L’usura va intesa quale delitto a consumazione prolungata o a condotta frazionata per cui ne deriva che effettivamente colui il quale riceve l’incarico di recuperare il credito usurario e riesce ad ottenerne il pagamento concorre nel reato punito dall’art. 644 c.p., in quanto con la sua azione volontaria fornisce un contributo causale alla verificazione dell’elemento oggettivo di quel delitto.
E’ del tutto irrilevante che il soggetto non sia intervenuto nella fase del prestito, ma soltanto in quella della riscossione.
Cass.pen. sez. II, Pres. Fiandanese, Rel. Coscioni n. 53479 del 24.11.2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FIANDANESE Franco – Presidente –
Dott. MESSINI D’AGOSTINI Piero – Consigliere –
Dott. PARDO Ignazio – Consigliere –
Dott. PAZIENZA Vittorio – Consigliere –
Dott. COSCIONI G. – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
P.G.;
E.N.;
E.F.;
R.B.;
avverso la sentenza n. 478/2014 del 05/10/2015 della CORTE APPELLO di LECCE, SEZ. DIST. di TARANTO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. COSCIONI GIUSEPPE
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.Con sentenza del 5 ottobre 2015, la Corte di appello di Lecce – sezione distaccata di Taranto – riduceva la pena inflitta a P.G. e E.F. e confermava la condanna inflitta in primo grado a E.N. e R.B.; P. era imputato di usura commessa ai danni di M.L.E. (capo Z), Ma.Mi. e M.L.E. (capo Al), S.N. (capo C1), F.V. (capo F1), estorsione ai danni di S.N. (capo D1), tentata estorsione ai danni di F.V. (capo G1) e tentata minaccia ai sensi dell’art. 611 cod. pen. ai danni di F.V. (capo H1); E.F. era imputato di usura ai danni di M.L.E. (capo V), S.N. (capo B1), tentata estorsione ai danni di M.L.E. e S.N. (capo E1); E.N. di usura ai danni di S.N. (capo B1); R.B. di usura ai danni di Ma.Mi. e M.L.E. (capo A1).
1.1 Avverso la sentenza ricorre per Cassazione il difensore di P.G., eccependo che immotivatamente non erano state concesse le attenuanti generiche, negate per i precedenti penali di cui era gravato P., senza considerare che gli episodi delittuosi erano lontani nel tempo; non poteva certo ritenersi sufficiente una motivazione che fondava il diniego della concessione in parola sul rilievo che la pena in concreto risultava proporzionata all’entità del fatto ed alla personalità del soggetto.
2.1 Ricorre per cassazione anche E.F., censurando l’applicazione dell’art. 62 bis cod. pen. con giudizio di equivalenza rispetto alle contestate aggravanti; l’imputato era infatti incensurato ed aveva rinunciato ai motivi di appello ad eccezione di quelli relativi alla pena, per cui la motivazione con la quale non era stato effettuato un giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sulle contestate aggravanti era illogica.
3.1 Il difensore di E.N. propone ricorso, eccependo l’illogicità della motivazione in relazione alla errata valutazione del verbale di sommarie informazioni del 19.02.2009 di S.N. ed alla mancata valutazione del verbale di interrogatorio reso da M.L. in sede di rito abbreviato dell’11.1.2013: nella motivazione della sentenza impugnata non si faceva alcun riferimento a intercettazioni di conversazioni intercorse tra il ricorrente e S. o M., per cui il riferimento alle stesse contenute nella motivazione non era riconducibile a E.N.; già in atto di appello era stato poi precisato che le dichiarazioni delle persone offese non erano accusatorie nei confronti del ricorrente; la Corte territoriale non aveva motivato sulle censure proposte in appello relative al periodo in cui i prestiti sarebbero stati elargiti, alle somme prestate ed a quanto tempo intercorresse tra la dazione delle somme ed il momento del pagamento del debito, per cui non si comprendeva come fosse stato fissato un tasso di interesse al 120%; il verbale di sommarie informazioni di S. citato dalla Corte di appello a pag. 16 della sentenza impugnata non era riferibile alla posizione del ricorrente (per il quale si faceva solo menzione del cambio di assegni, senza citare tasso di interessi e somme versate), ma solo a quella del fratello F.; nel verbale di interrogatorio di M. dell’11.1.2013, quest’ultimo affermava di non aver avuto rapporti con E.N., così smentendo quanto riferito da S.; la richiesta fatta a S. di denunciare lo smarrimento della targa posteriore precedentemente sottrattagli, era stata fatta da E.F., mentre E.N. era soltanto la persona che doveva provvedere al passaggio di proprietà in favore di E.F.; il fatto che E.N. avesse chiesto informazioni a S. e M. sull’avviso di conclusione delle indagini preliminari a lui notificato poteva costituire la reazione di chi, sapendo di essere innocente, aveva ricevuto il suddetto avviso per una denuncia sporta da persone con cui non aveva mai avuto rapporti.
