza comunque l’efficacia segregativa.
Inoltre, una specifica disciplina dovrà essere dettata per il contratto di fiducia con scopo di garanzia e quello con scopo assistenziale. Per quanto concerne il primo, lo schema di legge fissa una serie di vincoli al legislatore delegato, il quale dovrà, tra l’altro, prevedere che il fiduciante agisca per scopi inerenti la propria attività personale o imprenditoriale e che risulti dal contratto a pena di nullità l’importo garantito. Per quanto riguarda la fiducia “assistenziale”, il valore dei beni conferiti non potrà eccedere i bisogni del beneficiario e dovranno essere rispettati i diritti dei legittimari, ad eccezione dell’ipotesi in cui il beneficiario sia una persona disabile.
Il legislatore delegato dovrà, poi, disciplinare i diritti, gli obblighi ed i poteri del fiduciante e del fiduciario o del terzo che sia nominato per far valere gli obblighi del fiduciario; la cessazione del fiduciario dall’incarico, prevedendo la possibile sostituzione di quest’ultimo anche da parte del giudice e l’ingresso del nuovo fiduciario nella titolarità dei beni oggetto del rapporto; la durata del contratto , la revoca e la rinuncia del fiduciario, nonché la possibilità di nomina, da parte del giudice, in caso di urgenza, di un fiduciario provvisorio; le cause di scioglimento del rapporto tra le quali dovrà essere compresa la deliberazione assunta all’unanimità da tutti i beneficiari pienamente capaci di agire.
Il disegno di legge prevede il coordinamento con le discipline di tutela dei creditori, del contratto a favore di terzo, della cessione di crediti futuri, del fallimento, degli strumenti finanziari ed infine fa espressamente e integralmente salve le norme in materia di antimafia, conflitto di interessi, e ogni altra disposizione dettata a tutela dell’ordine pubblico.
E’ prevedibile che ancora una volta qualcuno dirà che è stato introdotto il trust interno ed invece si tratta dell’esatto contrario, ossia di un istituto diretto a trovare soluzioni autoctone alternative, come dimostra innanzitutto la scelta del legislatore italiano di delineare l’istituto come contratto.
12. Altro percorso tentato dalla dottrina per ricondurre il trust nell’alveo dell’ordinamento italiano, è quello che muove dal rilievo secondo cui questo fenomeno consisterebbe in dichiarazioni di volontà dirette ad uno scopo determinato. Il trust potrebbe, anche per questa via, essere considerato un negozio giuridico atipico, purché diretto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento, nel rispetto dei limiti imposti dalla legge, come quelli che ad esempio le procedure concorsuali per loro natura sottendono.
Questa impostazione si scon
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