L’avvocato che deduce la pattuizione con il cliente di un un palmario (speciale compenso che il cliente corrisponde al proprio avvocato in aggiunta all’onorario per l’esito favorevole di una vertenza) che giustifichi il compenso ricevuto è tenuto a fornire la prova dell’esistenza di detto accordo nel rispetto del principio in virtù del quale di fronte alla prova dell’avvenuto pagamento di una somma di denaro il convenuto è tenuto a provare il titolo in forza del quale ha trattenuto la somma ricevuta.
In mancanza di un accordo scritto, la pretesa avanzata dall’avvocato su una percentuale della somma ottenuta all’esito della lite non può costituire un palmario bensì un patto di quota lite illecito.
Questi i principi espressi dalla Cassazione civile Sez. II, Pres. Bucciante – Rel. Falaschi, con sentenza n. 16214 del 28.06.2017.
Nel caso considerato la Corte d’Appello di Trento confermava la decisione del giudice di prime cure che aveva accolto la domanda proposta da dei clienti di un avvocato, diretta ad ottere la restituzione della somma illegittimamente trattenuta dal professionista rispetto a quella spettantegli dal risarcimento ottenuto in una causa civile di risarcimento dei danni per un sinistro stradale.
In particolare l’avvocato aveva sostento di aver stipulato con i propi assistiti una pattuizione per il riconoscimento a suo favore di un palmario nella misura del 20%, di quanto liquidato a titolo di danni, ritenendo la somma congrua in relazione alla complessità del procedimento trattato, ma, contrariamente la Corte aveva ritenuto privo di alcun riscontro probatario l’assunto del legale dell’esistenza di un accordo con gli stessi.
L’avvocato aveva, pertanto, proposto ricorso per Cassazione, al quale resistevano i clienti intimati con controricorso.
La Suprema Corte rilevava che il giudice di seconde cure aveva legittimamente preteso la prova della pattuizione del diritto al c.d. palmario, del quale aveva escluso l’esistenza attesa la mancanza, sia di un accordo scritto sia di una pattuizione verbale, inoltre, affermava che diversamente da quanto sostenuto dall’avvocato con il ricorso, in sede di interrogatorio formale innanzi alla Corte d’Appello i clienti non avevano confessato l’esistenza di un titolo che comportasse il diritto del difensore a trattenere la somma pretesa, bensì in detta sede erano emersi elementi idonei a fornire, semmai, la prova di un patto di quota lite, vietato dalla legge.
Nella specie, dunque, il professionista avrebbe dovuto fornire la prova dei propri assunti nel rispetto del principio secondo il quale nel caso in cui la parte che deduce in giudizio il pagamento di una somma di danaro, fornisca prova dello stesso è il convenuto tenuto ad allegare e a provare il titolo in forza del quale si ritiene a sua volta legittimato a trattenere la somma ricevuta.
Inoltre, gli ermellini affermavano che anche la complessità della causa andava provata, respingendo così il tentativo del professionista di far discendere dalla difficoltà della lite il compenso preteso, senza in alcun modo dimostrare le effettive problematiche della stessa.
Alla luce di dette considerazioni la Cassazione respingeva il ricorso, condannando il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio.
Per ulteriori approfondimenti si rinvia ai seguenti contributi pubblicati in rivista:
COMPENSI AVVOCATI: COMMETTE ILLECITO DISCIPLINARE L’AVVOCATO CHE CHIEDE UN ONORARIO SPROPOSITATO
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