La domanda di concordato preventivo, che segua alla declaratoria di inammissibilità di altra istanza concordataria, presentata dal debitore non già per regolare la crisi dell’impresa attraverso un accordo con i suoi creditori, ma con il palese scopo di differire la dichiarazione di fallimento, è inammissibile in quanto integra gli estremi di un abuso del processo, che ricorre quando si violino i canoni generali di correttezza e buona fede ed i principi di lealtà processuale e del giusto processo.
In altri termini, integra abuso del processo il comportamento dell’imprenditore che, a seguito della declaratoria di inammissibilità della prima proposta concordataria, presenta una nuova proposta ex art. 161, comma 6, l.fall. con modifiche di carattere meramente formale e marginale, limitandosi a recepire le valutazioni del commissario giudiziale.
La verifica dell’intento del debitore di piegare l’istituto concordatario al perseguimento di finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento lo ha predisposto, implica un apprezzamento che si traduce in un’indagine di fatto riservata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità esclusivamente per vizio di motivazione, nei limiti in cui tale vizio è deducibile come motivo di ricorso per cassazione.
Questi i principi espressi dalla Corte di Cassazione, Pres. Nappi – Rel. Mercolino, con la sentenza n. 3836 del 14.02.2017.
Nella fattispecie processuale esaminata accadeva che una Società presentava un’istanza di ammissione al concordato preventivo che il Tribunale dichiarava inammissibile dichiarando nel medesimo giudizio anche il fallimento della stessa.
Avverso il provvedimento di primo grado sfavorevole la Società proponeva reclamo presentando una nuova proposta ex art. 161, comma 6, l. fall. che veniva rigettata dalla Corte d’Appello.
Il giudice di secondo grado dapprima sottolineava che il rapporto tra concordato preventivo e fallimento non dava luogo ad un’ipotesi di pregiudizialità necessaria, ma ad un fenomeno di consequenzialità eventuale (del fallimento rispetto all’esito negativo del concordato) e di assorbimento (dei vizi del provvedimento di rigetto in motivi d’impugnazione del fallimento) che determinava una mera esigenza di coordinamento tra i due procedimenti, pertanto riteneva che la sentenza di primo grado correttamente avesse proceduto ad un esame congiunto e coordinato delle due richieste, secondo l’ordine logico indicato dalla L. Fall., art. 162, valutando l’istanza di fallimento soltanto dopo aver verificato la sussistenza dei presupposti per l’ammissione al concordato.
Inoltre, la Corte precisava che l’imprenditore in stato di crisi poteva sottoporre ai creditori una nuova proposta concordataria, purché la stessa contenesse reali elementi di novità rispetto a quella originaria, determinandosi altrimenti un’indebita dilatazione della durata del procedimento e degli effetti prenotativi previsti dalla L. Fall. art. 168, nonché un blocco delle iniziative per la dichiarazione di fallimento.
Avverso la predetta sentenza la Società proponeva ricorso per Cassazione per svariati motivi.
Il Collegio sin da subito ha confermato il principio espresso nei precedenti gradi di giudizio secondo cui nel rapporto tra concordato preventivo e fallimento non sussiste una pregiudizialità necessaria, ma piuttosto rileva una mera esigenza di coordinamento.
Infatti, nel caso di specie la Società proponeva la domanda di ammissione al concordato preventivo, nell’ambito della quale la dichiarazione di fallimento si apriva in via subordinata in caso d’inammissibilità della proposta concordataria.
Sul punto, non potevano operare i principi di diritto elaborati dal diritto vivente secondo cui il coordinamento tra la procedura prefallimentare e quella di concordato preventivo deve necessariamente realizzarsi attraverso il previo esaurimento di quest’ultima, posto che la funzione propria del concordato è quella di prevenire la dichiarazione di fallimento attraverso una soluzione alternativa della crisi d’impresa, la cui convenienza è rimessa esclusivamente alla valutazione dei creditori, unitamente alla fattibilità economica, spettando al Tribunale soltanto il controllo della fattibilità giuridica, anche sotto il profilo dell’idoneità della proposta ad assicurare la realizzazione della causa dell’accordo.
Nel caso di specie l’istanza di fallimento non era stata proposta in via autonoma, ma nell’ambito della procedura di concordato, pertanto il Tribunale procedeva alla trattazione congiunta delle domande.
Peraltro, il Magistrato di secondo grado aveva rilevato l’uso strumentale del concordato applicando il principio del diritto vivente secondo cui è possibile ravvisare un abuso del processo anche nella proposizione di una domanda di concordato preventivo, ogni qualvolta la stessa sia stata avanzata dal debitore non già per regolare la crisi dell’impresa attraverso un accordo con i creditori, ma con il palese scopo di differire la dichiarazione di fallimento, traducendosi tale comportamento nella violazione dei canoni generali di correttezza e buona fede e dei principi di lealtà processuale e del giusto processo.
In altri termini, si era ravvisato l’abuso del processo nel comportamento dell’imprenditore che, a seguito della declaratoria di inammissibilità della prima proposta concordataria, aveva presentato una nuova proposta ex art. 161, comma 6, l.fall. con modifiche di carattere meramente formale e marginale, limitandosi a recepire le valutazioni del commissario giudiziale.
La Corte ha sottolineato come in sede di legittimità il Giudice possa solo rilevare il vizio di motivazione e non vagliare nel merito l’intento del debitore di piegare l’istituto concordatario al perseguimento di finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento lo ha predisposto.
Sul punto, la ricorrente non individuava le lacune argomentative o le carenze logiche del ragionamento seguito nella sentenza impugnata, ma si limitava ad insistere sull’insufficienza degli elementi considerati, sollecitando, attraverso l’apparente deduzione del vizio di motivazione, un nuovo apprezzamento dei fatti, non consentito al Giudice di legittimità che non ha ravvisato alcun vizio logico-formale censurabile.
Alla luce delle suesposte considerazioni il Collegio ha rigettato il ricorso con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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