Procedimento patrocinato dallo Studio legale Filesi
LA MASSIMA:
Nel mutuo c.d. “di scopo”, sia esso convenzionale o legale, la destinazione delle somme mutuate entra nella struttura del negozio connotandone il profilo causale, sicché la nullità di un tale contratto per mancanza di causa, sussiste solo se quella destinazione non sia rispettata, mentre è irrilevante che sia attuata prima o dopo l’erogazione del finanziamento, tanto più in mancanza, specificamente per il mutuo di scopo convenzionale cui sia allegato il c.d. contratto di ausilio, di alcuna norma imperativa, dal contrasto con la quale possa derivarne una nullità, sotto quest’ultimo profilo.
Questo il principio espressi dal Tribunale di Roma, Giudice Fausto Basile con la sentenza n. 4578 del 02.03.2018.
IL CASO
Il Tribunale di Roma emetteva decreto ingiuntivo di pagamento in forma immediatamente esecutiva, nei confronti dei garanti coobbligati in bonis ed in favore della Banca.
Essa ricorreva in sede monitoria deducendo a sostegno delle proprie pretese di credito, di aver stipulato con la cliente obbligata principale (una società esercente attività di impresa), diversi contratti di conto corrente oltre che un contratto di mutuo ipotecario. In relazione alle suddette linee di credito, erano state prestate dai restanti resistenti in ricorso, diverse fideiussioni omnibus, con la indicazione degli importi massimi garantiti, diverse nel quantum, in relazione a ciascuna linea di credito, chirografaria e/o ipotecaria, azionata.
Stante l’inadempimento da parte della società debitrice, parte ricorrente aveva comunicato ai fideiussori il recesso dai contratti di conto corrente e dal contratto di finanziamento ipotecario, intimando il ripianamento dell’intera esposizione debitoria.
Con atto di citazione i fideiussori formulavano opposizione al decreto ingiuntivo e convenivano in giudizio la Banca, concludendo in primis per la sospensione, ai sensi dell’art. 649 cpc, della efficacia esecutiva del decreto, assumendone la sussistenza dei presupposti di legge e nel merito, per la declaratoria di revoca, nullità e/o inefficacia dello stesso.
A sostegno dell’opposizione, gli opponenti eccepivano la violazione dell’art. 1341 co. 2 c.c., in quanto nei contratti di fideiussione sarebbe stata apposta una sottoscrizione ulteriore e distinta, avente ad oggetto l’approvazione specifica non delle sole clausole sfavorevoli al contraente debole, ma di determinate clausole, delle quali solo alcune avevano carattere vessatorio. Di conseguenza, non sarebbe stata rispettata la norma di cui sopra, in quanto il contraente debole non sarebbe stato messo nella condizione di conoscere ed approvare specificatamente le clausole a lui sfavorevoli.
In ragione di tale violazione, gli opponenti deducevano l’inefficacia della clausola così’ come contenuta nel regolamento di interessi la quale, derogando all’art. 1957 c.c., fissava in 36 mesi dalla scadenza dell’obbligazione garantita il termine entro il quale agire per l’adempimento del fideiussore. In aggiunta, i medesimi opponenti eccepivano che al fideiussore sarebbe dovuta essere riconosciuta natura di consumatore, in quanto le garanzie erano state rilasciate da soggetti estranei all’attività imprenditoriale, cui faceva riferimento il credito garantito.
Sempre parte opponente deduceva la nullità della fideiussione ai sensi dell’art. 1346 c.c. per indeterminabilità dell’oggetto del contratto, poiché la garanzia fu rilasciata non in relazione a singoli rapporti in essere con la Banca, bensì a garanzia di qualsiasi tipo di operazione già consentita o che sarebbe stata in seguito consentita, al debitore.
