ISSN 2385-1376
Testo massima
La Corte di Cassazione, con sentenza n.18701 del 31/10/2012, si è pronunciata in materia di sanzioni disciplinari a carico degli avvocati, precisando che il professionista che sottragga dalla cancelleria del tribunale, alteri o tenti di sopprimere un atto giudiziario sarà soggetto alla radiazione dall’albo.
La Corte, ha cosi confermato la decisione adottata dal Consiglio dell’Ordine prima e dal Consiglio Nazionale Forense poi, precisando che il Consiglio Nazionale Forense aveva correttamente valutato il comportamento dell’incolpata, giudicandone l’offensività in relazione ai “principi supremi di giustizia e lealtà processuale”, alla “dignità, prestigio e decoro” della stessa professionista, e della collega coinvolta nella produzione in giudizio della sentenza falsa, alla lealtà dovuta nei confronti degli altri professionisti (collega codifensore e difensore di controparte), e al “decoro, dignità e correttezza” dell’intera classe professionale.
Quanto al censurato errore di diritto commesso dal Consiglio Nazionale Forense che relativamente al rapporto di gravità sussistente tra radiazione e cancellazione aveva affermato che la radiazione produrrebbe, di fatto, conseguenze meno gravi della cancellazione, perchè non impedisce la reinscrizione nell’albo, gli ermellini, richiamando la giurisprudenza di questa Corte, hanno precisato che sebbene la decisione è effettivamente incorsa in un errore di diritto, affermando che la radiazione produrrebbe, di fatto, conseguenze meno gravi della cancellazione (perchè non impedisce la reinscrizione nell’albo), tuttavia detto errore non ha avuto alcuna incidenza sulla decisione.
In conclusione, il giudice disciplinare ha inteso applicare la sanzione più grave, e nella stessa affermazione censurata mostra di essere ben consapevole del fatto che la radiazione “in linea di diritto rappresenta la più grave delle sanzioni”.
APPROFONDIMENTO
Com’è noto e notorio, gli avvocati devono adempiere al loro ministero con dignità e con decoro, in ossequio all’altezza della funzione che sono chiamati ad esercitare nell’amministrazione della giustizia.
Orbene, i professionisti che si rendano colpevoli di abusi o mancanze nell’esercizio della loro professione o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale sono sottoposti a procedimento disciplinare
Le norme che regolano i procedimenti disciplinari sono stabilite dal regio decreto legge 27 novembre 1933 n. 1578, che detta le disposizioni procedimentali alle quali deve attenersi il Consiglio nell’esercizio di tale funzione.
Con riferimento alle sanzioni disciplinari irrogabili agli avvocati le stesse si suddividono in:
1) avvertimento è la sanzione più lieve, consistente in un blando richiamo ai propri doveri, affinché il professionista si astenga in futuro da certi comportamenti comunicato all’interessato con lettera del presidente del Consiglio dell’Ordine competente;
2) censura – è una dichiarazione formale. È la prima delle sanzioni realmente afflittive, consistente nella dichiarazione ufficiale di biasimo irrogata con decisione del Consiglio, consistente in una severa ammonizione ben articolata che lasci traccia certa nella coscienza dell’incolpato ed, inoltre, agli atti del Consiglio dell’Ordine quale precedente di riferimento ai fini della recidiva;
3) sospensione dall’albo – impedisce l’esercizio della professione per un tempo minimo di due mesi e massimo di un anno, incidendo profondamente sulla vita professionale dell’Avvocato, privandolo del cd. ius postulandi ed imponendogli, conseguentemente, l’interruzione dei procedimenti in corso;
4) cancellazione – inibisce al professionista l’esercizio della professione per un tempo illimitato. Comportano la cancellazione di diritto dall’albo professionale l’interdizione temporanea dai pubblici uffici o dall’esercizio della professione, il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e l’assegnazione a una colonia agricola o casa di lavoro. È una sanzione simile alla radiazione, dalla quale si distingue per “la più attenuata afflittività morale” ed infine,
5) la radiazione che costituisce il massimo della pena consistente nella cancellazione con ignominia, irrogabile in caso di condanna penale per delitto e comunque in caso di gravissime violazioni del codice deontologico.
