Procedimento patrocinato dallo Studio Legale Filesi
LE MASSIME
Gli interessi di mora non soggiacciono alla valutazione di usurarietà prevista dalle disposizioni di legge in materia.
La valutazione di usurarietà può riferirsi ai soli interessi corrispettivi, stante la necessaria e logica interdipendenza che esiste tra l’erogazione del credito e l’usura.
Il disvalore giuridico dell’usura sta proprio nella sproporzione tra prestazioni contrattuali corrispettive e non tocca il fenomeno degli interessi moratori
L’inciso “a qualunque titolo”, come contenuto nella norma interpretativa di cui all’art. 1 d.l. 394/2000, si riferisce a tutti gli oneri che siano pur sempre in rapporto di corrispettività con la dazione di denaro o di altra utilità; deve quindi radicalmente escludersi che detta locuzione comprenda anche gli interessi moratori; diversamente risultando del tutto stravolto il riferimento alla “corrispettività” contenuto nella norma oggetto di interpretazione.
Questi i principi come ricavabili dalla sentenza del Tribunale di Roma, sezione ottava civile, giudice Luigi D’Alessandro n. 4660 del 28 febbraio 2019.
IL CASO
Una società di capitali si opponeva a un decreto ingiuntivo di pagamento, chiesto ed ottenuto dal lessor a titolo di canoni scaduti ed insoluti, oltre interessi moratori convenzionali e spese della procedura monitoria, nonché di penale per anticipata risoluzione del contratto di locazione finanziaria.
A fondamento dell’opposizione parte attrice deduceva, in via preliminare, la sussistenza di un rapporto di litispendenza o, quantomeno, di continenza, tra il giudizio di opposizione instaurato ed altro già pendente fra le stesse parti avanti altro foro, come promosso in data precedente ancora dal lessor con rito ordinario, al fine di sentire pronunciare la declaratoria di nullità parziale del contratto di leasing, oltre che la restituzione di quanto indebitamente pagato; tra le due cause, assumeva parte attrice –opponente, doveva sussistere quantomeno un rapporto di connessione ai sensi dell’art. 40 c.p.c., tale da rendere necessaria la fissazione di un termine per la riassunzione del giudizio di opposizione, dinanzi all’altro giudice preventivamente adito; gli interessi moratori pattuiti ed applicati nel corso del rapporto, inoltre, eccedevano la soglia usuraria, con la conseguenza che, in applicazione dell’art. 1815, comma 2, c.c., nessun interesse sarebbe stato dovuto e le somme già pagate a tale titolo, avrebbero dovuto essere restituite dalla società concedente.
La società di leasing si costituiva tempestivamente in giudizio deducendo la infondatezza dell’opposizione della quale invocava il rigetto.
COMMENTO
Con la sentenza in commento, il Tribunale ha motivato in merito alle eccezioni di litispendenza e continenza come sollevate.
La situazione di interdipendenza tra la causa da esso giudice trattata e quella pendente dinanzi ad altro foro, l’una avente ad oggetto il pagamento di canoni arretrati e della penale contrattuale, l’altra promossa per l’accertamento della natura usuraria degli interessi applicati e la restituzione di quanto indebitamente pagato – consente di ricondurre il rapporto tra le stesse al paradigma della connessione di cui all’art.40 c.p.c..
In particolare il giudice ha condiviso l’indirizzo ermeneutico della Suprema Corte di Cassazione secondo cui quando due cause si presentano a tesi e richieste contrapposte, sicché l’accoglimento totale delle domande proposte da chi si è fatto attore in una causa sia incompatibile, sul piano logico-giuridico, con la condanna totale del medesimo nell’altra causa in cui è convenuto, non può dirsi sussistente tra le stesse un rapporto di litispendenza (poiché i fatti posti a fondamento delle domande sono diversi), né un rapporto di continenza (in quanto la continenza presuppone un ambito di identità per lo meno parziale), bensì un rapporto di connessione, diverso da quello di accessorietà (cfr. Cass., 8.6.2007, n. 13514; Cass., 3.11.2000, n. 14357).
Peraltro, ha aggiunto il giudice di Roma, risultava per tabulas che la causa pendente dinanzi all’altro foro, era stata rinviata per la precisazione delle conclusioni, sicché ostava evidentemente alla rimessione del giudizio dinanzi al primo giudice, stante quanto disposto dall’art. 40, comma 2, ult. parte, c.p.c.
Nel merito, il giudice di Roma ha ritenuto del tutto infondata l’opposizione.