Infine, sull’assunto della violazione del divieto di anatocismo, gli opponenti eccepivano la errata quantificazione degli importi ingiunti, in quanto l’obbligazione principale avrebbe avuto scadenze periodiche stabilite da estratti conto mensili o trimestrali e dunque il dies a quo agli effetti dell’art. 1957 c.c., sarebbe stato quello della scadenza della sorte e degli interessi e non anche quello che segnava l’estinzione dell’intero rapporto. In aggiunta, contestando la validità della fideiussione, in quanto la Banca opposta avrebbe continuato a fare credito alla debitrice principale, pur conoscendo le precarie condizioni finanziarie della stessa, soggetto giuridico, giova ribadirlo per quanto si dirà appresso, impresa.
Si costituiva in giudizio la Banca, la quale impugnava e contestava tutto quanto ex adverso prodotto, deducendo in particolare che le garanzie prestate dagli opponenti avevano natura di contratto autonomo di garanzia, con l’effetto che ad essi opponenti risultava preclusa la possibilità di formulare eccezioni, relative all’obbligazione principale.
Il Giudice rigettava in primis l’istanza di sospensione della provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo. Con la prima memoria autorizzata, parte attrice eccepiva vieppiù la nullità della fideiussione relativa al contratto di mutuo ipotecario, per nullità di quest’ultimo, in quanto asseritamente stipulato non al fine di erogare una somma, quanto per ripianare i debiti maturati dalla obbligata principale nei confronti della Banca.
Il Giudice infine, ritenuta la causa sufficientemente istruita e matura per la decisione, fissava l’udienza per la precisazione delle conclusioni, sicché la causa veniva trattenuta in decisione.
COMMENTO
Il Tribunale di Roma, con la sentenza oggi in commento, ha ritenuto del tutto infondata la proposta opposizione rilevando in particolare che l’eccezione di parte attrice circa la violazione dell’art. 1957 c.c., fondata sull’assunto secondo cui la clausola contenuta nell’art. 5 delle lettere di fideiussione – che prevedeva una deroga alla suddetta norma – non fosse stata oggetto di specifica approvazione per iscritto ai sensi dell’art. 1341 co. 2 c.c. doveva ritenersi del tutto infondata posto che la suddetta clausola prevedeva espressamente che i diritti derivanti alla banca dalle fideiussioni, restassero integri “fino a totale estinzione di ogni suo credito verso il debitore e il termine entro il quale agire per l’adempimento, in deroga a quanto previsto dall’art. 1957 c.c., si stabilisce in 36 mesi dalla scadenza dell’obbligazione garantita”, scadenza che si era verificata in forza di una comunicazione, come risultava agli atti, mentre il ricorso per decreto ingiuntivo era stato depositato in data successiva.
La deroga, in conformità ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, è stata dunque ritenuta valida ed efficace, non avendo la disposizione carattere imperativo (v., per tutte, Sez. 3, Sentenza n. 84 del 08/01/2010 e Sez. 1, Sentenza n. 10574 del 04/07/2003) e non richiedendo la doppia sottoscrizione conforme all’art. 1341 comma 2 c.c. (per tutte Sez. 3, Sentenza n. 9695 del 03/05/2011 ). In particolare i giudici della legge hanno esposto che la decadenza del creditore dall’obbligazione fideiussoria ai sensi dell’art. 1957 c.c., per effetto della mancata tempestiva proposizione delle azioni contro il debitore principale, può formare oggetto di rinuncia preventiva da parte del fideiussore, trattandosi di pattuizione affidata alla disponibilità delle parti e che non collide con alcun principio di ordine pubblico. Comportando soltanto l’assunzione, da parte del fideiussore, del maggior rischio inerente al mutamento delle condizioni patrimoniali del debitore; la clausola relativa a detta rinuncia non rientra, quindi, tra quelle particolarmente onerose per le quali l’art. 1341 c.c., comma 2, esige che siano predisposte da uno dei contraenti e specificamente approvate per iscritto dell’altro contraente (da ultimo, v. Cass. 18 aprile 2007, n. 9245); e tanto a prescindere dal fatto che comunque si tratta di contratto concluso direttamente ed immediatamente dai due contraenti, senza l’adozione di moduli o formulari o l’applicazione della disciplina delle condizioni generali di contratto.