4.1 Ricorre per cassazione il difensore di R.B., eccependo che la sentenza della Corte territoriale pretendeva di riconoscere la responsabilità del ricorrente per il reato di usura per fatti che non si sapeva quando e dove fossero avvenuti, con quali modalità e in danno di chi; unico elemento a carico del ricorrente erano le dichiarazioni di Ma.Mi. e M.L.E., contrastate dall’assenza di alcuna altra prova; inoltre nessuno dei due soggetti affermava di aver contratto prestiti usurari con il ricorrente e gli stessi si contraddicevano sulla somma oggetto di prestito; già nell’atto di appello si era quindi evidenziato che non risultavano provati: la persona o le persone con cui R. avrebbe posto in essere le operazioni a carattere usurario; la natura e la causale di tali operazioni; l’importo o gli importi che costituivano la sorte capitale degli asseriti prestiti usurari; l’importo o gli importi che sarebbero stati restituiti; l’ammontare del tasso di interesse praticato nelle asserite singole operazioni di carattere usurario; le singole circostanze di tempo e luogo in cui si sarebbero concretizzate le suddette operazioni.
Inoltre, nonostante fosse stata contestata l’aggravante dell’aver approfittato dello stato di bisogno, non era stato individuato il soggetto vittima dell’usura, visto che sia la Ma. che M. individuavano nell’altro la persona del debitore.
4.2 Il difensore eccepisce inoltre che mancava qualsiasi prova dell’elemento materiale del reato di cui all’art. 644 cod. pen., essendo erronea l’affermazione della Corte territoriale secondo la quale R. sarebbe stato l‘alter ego di P., posto che M. si era limitato ad affermare che R. era un soggetto partecipante in maniera occasionale ad un ipotetico e non provato rapporto triangolare con la Ma.; inoltre la Corte di appello non spendeva una parola con riguardo all’asserita condotta posta in essere in danno della Ma.; malgrado la Ma. e M. fossero stati considerati come persone offese del reato, nessuno dei due diceva di avere subito l’usura in prima persona, indicando l’altro come debitore; mancava poi qualsiasi prova di tipo documentale, posto che sulle tre cambiali prodotte in fotocopia da M. le due persone offese si contraddicevano; non si comprendeva poi come si potesse ritenere che, in assenza di qualsiasi perizia grafologica, gli effetti cambiari riportassero la sottoscrizione per girata di R. ed era materialmente impossibile calcolare il tasso di interesse in assenza della sorte capitale asseritamente mutuata e del termine di restituzione della stessa.
4.3 Il difensore osserva poi come le dichiarazioni di M. avrebbero dovuto essere valutate in maniera particolarmente approfondita in quanto lo stesso era responsabile di intermediazione usuraria; i giudici di appello avevano condiviso la singolare tesi secondo cui la ritrattazione fatta in dibattimento da M., tanto da giustificare la trasmissione del verbale di udienza alla Procura della Repubblica, anzichè minarne la credibilità, contribuiva a dare maggiore solidità alle originarie accuse, senza compiere alcuna indagine approfondita sulla credibilità delle persone offese, che si erano contraddette su soggetto titolare della originaria posizione debitoria, ammontare della stessa e soggetto che pagava le cambiali.
4.4. Il difensore eccepisce come già in appello era stato osservato che mancava la prova del ruolo di R. quale concorrente nel reato, non essendovi alcuna intercettazione che lo riguardasse e non essendo dato di capire in cosa fosse consistito il concorso posto in essere.
