In tema di prescrizione presuntiva degli onorari dovuti al difensore della società fallita, in ragione delle prestazioni professionali rese, l’unico rimedio concretamente esperibile al fine di superare l’eccezione sollevata, in assenza di idonei atti interruttivi, è il deferimento del giuramento decisorio de scientia e non già de veritate.
Il termine triennale di prescrizione degli onorari professionali dovuti all’avvocato, decorre dalla decisione della lite, dalla conciliazione delle parti o dalla revoca del mandato e, per gli affari non terminati, dall’ultima prestazione resa.
Questi i principi espressi dal Tribunale di Trani, Dott.ssa Maristella Sardone, con l’ordinanza del 05.01.2017.
Nel caso in esame, il Tribunale di Trani, ha correttamente ritenuto che, in tema di prescrizione presuntiva degli onorari, eccepita dal commissario giudiziale di una società in Amministrazione giudiziaria, in sede di opposizione allo stato passivo, l’unico rimedio concretamente esperibile, atto a superare l’eccezione sollevata, consiste nel deferimento del giuramento decisorio, non già nella forma “de veritate”, bensì nella forma “de scientia”, con la rituale formula “se ha notizia dell’estinzione del debito”.
In altri termini, in caso di eccezione, da parte di un curatore fallimentare, di prescrizione presuntiva, a seguito dell’insinuazione al passivo di crediti professionali, è da ritenersi ammissibile per il creditore (id est avvocato, nel caso di specie) deferire il giuramento de scientia, circa l’estinzione del debito, in ragione della portata generale dell’art. 2929 cod. civ., a mente del quale qualunque terzo interessato resterebbe legittimato a ricevere la delazione del giuramento.
Secondo il provvedimento de quo, quanto al decorso dei tre anni per la prescrizione presuntiva, è necessario tener conto che, ai sensi dell’art. 2957, co. 2, c.c., per le competenze dovute agli avvocati, quest’ultimo decorre dalla decisione della lite, dalla conciliazione delle parti o dalla revoca del mandato e, per gli affari non terminati, dall’ultima prestazione.
Il Tribunale ha precisato, altresì, che il titolare del diritto può, però, interrompere la prescrizione con la notificazione dell’atto col quale si inizia un giudizio o con la domanda proposta nel corso di un giudizio, oppure con “ogni altro atto che valga a costituire in mora del debitore”.
In altri termini, secondo il Giudice adito, ai fini dell’interruzione della prescrizione è necessario produrre non solo la lettera di costituzione in mora, ma anche l’avviso di ricevimento della relativa raccomandata, onde dimostrare la corrispondenza di contenuto tra la copia prodotta e la missiva ricevuta da controparte.
Tale orientamento si discosta, però, in parte, dai consolidati obiter dicta dei Supremi Giudici della nomofilachia secondo i quali “l’atto di costituzione in mora del debitore, anche al fine dell’interruzione della prescrizione, inviato al debitore con raccomandata a mezzo del servizio postale, si presume giunto a destinazione – sulla base dell’attestazione della spedizione da parte dell’ufficio postale, pur in mancanza dell’avviso di ricevimento – e spetta al destinatario l’onere di dimostrare che il plico non contiene alcuna lettera al suo interno, ovvero contiene una lettera di contenuto diverso da quello indicato dal mittente” (da ultimo Cass. ord. 24.6.2013 n. 15762 in un caso analogo a quello oggetto del presente giudizio; nello stesso senso Cass. ord. 23.6.2011 n. 13877; Cass. ord. 7.4.2009 n.8409; Cass.3.7.2003 n. 10536; Cass. 11.5.2006 n. 10849)” (Cass. 13 maggio 2014 n. 10388).
Il creditore, infatti, è tenuto solo a provare d’aver inviato al debitore la raccomandata o il telegramma (che costituisce pacificamente atto interruttivo della prescrizione) perché c’è la prova liquida della trasmissione e la conseguente presunzione iuris tantum di ricezione, da parte del destinatario, ancorchè fallito, essendo solo costui tenuto, tramite il curatore, a fornire prova contraria, dimostrando cioè che la raccomandata o il telegramma avevano un contenuto radicalmente difforme dalla costituzione in mora addotta dal creditore.
Non può condividersi la tesi della rilevabilità ex officio, e nemmeno su eccezione di parte, della tardiva produzione documentale interruttiva della prescrizione, da parte del creditore, se questa si sia resa necessaria a seguito della non tempestiva eccezione di prescrizione presuntiva formulata dalla Curatela, non già in sede di verifica dei crediti, come avrebbe dovuto in base al principio del contraddittorio ed al nuovo art. 101 del c.p.c., bensì in sede di opposizione allo stato passivo e solo con la sua comparsa di risposta.
Tale comportamento della curatela, infatti, si pone e si porrebbe in netto contrasto con l’onere della contestazione tempestiva, che non è solo desumibile dall’art. 166 del c.p.c., ma è principio che, pacificamente, informa di sé tutto nostro Ordinamento giuridico in generale ed il nostro sistema processuale, in particolare.
«Niente prova la civiltà di un ordinamento giudiziario quanto la larghezza con cui esso fa luogo all’ascolto delle opposte ragioni», come è stato acutamente osservato da autorevolissima dottrina; peraltro, l’esistenza di un onere di contestazione immediata è rilevabile anche dai principi di lealtà e probità posti a carico delle parti, e quindi anche delle curatele, che non sono affatto parti speciali, avendo anche riguardo al novellato art. 111 della Costituzione, nell’ottica delle garanzie difensive e dell’attuazione del sempre auspicato giusto processo.
Certamente condivisibile, invece, è l’individuazione, da parte del Giudice, del rimedio atto a vincere la prescrizione presuntiva triennale, del deferimento al commissario (e/o al curatore) del giuramento decisorio “de scientia”.
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