A tale riguardo, l’eccezione formulata dagli opponenti non veniva accolta neppure sotto il profilo della qualifica di consumatori rivestito dai fideiussori, in quanto soggetti estranei alla struttura imprenditoriale a cui faceva riferimento il credito ingiunto.
Secondo infatti un primo orientamento, sostenuto dal giudice e sviluppatosi a partire dalla sentenza della Corte Giust. CE 17.03.1998, n. 45 (Causa C-45/96), “In presenza di un contratto di fideiussione, è all’obbligazione garantita che deve riferirsi il requisito soggettivo della qualità di consumatore, ai fini dell’applicabilità della specifica normativa in materia di tutela del consumatore, di cui agli art. 1469 bis segg. c.c., nel testo vigente ratione temporis, attesa l’accessorietà dell’obbligazione del fideiussore rispetto all’obbligazione garantita (Cassazione civile sez. III 29/11/2011 n. 25212)”. Secondo tale indirizzo interpretativo, dunque, è alla natura societaria della debitrice principale che occorre fare riferimento. La sentenza della Corte Giust. CE 17.03.1998 n.45, giova fin d’ora ricordarlo, era intervenuta sul tema della disciplina propria della fideiussione. In quell’occasione era stata richiesta di fornire un’interpretazione pregiudiziale della Direttiva del Consiglio del 20 dicembre 1985, n. 85/77/CEE, in materia di contratti negoziati fuori dai locali commerciali ed aveva statuito che rientrava nel campo di applicazione di quella Direttiva unicamente la fideiussione, accessoria ad un contratto con il quale il consumatore si fosse impegnato, in occasione di una vendita a domicilio, nei confronti di un commerciante, al fine di ottenere da quest’ultimo beni o servizi. Pertanto, l’art. 2 della Direttiva 85/77, andava interpretato nel senso che un contratto di fideiussione stipulato da una persona fisica, la quale non agisca nell’ambito di un’attività professionale, è comunque escluso dalla sfera di applicazione della Direttiva, quando essa garantisca il rimborso di un debito contratto da un’altra persona la quale agisce, per quanto la concerne, nell’ambito della propria attività professionale. La medesima linea interpretativa fu poi fatta propria da Cass. civ., 8 giugno 2007, n. 13377, in Giust. civ., 2008, I, 996; Cass. civ., 13 giugno 2006 n. 13643, in Giust. civ., 2007, I, 1175; Cass. civ., 25 luglio 2001, n. 10127, in Giust. civ., 2002, I, 685; Cass. civ., 11 gennaio 2001, n. 314, in Giust. civ., 20011, I, 2149, che hanno affermato, identicamente alla sentenza della quale si cita qui la massima, che nell’ipotesi di fideiussione che accede a contratti bancari, deve ritenersi sussistente il requisito oggettivo per l’applicabilità della disciplina delle clausole abusive, in ragione del collegamento contrattuale che intercorre tra il contratto costitutivo del debito principale garantito e quello costitutivo dell’obbligazione fideiussoria. Il tema, a parre di chi scrive, non è di poco rilievo. Basti pensare a tutte quelle fideiussioni che, talvolta, vengono prestate a favore di un’attività d’impresa dai congiunti dell’imprenditore o del legale rappresentante della stessa, con tanta più leggerezza quanto più essi sono inseriti nell’impresa. Il collegamento contrattuale fra fideiussione e rapporto garantito, attrae però la prima fuori dalla tutela del Codice del consumo e lascia il garante in balia di responsabilità, che egli non ha magari ben valutato oltre che di clausole gravose, che non ha compreso appieno. In effetti, in dottrina non si è mancato di notare come la disciplina di tutela del consumatore mostri qualche lacuna. Per esempio, essa non trova applicazione per le prestazioni sanitarie. (Per tutte Cfr. Cass. civ., 2 aprile 2009, n. 8093), ove si afferma che “il paziente di una struttura sanitaria pubblica non è «consumatore» e l’azienda non è «professionista»”. Con