La nullità degli ordini di negoziazione non può riverberarsi sulla validità del contratto-quadro.
In tema di intermediazione finanziaria, ove sia stata dedotta dall’investitore la nullità dei soli ordini di investimento deve escludersi che il giudice, anche in sede di appello, possa rilevare d’ufficio la nullità del contratto quadro per difetto del requisito della forma scritta.
Non sussiste incapacità a testimoniare (ex art. 246 c.p.c.) per i dipendenti di una banca, poiché la valutazione sull’attendibilità di un testimone ha ad oggetto il contenuto della dichiarazione resa e non può essere aprioristica e per categorie di soggetti, al fine di escluderne ex ante la capacità a testimoniare.
La negoziazione in contropartita diretta costituisce uno dei servizi di investimento al cui esercizio l’intermediario è autorizzato, al pari della negoziazione conto terzi, essendo una delle modalità con le quali l’intermediario può dar corso ad un ordine di acquisto o di vendita di strumenti finanziari impartito dal cliente. Ne deriva che l’esecuzione dell’ordine in conto proprio non comporta, di per sé sola, l’annullabilità dell’atto, ai sensi degli artt. 1394 o 1395 c.c.
Questi i principi affermati dalla Corte di Cassazione, sez. prima, Pres. Bernabei – Rel. Didone, con sentenza n. 11876 del 9 giugno 2016.
Nel caso in esame, la Corte di appello di Bologna aveva confermato la decisione del tribunale con la quale erano state rigettate le domande di nullità, annullamento e risarcitorie proposte dalle investitrici in relazione agli acquisti effettuati dalla Banca in obbligazioni “Parmalat”, obbligazioni che erano state coinvolte nel dicembre 2003 nel default dell’intero “Gruppo Parmalat”.
La corte di merito, individuato l’oggetto delle domande nei singoli contratti di negoziazione e non nei contratti-quadro, rilevata la mancanza di specificità di gran parte delle censure (nullità per difetto di forma dei contratti-quadro; inadeguatezza degli investimenti e mancata consegna del prospetto informativo), disattendeva il gravame.
Contro la sentenza di appello proponeva ricorso per cassazione l’investitrice, in proprio e quale erede dell’altra, lamentando, innanzitutto, che la Corte di merito aveva erroneamente omesso di esaminare la domanda di nullità per difetto di forma ai sensi dell’art. 23 TUF degli atti di acquisto di titoli Parmalat effettuati dalla defunta investitrice. Secondo la ricorrente “basta dedurre l’invalidità per difetto di forma degli ordini, perché si debba valutare se è stato redatto per iscritto il contratto generale”.
La Suprema Corte riteneva il motivo infondato, perché la nullità degli ordini di negoziazione non può riverberarsi sulla validità del contratto-quadro e le attrici avevano dedotto soltanto la nullità dei “singoli contratti”, lamentando la violazione delle norme di diligenza professionale in relazione all’ “acquisto dei titoli Parmalat”.
La questione, peraltro, era stata già decisa dalla Corte nel senso che in tema di intermediazione finanziaria, ove sia stata dedotta dall’investitore la nullità dei soli ordini di investimento, deve escludersi che il giudice, anche in sede di appello, possa rilevare d’ufficio la nullità del contratto quadro per difetto del requisito della forma scritta. Invero, da un lato, il rilievo officioso della nullità riguarda solo il contratto posto a fondamento della domanda e, quindi, i singoli contratti di investimento, dotati di una propria autonoma individualità rispetto al contratto quadro, sebbene con esso collegati; dall’altro, il principio del rilievo officioso della nullità va coordinato, nel giudizio di gravame, con quello del divieto di domande nuove, cosicché l’istanza, ivi formulata per la prima volta, di declaratoria della nullità non può essere esaminata, potendo solo convertirsi nella corrispondente eccezione: con la conseguenza che, nella specie, il giudice di appello non può dichiarare d’ufficio la nullità del contratto quadro, traducendosi tale pronuncia nell’inammissibile accoglimento di una domanda nuova (Sez. 1, Sentenza n. 5249 del 16/03/2016).
Denunciava, ancora, violazione e falsa applicazione degli artt. 246, 231 c.p.c. e 2697 c.c., deducendo che la sentenza impugnata avrebbe errato poiché avrebbe ritenuto assolto l’onere probatorio gravante sull’istituto di credito non considerando l’incapacità a testimoniare dei dipendenti della banca.
Anche tale motivo è stato dichiarato infondato, perché la valutazione sull’attendibilità di un testimone ha ad oggetto il contenuto della dichiarazione resa e non può essere aprioristica e per categorie di soggetti, al fine di escluderne “ex ante” la capacità a testimoniare (Sez. 3, Sentenza n. 19215 del 29/09/2015).
Infine, lamentava violazione e falsa applicazione degli artt. 21 TUF e 27 Reg. Consob n. 11522/98 o degli artt. 1394 o 1395 c. c., richiamando la giurisprudenza che confermerebbe la censurabilità della condotta della Banca che avrebbe posto in essere delle operazioni in contropartita diretta senza aver “chiesto ed ottenuto il preventivo ed espresso consenso richiesto dall’art. 27”.
Anche tale ultimo motivo era, a parere della Corte, infondato, infatti la negoziazione in contropartita diretta costituisce uno dei servizi di investimento al cui esercizio l’intermediario è autorizzato, al pari della negoziazione per conto terzi, come si evince dalle definizioni contenute nell’art. 1 del d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, essendo essa una delle modalità con le quali l’intermediario può dare corso ad un ordine di acquisto o di vendita di strumenti finanziari impartito dal cliente. Ne deriva che l’esecuzione dell’ordine in conto proprio non comporta, di per sé sola, l’annullabilità dell’atto ai sensi degli artt. 1394 o 1395 cod. civ..
Per tutte le considerazioni predette, la Corte rigettava il ricorso.
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