Detta sanzione ha il medesimo effetto della cancellazione, sebbene l’interessato può chiedere una nuova iscrizione solo dopo che siano trascorsi cinque anni o la riabilitazione se deriva da una sentenza penale di condanna.
Comportano, inoltre, la radiazione di diritto anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici o dall’esercizio della professione di avvocato e la condanna per i reati di cui agli articoli 372, 373, 374, 377, 380, 381 c.p.
In estrema sintesi si può, ragionevolmente, affermare che vi sono sanzioni formali (avvertimento e censura), che si traducono in una deplorazione del comportamento posto in essere dal professionista, senza nessuna incidenza sulla sua attività professionale, ed, invece, sanzioni sostanziali (sospensione, cancellazione e radiazione) , che impediscono in modo temporaneo oppure definitivo l’esercizio della professione di avvocato.
Con riferimento alla competenza a procedere disciplinarmente, la stessa spetta tanto al Consiglio dell’Ordine che ha la custodia dell’albo in cui il professionista è iscritto, quanto al Consiglio nella giurisdizione del quale è avvenuto il fatto per cui si procede: ed è determinata, di volta in volta.
Per quanto concerne le modalità attraverso le quali si sviluppa il procedimento disciplinare, lo stesso può aprirsi a seguito di una qualsiasi segnalazione dei fatti dai quali scaturisce il presunto illecito disciplinare, innanzi al Consiglio dell’Ordine forense competente.
Il procedimento disciplinare può attivarsi anche d’ufficio, su proposta di un qualsiasi membro del consiglio forense, ovvero su segnalazione di chiunque vi abbia interesse.
L’atto attraverso il quale viene introdotto il procedimento disciplinare, nelle ipotesi in cui esso non debba attivarsi d’ufficio, prende il nome di esposto disciplinare.
Con l’esposto si apre la FASE PRELIMINARE del procedimento disciplinare, nella quale si verifica l’assunzione di ogni elemento necessario alla valutazione dell’addebito.
Il Consiglio dell’Ordine forense deve comunicare al professionista inquisito l’apertura del procedimento disciplinare a suo carico e contestargli tutti gli addebiti.
La comunicazione deve essere sottoscritta dal Presidente dell’Ordine forense, od in sua mancanza od impossibilità, dal membro del consiglio più anziano.
L’avvio del procedimento disciplinare deve essere comunicata anche al Pubblico Ministero.
La mancanza di comunicazione dell’apertura del procedimento disciplinare, nella fase preliminare non determina alcuna sanzione sotto il profilo processuale e pertanto non determina alcun vizio invalidante del procedimento.
Nella fase preliminare, il Consiglio dell’ordine forense istruisce il procedimento assumendo od integrando la documentazione e le fonti di prova necessarie.
Se viene disposto il rinvio a giudizio, si apre la successiva FASE DIBATTIMENTALE E DECISIONALE.
Preliminarmente, il Presidente del Consiglio Forense notifica all’incolpato la data di fissazione del dibattimento, concedendogli un termine di comparizione non inferiore a 10 giorni, che può essere prorogato, su richiesta dell’interessato, per giustificati motivi.
Il provvedimento deve necessariamente essere notificato anche al Pubblico Ministero.
Il professionista può difendersi personalmente od essere assistito da un legale. Egli può inoltre presentare testimoni e depositare documenti.
Per quanto concerne la produzione di documenti, deve ritenersi ammissibile la produzione della documentazione riservata scambiata tra professionisti, soprattutto laddove la violazione disciplinare riguardi i rapporti tra i colleghi.
Il professionista incolpato ha sempre diritto ad avere l’ultima parola, prima della chiusura del procedimento.