detta pronuncia la S.C. ebbe modo di illustrare che all’utente della struttura sanitaria pubblica o di una struttura convenzionata in totale esenzione, non si applica la tutela propria del consumatore, non solo perché il relativo rapporto non può qualificarsi come contratto, trattandosi soltanto dell’adempimento di un dovere di prestazione direttamente discendente dalla legge automaticamente attivato dalla richiesta del cittadino-utente, ma anche in quanto l’azienda ospedaliera non riveste la qualità di «professionista», visto che, quando eroga la prestazione a favore dell’utente, non agisce nell’esercizio di un’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale, in quanto il suo svolgimento deve avvenire senza il necessario rispetto del principio di economicità, atteso che comunque l’erogazione del servizio deve essere assicurata anche se cagiona perdite. Quella disciplina resterebbe, invece, applicabile all’utente di un’azienda sanitaria privata non convenzionata.
Per quanto riguarda l’esistenza del profilo «soggettivo», attinenti alla qualità di consumatore del soggetto che contrae, Cass. civ., 23 febbraio 2007, n. 4208, ha puntualizzato che non è consumatore chi utilizza il contratto «nel quadro» della sua attività imprenditoriale o professionale. Perché ricorra la figura del «professionista» è sufficiente — come si evince dalla parola «quadro» — che il contratto venga posto in essere per uno scopo connesso all’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale.
Nemmeno l’eccezione in esame è stata accolta dal Magistrato di Roma, alla stregua del più recente arresto della CGUE del 19.11.2015 (Causa C-74/15) secondo la quale “gli articoli 1, paragrafo 1, e 2, lettera b), della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che tale direttiva può essere applicata a un contratto di garanzia immobiliare o di fideiussione stipulato tra una persona fisica e un ente creditizio, al fine di garantire le obbligazioni che una società commerciale ha contratto nei confronti di detto ente in base a un contratto di credito, quando tale persona fisica ha agito per scopi che esulano dalla sua attività professionale e non ha alcun collegamento di natura funzionale con la suddetta società”.
Gli opponenti, ha motivato il Giudice in sentenza, non avevano infatti fornito alcun indizio o elemento di prova, circa l’inesistenza di qualsiasi collegamento di natura funzionale con la società debitrice, avendo solo affermato che “il fideiussore” (senza neppure specificare quale), non era amministratore della società garantita.
Ed ancora osservava il Giudice che ogni caso, la clausola che, in deroga all’art. 1957 c.c., prevede un termine di decadenza più lungo in favore della Banca creditrice, neppure può essere considerata vessatoria e conseguentemente nulla, ai sensi e per gli effetti degli artt. 33 e ss. del Codice del Consumo, non determinando a carico del consumatore “un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”.
Il Tribunale ha altresì rigettato l’eccezione di nullità dell’atto di fideiussione, per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto della garanzia.
Tale censura si fondava sulla circostanza, dedotta da parte opponente, che le fideiussioni erano state rilasciate non in relazione a singoli rapporti in essere con la Banca, bensì, in via estremamente generica, a garanzia di qualsiasi tipo di operazione già consentita o che sarebbe stata in seguito consentita, al debitore.
Sul punto ha rilevato il Giudice che l’art. 10 della Legge 17.2.1992, n. 154, modificando gli artt. 1938 e 1956 c.c., ha disposto esclusivamente, ai fini dell’efficacia della fideiussione omnibus, la fissazione nel contratto dell’importo massimo garantito e la invalidità della preventiva rinuncia del fideiussore ad avvalersi della liberazione.