4.5 Il difensore lamenta come nei motivi di appello era stata chiesta una maggiore riduzione delle pena per la concessione delle attenuanti generiche, posto che non vi era prova dello stato di bisogno del soggetto asseritamente sottoposto ad usura, ma tale profilo di censura era stato respinto dalla Corte di appello che, così facendo, aveva riconosciuto a R., imputato di un solo reato, un trattamento sanzionatorio più severo di altri imputati chiamati a rispondere di diversi, e più gravi, capi di imputazione; si evidenziava come mancasse una prova processualmente certa circa l’ammontare del tasso di interesse praticato e che non si comprendeva chi fosse il soggetto in stato di bisogno; si chiedeva pertanto l’annullamento della sentenza impugnata e, in subordine e in ogni caso, la diminuzione della pena nel minimo edittale, previa esclusione dell’aggravante ex art. 644 c.p., comma 5, n. 3 con il minimo aumento per la continuazione ed il riconoscimento delle attenuanti generiche.
4.6 Il difensore presentava poi una integrazione del ricorso nella quale sottolineava che nessuno aveva riferito di avere ricevuto da R. denaro in prestito, come emergeva dal contenuto delle sommarie informazioni testimoniali rese da M. in data 19.2.2009 e dalla Ma. in data 4.3.2009: quanto al ruolo di R. quale concorrente nel reato, l’unico momento in cui il suo nome veniva associato a quello di P. era nel verbale di sommarie informazioni testimoniali rese da M. il 25.2.2009, in cui M. si limitava a dire che gli era stato chiesto se era stato interrogato dalla polizia.
MOTIVI DELLA DECISIONE
I ricorsi sono manifestamente infondati.
1.1 Relativamente al ricorso di P., si deve ricordare che in tema di attenuanti generiche, posto che la ragion d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo l’affermata insussistenza; al contrario, secondo una giurisprudenza consolidata di questa Corte Suprema, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio (così, ex plurimis, sez. 1, n. 11361 del 19/10/1992, Gennuso, rv. 192381; sez. 1 n. 12496 del 02/09/1999, Guglielmi ed altri, rv. 214570; sez. 6, n. 13048 del 20/106/2000, Occhipinti ed altri, rv. 217882; sez. 1, n. 29679 del 13/06/2011, Chiofalo ed altri, rv. 219891); in altri termini, dunque, va ribadito che l’obbligo di analitica motivazione in materia di circostanze attenuanti generiche qualifica la decisione circa la sussistenza delle condizioni per concederle e non anche la decisione opposta (cfr. sez. 2, n. 38383 del 10/07/2009, Squillace ed altro, rv. 245241, e sez. 4, n. 43424 del 29/09/2015).
Nella specie la corte territoriale ha pure esposto i motivi del diniego ritenendo che ” P. è attinto da condanne per detenzione illegale di armi e ricettazione che ne tratteggiano negativamente la personalità, specie alla luce dei fatti accertati nel presente giudizio” (pag. 18 sentenza impugnata); a fronte di tale motivazione, il ricorrente non ha indicato alcun elemento dal quale emergerebbe invece la meritevolezza del beneficio richiesto; il ricorso è pertanto inammissibile.
2.1 E.F. lamenta invece come non sia stato effettuato un giudizio di prevalenza delle concesse attenuanti generiche sulle contestate aggravanti, richiamando la sua incensuratezza e il corretto comportamento processuale, derivante dalla rinuncia ai motivi di appello ad eccezione di quelli sulla pena; a tale proposito, si deve osservare che la sentenza di primo grado ha riconosciuto al ricorrente le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza in relazione alle contestate circostanze aggravanti, e la Corte di merito ha valutato come congrua la pena inflitta, condividendo il giudizio di equivalenza formulato in primo grado.