- disattese in particolare le doglianze attoree in merito ad un’asserita pattuizione di interessi moratori usurari; pattuizione che secondo la prospettazione della società opponente, doveva dare luogo alle conseguenze sanzionatorie previste dall’art. 1815, comma 2, c.c. Gli interessi di mora, scrive il giudice, non soggiacciono infatti alla valutazione di usurarietà prevista dalle disposizioni di legge in materia; a ciò ostando in primo luogo il criterio dell’interpretazione letterale, atteso che l’art. 644, comma primo, c.p., recante la definizione legislativa dell’usura, espressamente discorre di colui che “si fa dare o promettere … in corrispettivo dì una prestazione dì danaro … interessi o altri vantaggi”. Ed invero, gli interessi di mora, vista la loro tipica funzione risarcitoria, non possono avere rilievo nella valutazione di usurarietà la quale può invece riferirsi ai soli interessi corrispettivi, stante la necessaria e logica interdipendenza che esiste tra l’erogazione del credito e l’usura.
- Né a diversa conclusione può pervenirsi sulla base della norma interpretativa di cui all’art. 1 d.l. 394/2000 secondo cui “Ai fini dell’applicazione dell’articolo 644 del codice penale e dell’articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”. Con l’inciso “a qualunque titolo”. Per il Giudice, la norma in questione si riferisce evidentemente a tutti gli oneri, comunque concepiti e denominati che siano pur sempre in rapporto di corrispettività con la dazione di denaro o di altra utilità, mentre deve radicalmente escludersi che la detta locuzione comprenda anche gli interessi moratori, poiché altrimenti risulterebbe del tutto stravolto il riferimento alla “corrispettività” contenuto nella norma oggetto di interpretazione.
- Non persuade commenta il magistrato a tale proposito, quanto statuito dalla Corte di Cassazione con la ordinanza 30 ottobre 2018, n. 27442, allorché afferma che l’art. 644 c.p., l’art. 1 del d.l. 394/2000 e l’art. 2, comma quattro, della legge 7 marzo 1996, n. 108 non distinguono tra i vari tipi di interessi.
Con riguardo all’art. 644 c.p., apparendo evidente come esso si riferisca apertis verbìs, agli interessi dati o promessi in corrispettivo di una prestazione di denaro, nel rispetto della ratio che il fenomeno usurario che la legislazione nazionale intende contrastare, sia quello che si concreta nella fissazione, a carico di una delle parti negoziali, di una prestazione del tutto sproporzionata rispetto alla controprestazione dovutale dall’altro contraente, sicché è proprio alla prestazione originariamente prevista in contratto che deve essere circoscritto lo scrutinio di usurarietà e non già a quella (meramente eventuale e comunque dipendente dall’inadempimento o inesatto adempimento) dovuta quale risarcimento del danno da ritardo, cagionato alla parte non inadempiente. Con la proibizione dell’usura, volendosi evitare che chi ha bisogno di un bene o un servizio, si trovi costretto, per procurarsene la disponibilità, a pagare un corrispettivo eccessivamente elevato; ma tale essendo la ratio, risultando indi evidente che gli interessi di mora esulino completamente dallo spettro applicativo della predetta regola, trattandosi di somme che non sono necessariamente funzionali al bene o al servizio desiderato, bensì dovute dal debitore per sua colpa, ovvero per essere incorso in un inadempimento, che avrebbe potuto evitare. Il riferimento e quindi “a qualunque titolo”, contenuto nell’art. 1 del d.l. 394/2000, scrive il magistrato romano, non costituisce prova dell’inclusione nella previsione sull’usura, anche degli interessi contemplati a titolo di mora, al pari di quelli pattuiti a titolo di remunerazione per un prestito; ciò in quanto il decreto citato, sancisce una definizione ai fini applicativi dell’art. 644 c.p., che pure continua a richiamare alla lettera il concetto di interessi “corrispettivi” e che al comma quarto opera un riferimento, ai fini della determinazione del tasso di interesse usurario, alle “commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese (…) collegate all’erogazione del credito”, ossia ai costi effettivamente sostenuti (e non solo potenziali, come gli interessi dovuti per il caso di mora) in relazione all’elemento della “erogazione” del credito, in vista quindi del momento fisiologico della messa a disposizione del denaro. Stando così le cose, negandosi la possibilità di ampliare l’ambito del significato proprio dell’articolo 644 c.p., giacchè diversamente finendosi per giungere ad una interpretatio abrogans del riferimento al “corrispettivo “.