Di conseguenza, soltanto la mancata predeterminazione con espressa dichiarazione di volontà, dell’importo massimo garantito, escludendo che il fideiussore possa essere chiamato a rispondere dei debiti futuri, sorti a carico del debitore principale, nei confronti del creditore garantito.
Nel caso di specie è stato osservato che le fideiussioni prestate, prevedevano espressamente gli importi massimi garantiti; condizione questa da cui è conseguita, ai sensi dell’art. 1938 c.c., la validità della stessa fideiussione, anche per i crediti condizionali e futuri della debitrice principale, nei confronti della stessa Banca.
Valide ed efficaci, quindi, le garanzie sottoscritte dagli opponenti.
E’ risultata altresì infondata la contestazione di parte opponente, circa la errata quantificazione del credito ingiunto, sull’assunto che il dies a quo agli effetti dell’art. 1957 c.c. sarebbe quello della scadenza della sorte e degli interessi e non invece quello che segna l’estinzione dell’intero rapporto. Nell’ambito dei contratti di conto corrente, ha infatti correttamente motivato il Tribunale di Roma, per il decorso del termine di cui all’art. 1957 c.c., deve farsi riferimento alla data di chiusura del conto, analogamente a quanto accade per il termine di prescrizione, per il quale è esclusa la decorrenza prima della chiusura del conto.
In merito alla pretesa illegittima applicazione di interessi anatocistici, il giudice ha rilevato che i contratti per cui era causa, stipulati successivamente all’entrata a regime della nuova disciplina dell’anatocismo bancario (decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342, recante disposizioni integrative e correttive del Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) prevedono espressamente che i rapporti di dare e di avere, debbano essere chiusi con identica periodicità trimestrale e siano produttivi di interessi, attivi o passivi, da ciascuna chiusura trimestrale. La disciplina negoziale che ne risulta, è pienamente rispettosa del principio della pari periodicità di cui all’art. 120 T.U.B. e all’art. 2 della delibera CICR del 9 febbraio 2000.
Tale delibera, nel confermare che nelle operazioni di raccolta del risparmio di esercizio del credito poste in essere dalle banche e dagli intermediari finanziari, gli interessi possono produrre a loro volta interessi (art. 1) e che nell’ambito di ogni singolo conto corrente deve essere pattuita la stessa periodicità nel conteggio degli interessi creditori e debitori (art. 2, comma 2), ha stabilito che l’accredito e l’addebito degli interessi avviene sulla base dei tassi e con le periodicità contrattualmente stabilite e che il saldo periodico produce interessi secondo le medesime modalità (art. 2 comma 1).
Tale doglianza, è stata quindi dichiarata come le altre infondata e non meritevole di accoglimento.
Gli opponenti avevano inoltre eccepito, sia pure tardivamente, con la prima memoria istruttoria, la liberazione dalla garanzia fideiussoria ai sensi dell’art. 1956 c.c., allegando che la Banca avrebbe continuato a fare credito alla debitrice principale, pur conoscendo le precarie condizioni finanziarie di quest’ultima.
In merito quindi alla estinzione delle fideiussioni ai sensi dell’art. 1956 c.c., il Tribunale di Roma ha precisato che in tema di fideiussione per obbligazioni future, per l’applicazione di tale disposizione (a mente del quale il fideiussore è liberato in caso di finanziamenti al terzo nonostante il sopravvenuto deterioramento delle sue condizioni economiche conosciuto dal creditore) devono ricorrere sia il requisito oggettivo della concessione di un ulteriore finanziamento, successivo al deterioramento delle condizioni economiche del debitore, sopravvenuto alla prestazione della garanzia, sia quello soggettivo della consapevolezza del creditore del mutamento delle condizioni economiche del debitore, raffrontate a quelle esistenti all’atto della costituzione del rapporto (Cass. 23 maggio 2005 n. 10870).