Anche questo motivo è pertanto manifestamente infondato, alla luce del pacifico orientamento di legittimità, secondo cui in tema di concorso di circostanze, le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti sono censurabili in sede di legittimità soltanto nell’ipotesi in cui siano frutto di mero arbitrio o di un ragionamento illogico, e non anche qualora risulti sufficientemente motivata la soluzione dell’equivalenza allorchè il giudice, nell’esercizio del potere discrezionale previsto dall’art. 69 cod. pen., l’abbia ritenuta la più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena in concreto irrogata (Sez. 5, sentenza n. 5579 del 26/09/2013, dep. 04/02/2014, Sub o ed altro, Rv. 258874; Sez. 6, sentenza n. 6866 del 25/11/2009, dep. 19/02/2010, Alesci ed altri, Rv. 246134); nel caso in esame, la Corte di merito, nel confermare il giudizio di equivalenza, ha osservato come il trattamento sanzionatorio sia stato determinato in misura assai prossima al minimo edittale.
3.1 Relativamente al ricorso di E.N., si deve rilevare innanzitutto come non corrisponda al vero che vi sia una genericità nella indicazione delle somme prestate, del tempo della restituzione e degli interessi praticati; la Corte di appello, a pag. 13 della sentenza impugnata, ha precisato che “le persone offese hanno espressamente indicato il tasso di interesse praticato dagli imputati, che era pari, a seconda dei casi, al 10%-15%-20%-30% mensile, dunque dotato di penale rilevanza assolutamente manifesta, perchè ben superiore al 100% annuo”; nel capo di imputazione è espressamente indicato che E.N. e E.F. “si facevano dare o promettere da S.N. in corrispettivo di prestazioni di denaro (cambio assegni per circa 70.000 Euro) interessi usurari nella misura del 15-20% mensile)” e la sentenza di primo grado a pag. 15 evidenzia come S.N. si era rivolto ai fratelli E. al fine di ottenere il cambio di assegni “con applicazione di una percentuale variabile tra il 15% ed il 20%, si ritiene, ancorchè non precisato, mensile”; ciò che viene riportato nelle sentenze dei due gradi di giudizio è esattamente ciò che emerge dal verbale delle dichiarazioni di S. del 19 febbraio 2009, prodotto dalla difesa: “…essendo venuto a conoscenza che i fratelli E. potevano venirmi incontro in tal senso, chiedevo direttamente a E.F. se potesse cambiarmi degli assegni. Aderendo alla mia richiesta, mi faceva subito presente che in cambio si sarebbero trattenuti una percentuale che variava dal 15 al 20% sull’importo totale dell’assegno. Ad esempio: se io chiedevo il cambio di un assegno da 1.000,00 Euro, E. mi consegnava in contanti la somma di 800,00 Euro. Così facendo, nel corso del tempo e sino ad oggi, ritengo di aver chiesto il cambio di svariati assegni per l’importo di circa 70.000 Euro. Preciso che il cambio degli assegni è avvenuto sia con E.F. sia con il fratello di questi, ossia N.”.
Premesso pertanto che nessuna genericità sussiste, in quanto il tasso di interesse era praticato già al momento della dazione dell’assegno da parte di S., che riceveva infatti una somma inferiore rispetto a quella contenuta nell’assegno (sul punto vedi Sez. 2, n. 16215/2014, Sisto: “commette il delitto di usura chi, approfittando dello stato di bisogno di una persona, in cambio di un assegno bancario postdatato, le corrisponde a titolo di prestito il controvalore, dopo aver detratto interessi manifestamente sproporzionati ai giorni intercorrenti tra la data di ricevimento del titolo e quella della sua esigibilità”), risulta erroneo il richiamo al citato verbale, del quale il ricorrente riporta soltanto il passo successivo a quello sopra riportato, utilizzato per la motivazione dalla Corte di appello.
Quanto alla affermazione di S. che anche il suo collaboratore M. aveva contratto prestiti con i fratelli E. che, a parere della difesa, sarebbe smentita dalle dichiarazioni di M., il ricorrente non si confronta con la motivazione della Corte di appello contenuta a pag. 17 secondo cui “lo S. ha dichiarato solo di aver avuto personali rapporti finanziari con i fratelli E. anche nell’interesse di M…. e tanto spiega l’assenza di riferimenti del M. a E.N., che mai ha accusato di usura”.