Chiusa la discussione, il consiglio delibera a maggioranza, in camera di consiglio e successivamente dà lettura della decisione.
Sia della fase dibattimentale che del dispositivo deve essere redatto processo verbale.
La decisione disciplinare, la quale ha sostanzialmente natura di atto amministrativo, è redatto dal consigliere relatore e deve contenere l’esposizione dei fatti, i motivi della decisione, il dispositivo, la data e la sottoscrizione del Presidente del consiglio forense e del segretario.
La decisione disciplinare diviene pubblica attraverso il deposito nella segreteria del consiglio forense che ha deliberato e con la notificazione all’incolpato ed al Pubblico Ministero presso il Tribunale in cui ha sede il Consiglio dell’Ordine forense, la quale deve avvenire entro 15 giorni dal deposito del dispositivo in segreteria.
Avverso le decisioni adottate dal consiglio dell’Ordine, il Pubblico Ministero presso la Corte d’appello e l’interessato possono, entro venti giorni dalla notificazione della decisione disciplinare, proporre RICORSO AL CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE.
Il ricorso è presentato negli uffici del Consiglio che ha emesso la pronuncia, e deve contenere l’indicazione specifica dei motivi sui quali si fonda, ed essere corredato della copia della pronuncia stessa, notificata al ricorrente.
Il ricorso ha effetto sospensivo.
Per effetto del ricorso incidentale il Consiglio nazionale può, limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti, infliggere al professionista ricorrente una pena disciplinare più grave, per specie e durata, di quella inflitta dal Consiglio dell’ordine.
Al termine del procedimento, il C.N.F. formula la decisione in nome del Popolo Italiano.
Le decisioni sono redatte dal relatore e devono contenere l’indicazione dell’oggetto del ricorso, le deduzioni del ricorrente, le conclusioni del Pubblico Ministero, quando sia intervenuto, i motivi sui quali si fondano, il dispositivo, l’indicazione del giorno, del mese e dell’anno in cui sono pronunziate, la sottoscrizione del Presidente e del segretario.
Esse sono pubblicate mediante deposito dell’originale nella segreteria del Consiglio.
Le decisioni del Consiglio Nazionale Forense costituiscono l’estrinsecazione della sua funzione giurisdizionale, quale giudice speciale, mentre le funzioni esercitate in materia disciplinare dai Consigli Forensi locali, e il relativo procedimento, hanno natura amministrativa e non giurisdizionale.
Le decisioni adottate dal Consiglio Nazionale Forense sono notificate, entro trenta giorni, all’interessato ed al Pubblico Ministero presso la Corte di appello ed il Tribunale della circoscrizione alla quale l’interessato appartiene.
Gli interessati ed il Pubblico Ministero possono proporre ricorso avverso le decisioni del Consiglio Nazionale Forense alle SEZIONI UNITE DELLA CORTE DI CASSAZIONE, entro trenta giorni dalla notificazione, per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge.
In tal caso, l ricorso non ha effetto sospensivo e legittimati a proporre il ricorso sono:
a) l’incolpato;
b) il Consiglio dell’Ordine;
c) il procuratore generale presso la Corte di Cassazione
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 9634/2012 proposto da:
B.C. (avvocato);
RICORRENTE
contro
PUBBLICO MINISTERO PRESSO LA PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI BOLOGNA, PUBBLICO MINISTERO PRESSO LA PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI BOLOGNA, PUBBLICO MINISTERO PRESSO LA PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI BOLOGNA;
INTIMATI
avverso la decisione n. 44/2012 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE, depositata il 02/03/2012;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con delibera 21 luglio 2011, il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Bologna dispose la radiazione dell’avv. B.C. per aver sottratto dalla cancelleria, alterato e tentato di sopprimere un atto giudiziario (verbale di udienza civile), e di aver artefatto una sentenza della corte bolognese.