Nel caso di specie, parte opponente, sulla quale gravava il relativo onere probatorio, non aveva fornito la prova né dell’elemento oggettivo, né dell’elemento soggettivo, della fattispecie normativa di cui al predetto articolo 1956 codice civile. I giudici della legge, (la fattispecie era antecedente alla legge. n. 154 del 1992), sul punto in commento, hanno altresì precisato che vanno ricomprese nell’ambito delle semplici deduzioni difensive, le osservazioni della controparte che si limitano a sostenere l’inesistenza di tali fatti.
Anche detta tale eccezione, pertanto, è stata respinta dal Tribunale di Roma.
Infine il Giudice ha motivato in merito a quanto dedotto dagli opponenti con la prima memoria autorizzata ex art. 183 c.p.c., nella parte in cui eccepivano la nullità delle fideiussioni prestate in riferimento al contratto di mutuo, conseguente alla nullità di quest’ultimo, in quanto stipulato esclusivamente allo scopo di ripianare i debiti della società obbligata principale, nei confronti della Banca.
Tale censura è risultata infondata, con la motivazione che nel mutuo c.d. “di scopo”, sia esso convenzionale o legale, la destinazione delle somme mutuate entra nella struttura del negozio connotandone il profilo causale, sicché la nullità di un tale contratto per mancanza di causa, sussiste solo se quella destinazione non sia rispettata, mentre è irrilevante che sia attuata prima o dopo l’erogazione del finanziamento, tanto più in mancanza, specificamente per il mutuo di scopo convenzionale cui sia allegato il c.d. contratto di ausilio, di alcuna norma imperativa, dal contrasto con la quale possa derivarne una nullità, sotto quest’ultimo profilo (Cassazione civile, Sez. I, sentenza 22 dicembre 2015, n. 25793).
I giudici della legge, con la sentenza appena citata, affrontarono (e fra l’altro un motivo di ricorso, in relazione al quale, eccepita dai ricorrenti) la sussistenza nel merito ed in punto di fatto di un mutuo di scopo legale, secondo la previsione della L. n. 949 del 1952, art. 33, la richiesta ed erogazione del finanziamento nell’anno 1997, sarebbero dovute avvenire prima della ristrutturazione di un laboratorio artigiano e dell’acquisto delle scorte, cui era finalizzata la concessione del mutuo in questione, mentre al contrario nella specie – la realizzazione delle opere suindicate e l’acquisto delle relative scorte, era avvenuta un anno prima, ossia nel 1996. Da ciò ne sarebbe conseguita la nullità del finanziamento per mancanza di causa o per contrasto con norme imperative (L. n. 949 del 1952, art. 33, artt. 1343 e 1418 c.c.). L’operazione in questione, lamentavano i ricorrenti, sarebbe stata infatti posta in essere, non per le finalità previste dalla legge succitata, ma al solo scopo di consentire ai mutuatari di ripianare le esposizioni dei vari conti correnti intestati ad una società, in favore di una Banca. Da quanto suesposto ne sarebbe discesa anche la nullità del contratto accessorio di avallo, stipulato – con emissione di vaglia cambiari, a garanzia del suddetto mutuo.