Il ricorrente, nelle ultime due pagine del ricorso, sostiene poi che la Corte territoriale avrebbe errato nella valutazione delle dichiarazioni di S., con ciò proponendo una inammissibile censura di merito: questa Corte regolatrice ha infatti più volte rilevato che anche dopo la modifica dell’art. 606 c.p.p., lett. e), per effetto della L. 20 febbraio 2006, n. 46, resta immutata la natura del sindacato che la Corte di Cassazione può esercitare sui vizi della motivazione, essendo rimasta preclusa, per il giudice di legittimità, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione o valutazione dei fatti (Sez. 5, n. 17905 del 23/03/2006, Baratta, Rv. 234109); pertanto, in sede di legittimità, non sono consentite le censure che si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (ex multis Sez. 6, n. 22445 del 08/05/2009, Candita, Rv. 244181).
4.1 Passando al ricorso di R., si deve rilevare come lo stesso si limiti in larga parte a reiterare i motivi di appello, con ciò non assolvendo all’onere di specificità del ricorso: secondo il consolidato e condivisibile orientamento di legittimità (per tutte, Sez. 4 n. 15497 del 22/02/2002 Ud. (dep. 24/04/2002), Rv. 221693; Sez. 6 n. 34521 del 27/06/2013 Ud. (dep. 08/08/2013), Rv. 256133), è infatti inammissibile per difetto di specificità il ricorso che riproponga pedissequamente le censure dedotte come motivi di appello, senza prendere in considerazione, per confutarle, le argomentazioni in virtù delle quali i motivi di appello non siano stati accolti.
L’affermazione secondo le quali R. non avrebbe avuto rapporti di natura usuraria con le persone offese M. e Ma. è smentita dalle dichiarazioni di M. (il cui verbale di sommarie informazioni del 19 febbraio 2009 è stato prodotto dal difensore), che, dopo aver riferito che la Ma. versava a P. il 10% su ogni cambio di assegno, afferma che “nel momento in cui il P., a suo dire, non poteva soddisfare il cambio dei titoli chiesti dalla Ma. si avvaleva della complicità di tale R.B. dal momento in cui la Ma. non ha più onorato i suoi impegni con P. e R., questi ultimi, poichè ero stato io a presentare loro la donna, hanno preteso da me la restituzione del denaro e dei conseguenti interessi maturati, pari ad un totale di circa 30.000 Euro…”; il rapporto di debito di M. con R. viene confermato dalla Ma. nel verbale del 4 marzo 2009 e la Corte di appello ha ritenuto che il riscontro alle dichiarazioni delle due persone offese è costituito dalle tre cambiali in fotocopia prodotte da M., sulle quali vi è la girata di R., ritenendo che il contrasto tra la Ma. e M. sulla persona del debitore, che ognuno ha individuato nell’altro, non inficia la loro attendibilità; trattandosi di valutazioni di merito, esse sono insindacabili nel giudizio di legittimità posto che il metodo di valutazione delle prove è conforme ai principi giurisprudenziali e l’argomentare scevro da vizi logici (Sez. U., n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. U., n. 12 del 31.5.2000, Jakani, Rv. 216260; Sez. U. n. 47289 del 24.9.2003, Petrella, Rv. 226074), come appunto si rileva nel caso di specie.
Il ricorrente sostiene più volte (alle pagine 3, 9 e 16 del ricorso e nella integrazione) come nè M., nè la Ma. abbiano affermato di avere contratto prestiti usurari con lui, senza considerare che questa Corte ha ormai abbandonato l’orientamento che attribuiva all’usura la natura di reato istantaneo, sia pure con effetti permanenti, e ha affermato che “in tema di usura, qualora alla promessa segua – mediante la rateizzazione degli interessi convenuti – la dazione effettiva di essi, questa non costituisce un post factum penalmente non punibile, ma fa parte a pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante e segna, mediante la concreta e reiterata esecuzione dell’originaria pattuizione usuraria, il momento consumativo “sostanziale” del reato, realizzandosi, così, una situazione non necessariamente assimilabile alla categoria del reato eventualmente permanente, ma configurabile secondo il duplice e alternativo schema della fattispecie tipica del reato, che pure mantiene intatta la sua natura unitaria e istantanea, ovvero con riferimento alla struttura dei delitti cosiddetti a condotta frazionata o a consumazione prolungata.” (n. 11055 del 1998 Rv. 211610, n. 41045/05 n.34910 del 2008, Rv. 241818).