2. Il Consiglio Nazionale Forense, davanti al quale la B. impugnò la predetta delibera, ha respinto il ricorso, rilevando che i fatti contestati – ammessi e in ogni caso accertati dalla sentenza penale di applicazione della pena su richiesta – erano pacifici, e, quanto al trattamento sanzionatorio, ponendo l’accento sull’assoluta gravità degli stessi, stante l’infondatezza di tutte le considerazioni attenuatrici della responsabilità, svolte dalla ricorrente con riferimento alla sua situazione personale.
3. Per la cassazione di questa decisione, notificata il 27 marzo 2012, ricorre la dottoressa B. con atto notificato il 6 aprile 2012, per tre motivi.
MOTIVI DELLA DECISIONE
4. Con il PRIMO motivo di ricorso, la dottoressa B. denuncia la violazione dell’art.444 cpp., e art.445 cpp, comma 1 bis, per non aver ritenuto vincolante la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, anche sul piano della valutazione dei requisiti soggettivi ai fini dei benefici e dei trattamenti (attenuanti generiche, regime della continuazione, sospensione condizionale nella previsione che non vi sarebbe stata recidiva).
4.1. Il motivo è infondato.
A norma dell’art.445 cpp, comma 1 bis, e art.653 cpp, come modificati dalla L. 27 marzo 2001, n.97, la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti (patteggiamento) ha efficacia di giudicato – nei giudizi disciplinari che si svolgono davanti alle pubbliche autorità, e quindi anche in quelli che riguardano gli avvocati – quanto all’accertamento del fatto, alla sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato l’ha commesso (Cass. Sez. un. 9 aprile 2008 n. 9166). La sentenza medesima non ha invece alcuna efficacia in ordine alla valutazione dei fatti e della personalità dell’attore dell’illecito sotto il profilo disciplinare, essendo tale valutazione riservata al giudice disciplinare.
Coerentemente con il principio appena enunciato, l’art.5 del Codice deontologico forense (approvato dal Consiglio Nazionale Forense nella seduta del 17 aprile 1997 e successivamente più volte modificato), nel prevedere la sottoposizione a procedimento disciplinare dell’avvocato cui sia imputabile un comportamento non colposo che abbia violato la legge penale, fa salva ogni autonoma valutazione sul fatto commesso.
Nella fattispecie, il Consiglio nazionale forense ha correttamente valutato in piena autonomia il comportamento dell’incolpata, giudicandone l’offensività in relazione ai “principi supremi di giustizia e lealtà processuale”, alla “dignità, prestigio e decoro” della stessa professionista, e della collega coinvolta nella produzione in giudizio della sentenza falsa, alla lealtà dovuta nei confronti degli altri professionisti (collega codifensore e difensore di controparte), e al “decoro, dignità e correttezza” dell’intera classe professionale. Si tratta di valutazioni attinenti a valori diversi dai beni protetti dalle norme applicate ne giudizio penale, e che non possono pertanto essere censurate con il richiamo a quelle che, sotto profili e a effetti diversi, sono ricavabili dalle statuizioni della sentenza penale.
5. Con il SECONDO motivo si lamenta l’omessa considerazione delle deduzioni fatte in ordine alla modesta offensività della condotta.
5.1. Il motivo, da ricondurre alla censura per vizio di motivazione, è in larga parte assorbito dalle considerazioni già fatte a proposito del motivo precedente. Sotto il profilo della motivazione è sufficiente osservare che la decisione impugnata contiene una puntuale illustrazione delle ragioni poste a fondamento della ritenuta gravità del comportamento dell’incolpata, e soddisfa pertanto il precetto contenuto nell’art.111 Cost..