Con la declaratoria di nullità del contratto di finanziamento in questione, sarebbe derivato anche il venir meno della garanzia ipotecaria iscritta sui beni di uno dei ricorrenti, a garanzia della restituzione delle somme mutuate. Orbene, la Suprema Corte osservò, dichiarando infondato il motivo di ricorso, che dall’esame degli atti si evinceva che 2 società avevano stipulato con una Banca un finanziamento agevolato, ai sensi della legge 25 luglio 1952 n. 949, da destinare sia alla ristrutturazione di un laboratorio artigiano, sia in parte all’acquisto delle relative scorte. Tale finanziamento, al quale era collegata l’ammissione, da parte dell’Istituto di credito, al contributo in conto interessi – in forza del quale una parte degli interessi dovuti alla banca finanziatrice cedevano a carico del suddetto ente, con il contributo dello Stato, era stato indi garantito sia con iscrizione ipotecaria, sia con la emissione da parte del soggetto finanziato, di effetti cambiari avallati. La ratio del mutuo di scopo previsto dalla L. n. 949 del 1952, art. 33, sarebbe stata, pertanto, del tutto inesistente nel caso concreto, essendo – in realtà – il mutuo finalizzato a consentire alla Banca, a fronte della cospicua esposizione del gruppo societario finanziato nei confronti dell’istituto di credito, di ripianare gli scoperti di tutti i conti correnti ed al contempo, di garantirsi la restituzione della somma finanziata, mediante come già detto l’iscrizione ipotecaria sui beni e sugli effetti cambiari rilasciati ed avallati. Orbene la Suprema osservò che in tema di imprese artigiane, la concessione di un credito cosiddetto “agevolato”, presupponeva la nascita di un rapporto principale tra l’istituto finanziario erogatore (nella specie una banca) ed il privato e di un rapporto secondario, instaurato tra l’ente pubblico ed il detto istituto finanziario; il primo rapporto integrando gli estremi del mutuo di scopo, il secondo consistendo in una convenzione (cosiddetto “contratto di ausilio”), diretta a regolare l’obbligazione nei confronti dell’istituto finanziario, con la quale l’ente pubblico si accollava una parte degli interessi che dovevano essere corrisposti dal privato, all’istituto mutuante. Il collegamento tra il rapporto di credito fondamentale originato dal finanziamento ed il rapporto di ausilio raffigurato dal contributo in conto interessi concesso dall’ente pubblico, statuì la Suprema Corte, era di natura accessoria, tanto da poter cessare, lasciando sopravvivere il solo rapporto principale, quando l’istituto finanziario lo avesse regolato in modo da poter convertire il contratto di credito agevolato, in un contratto di credito ordinario (Cass. S.U. 13046/1997; Cass. 1400/1999).
Il primo rapporto, dunque, integrando gli estremi del mutuo di scopo, comportava che per legge o per volontà delle parti, assumeva un ruolo primario nel contratto l’interesse alla realizzazione dello scopo, tanto che esso veniva a tradursi, attraverso una “clausola di destinazione”, nell’assunzione, da parte del sovvenuto, dell’obbligo di compiere l’attività necessaria al perseguimento della finalità, posta a base dell’intera operazione. Nel credito agevolato, invero, i prestiti venivano concessi per un fine particolare, in vista del cui raggiungimento era fatto obbligo al mutuatario, di fare delle somme concesse un certo impiego, attraverso il quale si realizzava, oltre che l’interesse del mutuatario, un interesse di natura pubblicistica. La presenza dell’obbligazione di destinazione, che si aggiungeva alle obbligazioni di restituzione della somme mutuate e di pagamento degli interessi, induceva indi a ritenere che la destinazione delle somme mutuate, entrasse nella struttura del negozio e ne connotasse in particolare il profilo causale. In questa forma di mutuo, detta mutuo di scopo, infatti, la presenza dell’obbligazione di destinazione, contrassegnava il negozio, in quanto la funzione economica e sociale di esso non si esauriva nel godimento del danaro (e nel susseguente obbligo di restituzione), ma implicava la realizzazione del risultato economico ultimo, rispetto al quale il godimento rappresentava un momento strumentale, in ragione anche della menzionata finalità pubblicistica posta a fondamento