Aderendo allo schema giuridico dell’usura intesa appunto quale delitto a consumazione prolungata o – come sostiene autorevole dottrina – a condotta frazionata, ne deriva che effettivamente colui il quale riceve l’incarico di recuperare il credito usurario e riesce ad ottenerne il pagamento concorre nel reato punito dall’art. 644 c.p., in quanto con la sua azione volontaria fornisce un contributo causale alla verificazione dell’elemento oggettivo di quel delitto.
Anche a voler seguire il ragionamento della difesa, è del tutto irrilevante, pertanto, che R. non sia intervenuto nella fase del prestito, ma soltanto in quella della riscossione, come hanno riferito sia M. (affermando che R. e P. pretesero la restituzione da lui del denaro prestato alla Ma. e degli interessi)che la Ma. (che ha riferito di avere sottoscritto le cambiali in favore di R.).
4.2 Nel secondo motivo di ricorso viene lamentato che la Corte territoriale non ha svolto un rigoroso controllo sulle dichiarazioni delle persone offese, in particolare, per quanto riguarda M., ai sensi dell’art. 192 c.p.p., comma 3: la Corte territoriale sul punto ha risposto ritenendo che le condotte di M. fossero prive di penale rilevanza, e tale giudizio costituisce accertamento di fatto non censurabile in sede di legittimità (sul punto vedi Sez. 6, n. 43693 del 30/09/2013 Ud., dep. 28/10/2013 Rv. 258153: “E’ inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che censura l’erronea applicazione dell’art. 192 c.p.p., comma 3, quando è fondato su argomentazioni che si pongono in confronto diretto con il materiale probatorio, e non, invece, sulla denuncia di uno dei vizi logici tassativamente previsti dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. E), riguardanti la motivazione del giudice di merito in ordine alla ricostruzione del fatto”).
Quanto alla attendibilità delle persone offese, la Corte di appello ne ha parlato diffusamente evidenziando la credibilità delle stesse nelle pagine da 10 a 13, svolgendo quindi quella verifica rigorosa e più penetrante rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone: in particolare, la Corte territoriale ha richiamato la sentenza del giudice di primo grado nella parte in cui ha precisato che l’inchiesta è nata non dalle denunce delle vittime di usura (che avrebbero magari avuto intenti vendicativi o l’intenzione di sottrarsi alle obbligazioni contratte), ma dal loro coinvolgimento solo a seguito delle intercettazioni disposte, evidenziando che le successive ritrattazioni escludono qualsiasi intento calunnioso.
4.3 Sulla censura secondo la quale a carico di R. non vi sarebbe alcuna prova di un suo concorso nel reato, si richiamano le considerazioni svolte dalla Corte territoriale secondo le quali M. aveva indicato R. quale alter ego di P., in quanto prestava denaro al suo posto praticando lo stesso tasso di interesse (pag. 15 sentenza impugnata).
4.4 Relativamente all’aggravante di cui all’art. 644 cod. pen., comma 5, n. 3, questa Corte ha più volte affermato che “Lo stato di bisogno della persona offesa del delitto di usura può essere provato anche in base alla sola misura degli interessi, qualora siano di entità tale da far ragionevolmente presumere che soltanto un soggetto in quello stato possa contrarre il prestito a condizioni tanto inique e onerose. (Fattispecie in cui il tribunale del riesame era giunto a calcolare interessi usurai anche pari al 7,2% mensile e a 86% su base annua). Sez. n. 21993 del 03/03/2017 Cc., Surgo, Rv. 270064”; nel caso in esame, in base alle dichiarazioni di M., il tasso di interesse era del 10% mensile per cui correttamente la Corte territoriale, in base alla giurisprudenza sopra richiamata ed al fatto che M. era privo di conto corrente, ha ritenuto sussistente la predetta aggravante.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle Ammende della somma di Euro 2.000,00 così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 ciascuno a favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 15 novembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 24 novembre 2017
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