A diversa conclusione neppure conducendo il richiamo del menzionato decreto legge, all’art. 1815 c.c., atteso che il riferimento di tale disposizione ai soli interessi corrispettivi, è incontestato in dottrina e giurisprudenza (la stessa ordinanza n. 27442/2018 della Corte di Cassazione afferma che “l’applicazione dell’art. 1815 c.c., comma 2, agli interessi moratori usurari non sembra sostenibile, atteso che la norma si riferisce solo agli interessi corrispettivi’’).
In buona sostanza, la Relazione governativa, che discorre della necessità di valutare l’usurarietà di qualunque tipo di tasso di interesse “sia esso corrispettivo, compensativo o moratorio”, può illustrare l’intenzione del legislatore, ma non può certo integrare un testo legislativo che, per come strutturato, non si riferisce agli interessi moratori.
Neppure è possibile, scrive ancora il giudice di Roma, pervenire ad una diversa conclusione, argomentando a partire dall’art.- 2, comma 4, della legge 7 marzo 1996 n. 108, atteso che tale disposizione, nel rinviare operativamente al tasso medio risultante dall’ultima rilevazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale quale limite oltre il quale “gli interessi sono sempre usurari”, fa espresso riferimento all’art. 644 c.p., il quale a sua volta, come visto, discorre di interessi dati o promessi “in corrispettivo ” di una prestazione di denaro.
In altri termini (ed anche alla luce dell’interpretazione finalistica delle, norme sull’usura), il disvalore giuridico dell’usura stando proprio nella sproporzione tra prestazioni contrattuali corrispettive e non tocca il fenomeno degli interessi moratori, la cui previsione è in buona sostanza qualificabile quale clausola penale la quale, come noto, ha tra l’altro una funzione di deterrenza all’inadempimento e di rafforzamento del vincolo contrattuale; funzione che sarebbe ovviamente frustrata se la penale non potesse mai superare il limite stabilito per la prestazione principale. La considerazione da ultimo svolta, consentendo peraltro di neutralizzare un’altra delle argomentazioni poste dalla citata ordinanza, a fondamento dell’inclusione degli interessi moratori nell’ambito operativo delle norme di legge in materia di usura. La pronuncia della Corte evidenzia come, sul piano storico, sia stato da sempre espresso dalla maggior parte degli ordinamenti ricompresi nella cultura giuridica occidentale un giudizio di disvalore nei confronti degli interessi eccessivi, corrispettivi o moratori che siano.
L’assunto è senz’altro condivisibile, ma non può non rilevarsi che, sul piano del diritto positivo vigente, il suddetto giudizio di riprorevolezza si esprime in modo diverso a seconda del tipo di interessi che viene in rilievo: per gli interessi corrispettivi (rectius, per le clausole che li prevedono) è prevista la sanzione della nullità ai sensi dell’art. 1815, comma 2, c.c. ove travalichino la soglia usuraria; per gli interessi moratori, come detto riconducibili alla figura della penale, è invece stabilita la possibilità per il giudice, ove ne ravvisi la manifesta eccessività, di ridurli ad equità ai sensi dell’art. 1384 c.c. La norma testé menzionata permettendo così di graduare la risposta giudiziale ad una penale eccessiva, valorizzando le peculiarità del caso concreto, ossia la gravità della violazione e l’interesse del creditore all’adempimento dell’obbligazione. Non può d’altra parte condivisibilmente affermarsi che “tanto gli interessi compensativi (così nel testo), quanto quelli convenzionali moratori ristorano dunque il differimento nel tempo del godimento d’un capitale: essi differiscono dunque nella fonte (solo il contratto nel primo caso, il contratto e la mora nel secondo) e nella decorrenza (immediata per i primi, differita ed eventuale per i secondi), ma non nella funzione”.