dell’erogazione del finanziamento (Cass. S.U. 13046/1997). E tuttavia, dalla necessaria sussistenza di un’obbligazione di destinazione delle somme mutuate, imposta dal modello di contratto sopra descritto, non poteva desumersi – contrariamente all’assunto dei ricorrenti – anche che l’erogazione dovesse precedere la realizzazione delle opere alle quali il finanziamento era finalizzato, conseguendone, in mancanza, la nullità del contratto di mutuo per mancanza o illiceità della causa. Tale conseguenza non poteva inferirsi, invero, dall’invocato disposto della Legge. n. 949 del 1952, art. 33, che non poteva ritenersi applicabile alla fattispecie concreta, (concernente un contratto di finanziamento stipulato il 3 ottobre 1997), laddove tale disposizione era stata abrogata dal D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 161, con efficacia dall’1 gennaio 1994 (art. 162). Era evidente, pertanto, che – essendo rimasti in vigore della L. n. 949 del 1952, gli artt. 37 e 39, aventi ad oggetto il contributo dell’Artigiancassa nel pagamento di parte degli interessi relativi al finanziamento all’impresa artigiana (c.d. contratto di ausilio) – il riferimento operato dalle parti alla legge succitata, non poteva che essere inteso come limitato alle finalità agevolative di cui alla normativa in questione ed al contributo in conto interessi a carico dello Stato o delle Regioni, previsto dalle disposizioni succitate. L’interesse alla realizzazione dello scopo, di agevolare la realizzazione di laboratori artigiani, derivava, pertanto, nel caso concreto, dalla volontà degli stessi contraenti, tradottasi nella formulazione della suddetta “clausola di destinazione”, secondo le modalità del c.d. mutuo di scopo convenzionale, fattispecie negoziale consensuale, onerosa ed atipica, nella quale sono già individuati i soggetti erogatori ed i soggetti che possono beneficiare del finanziamento, e nella quale la consegna della somma da corrispondere, per l’attuazione dello scopo divisato dai contraenti, rappresenta l’esecuzione dell’obbligazione a carico del finanziatore (cfr. Cass. 7773/2003; 25180/2007; 10569/2007). Ne discendeva, ad avviso della Suprema Corte, che nel caso concreto non poteva ritenersi sussistente la dedotta nullità del contratto di mutuo dell’anno 1997, per mancanza o illiceità della causa. E ciò per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, infatti, non vertendosi in ipotesi di mutuo di scopo legale, bensì di mutuo di scopo convenzionale collegato al c.d. contratto di ausilio, considerata l’inapplicabilità dell’invocato disposto di cui alla L. n. 949 del 1952, art. 33, mancava una norma imperativa dal contrasto con la quale potesse derivare la dedotta nullità della causa del contratto in parola. In secondo luogo, nel mutuo di scopo – sia esso legale o convenzionale – la nullità del contratto per mancanza di causa, poteva in astratto sussistere solo nel caso in cui la destinazione delle somme mutuate, non venisse rispettata (Cass. S.U. 13046/1997), a prescindere dal momento in cui tale destinazione fosse attuata, ossia primo o dopo l’erogazione del finanziamento. E che, nel caso di specie portato alla attenzione della Suprema Corte, le somme erogate in adempimento del finanziamento dell’anno 1997, fossero state effettivamente destinate al rimborso delle spese affrontate dal soggetto giuridico finanziato e dalla società a lui facente capo, per la ristrutturazione del laboratorio artigiano e per l’acquisto delle relative scorte, non costituiva un fatto controverso nel giudizio.
In conclusione e quindi dell’odierno commento alla sentenza del Tribunale di Roma, brevemente riassunto il caso di cui alla sentenza della Suprema Corte da ultimo citata dal Magistrato giudicante, esso giudice ha esposto che nel caso oggi all’esame, non era stata dedotta, né tantomeno provata la destinazione – convenzionale o legale – del mutuo ad un determinato scopo e, soprattutto, che tale destinazione non fosse stata in alcun modo rispettata.
Per tutte le ragioni suesposte, l’opposizione è stata dunque rigettata, con la conseguente conferma del decreto ingiuntivo opposto e la condanna degli opponenti al pagamento delle spese e dei compensi di lite.
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