Il vizio di motivazione deducibile in via d’impugnazione delle decisioni del Consiglio Nazionale Forense, perché sia censurabile a norma della norma appena citata, deve tradursi in omissioni, lacune o contraddizioni incidenti su punti decisivi, dedotti dalle parti o rilevabili d’ufficio (Cass. Sez. un. 4 febbraio 2009 n.2637), e non può consistere nella contrapposizione agli argomenti valorizzati da giudice disciplinare di elementi diversi, che giustificherebbero un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché alla Corte di Cassazione non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento (Cass. Sez. un. 11 giugno 1998 n. 5802).
6. Con il TERZO motivo si denuncia l’errore di diritto commesso equivocando sul rapporto di gravità tra radiazione e cancellazione.
Si censura l’affermazione del giudice disciplinare, che la radiazione assume nei fatti il connotato di sanzione meno grave della cancellazione dall’albo, dal momento che consentirebbe al professionista una reinscrizione all’albo professionale; e si richiama la giurisprudenza di questa corte, per la quale la reinscrizione nell’albo, nel caso della cancellazione, è possibile anche prima del decorso del termine di cinque anni richiesto nel caso della radiazione, che è sanzione più grave. Se ne deduce che sarebbe ingiustificata l’irrogazione della sanzione della radiazione a carico dell’avv. B. sul presupposto di una sua minore gravità rispetto alla cancellazione.
6.1. Il motivo, erroneamente rubricato anche come “violazione e falsa applicazione” della L. n.17 febbraio 1971, n.91 (ma il giudice disciplinare non ha fatto applicazione di quella legge, nè in particolare doveva decidere sul termine per la reinscrizione dell’avvocato all’albo), è apprezzabile solo sotto il profilo del vizio di motivazione. Esso è infondato.
E’ vero, infatti, che la decisione è incorsa in un errore di diritto, affermando che la radiazione produrrebbe, di fatto, conseguenze meno gravi della cancellazione, perchè non impedisce la reinscrizione nell’albo. Ma l’errore non ha avuto alcuna incidenza sulla decisione. Il giudice disciplinare, infatti, ha inteso applicare la sanzione più grave, e nella stessa affermazione censurata mostra di essere ben consapevole del fatto che la radiazione “in linea di diritto rappresenta la più grave delle sanzioni”.
Di tale decisione il testo del provvedimento offre una diffusa motivazione.
Valutando tutti i fatti oggetto d’incolpazione, il Consiglio nazionale li giudica, infatti, altamente indicativi della protervia con la quale l’incolpata aveva perseguito le sue finalità, e dimostrativi della fermezza e persistenza della sua “volontà delinquenziale”; osserva che le condotte contestate avevano avuto per oggetto la violazione dei “principi supremi di giustizia e lealtà processuale”, e ne deduce che esse devono pertanto essere considerate “massimamente gravi”. L’applicazione della più grave delle sanzioni, in base a queste premesse, era dunque certamente “adeguata”, e sulla volontà del giudice disciplinare di confermare l’applicabilità della radiazione quale sanzione più grave, come sulle ragioni di tale convincimento non possono esservì dubbi.
L’affermazione censurata non costituiva la ragione della scelta della sanzione, dell’irrogazione, e laddove ricorda che la radiazione non esclude la reinscrizione nell’albo non è neppure sbagliata, l’errore di diritto commesso essendo costituito piuttosto all’assunto che la cancellazione – pur riconosciuta sanzione meno grave “in linea di diritto” – non consentirebbe la reinscrizione nell’albo, laddove essa la consente, e non esige neppure il decorso di un termine minimo (che è tuttavia apprezzabile autonomamente sotto il profilo della condotta specchiatissima e illibata: Cass. Sez. un. 12 maggio 2008 n. 11653). L’errore di diritto deve dunque essere corretto da questa corte, in applicazione dell’art. 384 u.c., ma non giustificherebbe la cassazione, chiara e ben motivata essendo la decisione del giudice disciplinare di irrogare la sanzione più grave, ed essendo la decisione medesima in sè immune da censure di legittimità.
7. In conclusione il ricorso deve essere rigettato.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
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Numero Protocolo Interno : 70/2012