Una simile prospettiva induce a considerare come costo del finanziamento un quid che dipende unicamente dalla condotta imputabile al debitore, e non certo ai creditore, vale a dire il ritardo nel pagamento. Portando alle logiche conseguenze l’argomento qui avversato, il debitore potrebbe aver interesse a provocare una sorta di “inadempimento efficiente del contratto” e a far maturare gli interessi di mora, in modo da determinare il superamento del tasso soglia (scegliendo anche il momento più opportuno in cui rendersi inadempiente alla luce del piano di ammortamento e dell’andamento del tasso soglia). Tale osservazione conduce ad una immediatamente successiva. Mentre la remunerazione del denaro mutuato, costituente l’interesse corrispettivo, è predeterminabile ex ante al momento del perfezionamento del contratto, altrettanto non può dirsi con riguardo agli interessi di mora. Essi, infatti, poiché non rappresentano il costo del denaro mutuato e la relativa incidenza, oltre a essere evidentemente solo eventuali, in quanto dipendenti da un eventuale inadempimento, non sono preventivamente quantificabili anche nella loro incidenza, non potendo le parti sapere al momento della conclusione del contratto se e per quanto tempo il mutuatario sarà inadempiente e, quindi, per quanto tempo decorreranno gli interessi di mora. Inoltre, non può certo obliterarsi che è la stessa legge a stabilire, nell’ambito delle transazioni commerciali quale quella conclusa tra le parti di causa, la debenza di interessi moratori ad una misura che può essere superiore rispetto alla soglia usuraria (v. artt. 2 e 5 del d.lgs. n. 231/02 in base ai quali, in ipotesi di ritardo nei pagamenti, sono dovuti interessi di mora al tasso applicato dalla Banca centrale europea alle sue più recenti operazioni di rifinanziamento principali, maggiorato di otto punti percentuali). Sarebbe dunque paradossale ritenere invalida una clausola che determini gli interessi moratori in una misura superiore rispetto al tasso-soglia ma di contro ritenere dovuti, in mancanza di una pattuizione negoziale sul punto, gli interessi moratori che la stessa legge fissa oltre la predetta soglia.
Non è sul punto condivisibile la menzionata ordinanza n. 27442/2018 della Corte di cassazione, alla cui stregua “La circostanza che, per effetto del fluttuare dei saggi previsti rispettivamente dalla legge antiusura e da quella contro il ritardo nei pagamenti, il tasso soglia antiusura possa risultare nel caso specifico inferiore al tasso di mora previsto dal D.Lgs. n, 231 del 2002, art. 5 non è dunque una “irrazionalità ” intrinseca nel sistema della legge, ma una eventualità accidentale che può in concreto accadere, e che non basta di per sé a bollare come “irrazionale” quel sistema”. Tanto implicherebbe infatti che nel vigente ordinamento giuridico, in cui tra l’altro l’usura è repressa anche penalmente, la stessa legge possa prevedere un tasso usurario, abilitando il creditore a richiedere (e costringendo il debitore a prestare) un interesse che – al di fuori dell’alveo applicativo del decreto – determinerebbe la commissione di un reato che avrebbe per conseguenza la nullità della clausola sugli interessi.
È evidente che un tasso di interesse o è usurario o non lo è, e non è persuasivo, se non a prezzo di un’esiziale incoerenza sistematica, predicare che talune categorie di debitori possano subire l’imposizione per legge di un interesse altrimenti usurario. Non è dunque ammissibile altra conseguenza logica che ritenere gli interessi moratori, alla stregua degli argomenti logici e giuridici sopra esaminati, estranei alla valutazione di usurarietà. Ciò posto, la necessità di escludere gli interessi di mora dalla valutazione di usurarietà, discende dalla stessa conclusione cui perviene l’ordinanza n. 27442/2018 della Corte regolatrice, ove afferma che “nonostante l’identica funzione sostanziale degli interessi corrispettivi e di quelli moratori, l’applicazione dell’art. 1815 c.c., comma 2, agli interessi moratori usurari non sembra sostenibile, atteso che la norma si riferisce solo agli interessi corrispettivi, e considerato che la causa degli uni e degli altri è pur sempre diversa: il che rende ragionevole, in presenza di interessi convenzionali moratori usurari, di fronte alla nullità della clausola, attribuire secondo le norme generali al danneggiato gli interessi al tasso legale”.
Non appare infatti condivisibile discorrere di identità di funzione tra interessi moratori e corrispettivi proprio mentre se ne afferma la diversità di causa, che al profilo funzionale ha riguardo come specifico elemento distintivo. D’altra parte, proprio la circostanza che l’art. 1815 c.c., nel disciplinare le conseguenze civilistiche dell’usura, trascuri gli interessi di mora, milita nel senso che il vigente sistema normativo tiene ben distinti i due tipi di interessi, alla luce della loro ontologica diversità, non giustificandosi altrimenti una tale diversità di trattamento giuridico pur a fronte di una omogeneità strutturale e della pretesa inclusione anche degli interessi di mora nella valutazione di usurarietà.
Da ultimo il Giudice ha rappresentato che la opposizione non poteva essere accolta anche perché le condizioni generali del rapporto come concluso tra le parti del processo, contenevano una clausola di salvaguardia, che prevedeva la automatica riduzione degli interessi di mora entro i limiti della soglia usuraria; ciò che escludeva in radice, la fondatezza delle avverse pretese, in punto di usurarietà degli interessi.
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