Nei casi in cui il giudice dell’esecuzione dichiari l’improcedibilità (o l’estinzione cd. atipica, o comunque adotti altro provvedimento di definizione) della procedura esecutiva in base al rilievo della mancanza originaria o sopravvenuta del titolo esecutivo o della sua inefficacia, il provvedimento adottato in via nè sommaria nè provvisoria, a definitiva chiusura della procedura esecutiva, è impugnabile esclusivamente con l’opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell’art. 617 c.p.c.; diversamente, se adottato in seguito a contestazioni del debitore prospettate mediante una formale opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., in relazione alla quale il giudice abbia dichiarato di volersi pronunziare, il provvedimento sommario di provvisorio arresto del corso del processo esecutivo, che resta perciò pendente, è impugnabile con il reclamo ai sensi dell’art. 624 c.p.c.. Al fine di distinguere tra le due ipotesi deve ritenersi decisivo indice della natura definitiva del provvedimento la circostanza che con esso sia disposta (espressamente, o quanto meno implicitamente, ma inequivocabilmente) la liberazione dei beni pignorati. In entrambi i casi, quando è stata proposta una opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., il giudice dell’esecuzione, con il provvedimento che sospende o chiude il processo, deve contestualmente fissare il termine per l’instaurazione della fase di merito del giudizio di opposizione (salvo che l’opponente stesso vi rinunzi) e, in mancanza, sarà possibile per la parte interessata chiedere l’integrazione del provvedimento ai sensi dell’art. 289 c.p.c., ovvero procedere direttamente alla instaurazione del suddetto giudizio di merito (Cass. n. 22033/2011 e successive conformi). Peraltro, solo se il processo esecutivo non è stato definito, ma resta pendente, è eventualmente possibile, all’esito dell’opposizione, la riassunzione dell’esecuzione. Se, invece, il processo esecutivo è stato definito con liberazione dei beni pignorati e non vi è stata opposizione accolta agli atti esecutivi, il giudicato sull’opposizione all’esecuzione potrà fare stato tra le parti solo ai fini di futuri eventuali nuovi processi, ma non sarà possibile la riassunzione dell’esecuzione, definitivamente chiusa.
Così si è espressa la Cassazione civile, sez. VI, con ordinanza n. 4961 del 20 Febbraio 2019, Pres. De Stefano – Rel. Tatangelo.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –
Dott. CIGNA Mario – Consigliere –
Dott. RUBINO Lina – Consigliere –
Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –
Dott. TATANGELO Augusto – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al numero (omissis) del ruolo generale dell’anno 2016, proposto da:
CREDITORE
– RICORRENTE –
nei confronti di
DEBITORE
– INTIMATO-
per la cassazione della sentenza del Tribunale di Foggia n. omissis/2015, depositata in data 28 ottobre 2015 (e notificata in data 23 novembre 2015);
udita la relazione sulla causa svolta nella camera di consiglio in data 13 dicembre 2018 dal consigliere Tatangelo Augusto.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
DEBITORE ha proposto opposizione agli atti esecutivi, ai sensi dell’art. 617 c.p.c., avverso il provvedimento con il quale il giudice dell’esecuzione del Tribunale di Foggia ha dichiarato improcedibile l’esecuzione forzata di un titolo giudiziale (sentenza) da essa promossa (nelle forme dell’espropriazione di crediti presso terzi) nei confronti del CREDITORE, ritenendo estinto il credito fatto valere e disponendo la liberazione delle somme pignorate.
L’opposizione è stata accolta dal Tribunale di Foggia, che ha dichiarato nulla l’ordinanza impugnata e ha condannato il CREDITORE al pagamento delle spese e competenze del processo esecutivo, per Euro 942,13, oltre accessori, nonché alle spese del giudizio di opposizione, liquidate in Euro 4.600,00 per onorario ed Euro 141,00 per esborsi, oltre accessori.
Ricorre il CREDITORE, sulla base di tre motivi.
L’intimata ha depositato memoria di costituzione datata 21 luglio 2017.
Il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375, 376 e 380 bis c.p.c., in quanto ritenuto destinato ad essere accolto.
MOTIVI DELLA DECISIONE
- Va in primo luogo dichiarata inammissibile la memoria scritta depositata dalla parte intimata (in cui comunque non si prospettano questioni altrimenti rilevabili di ufficio diverse da quelle di cui appresso), al di fuori dei termini perentori fissati per la notificazione ed il deposito del controricorso ai sensi dell’art. 370 c.p.c..
Nel giudizio di Cassazione il contraddittorio si instaura – ed al contempo si tutela – con la notificazione alla controparte di un controricorso (tra le altre: Cass. Sez. 1, Sentenza n. 3218 del 03/04/1987, Rv. 452281 – 01; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 19570 del 30/09/2015, Rv. 636971 – 01), entro il termine rigorosamente stabilito dall’art. 370 c.p.c.; nè può giovarsi l’intimata (v. già, in tal senso: Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 24835 del 20/10/2017, Rv. 645928 – 01, e n. 24837 del 20/10/2017) di interpretazioni di tutela del diritto di difesa della parte intimata indotte dall’entrata in vigore della riforma di cui alla L. n. 197 del 2016, visto che comunque, essendo questa entrata in vigore quando ancora ella avrebbe avuto la possibilità di ottemperare al disposto dell’art. 370 c.p.c., sarebbe stato suo onere dapprima notificare il controricorso, quand’anche tardivamente, per potere poi ancora interloquire in vista dell’adunanza camerale non partecipata con la memoria prevista dall’art. 380 bis c.p.c. (a contrario: Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 13093 del 24/05/2017, Rv. 644387 – 01).
- Con il PRIMO MOTIVO del ricorso si denunzia “violazione degli artt. 616, 617 e 618 c.p.c. in relazione all’art. 289 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4)“.
Il motivo è in parte inammissibile ed in parte manifestamente infondato, come già ritenuto da questa Corte in fattispecie analoghe (Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 13108 del 24/05/2017, Rv. 644389 – 01; Sez. 6 – 3, Ordinanze nn. 14332, 14333 e 14334 del 08/06/2017; Sez. 6 – 3, Ordinanze nn. 15282 e 15283 del 20/06/2017; Sez. 6 – 3, Ordinanze nn. 15605, Rv. 644810 – 01, e 15606 del 22/06/2017; conf., sul principio di diritto: Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 10946 del 08/05/2018, Rv. 648877 – 01), in cui sono stati affermati i seguenti principi di diritto:
“Nei casi in cui il giudice dell’esecuzione dichiari l’improcedibilità (o l’estinzione cd. atipica, o comunque adotti altro provvedimento di definizione) della procedura esecutiva in base al rilievo della mancanza originaria o sopravvenuta del titolo esecutivo o della sua inefficacia, il provvedimento adottato in via nè sommaria nè provvisoria, a definitiva chiusura della procedura esecutiva, è impugnabile esclusivamente con l’opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell’art. 617 c.p.c.; diversamente, se adottato in seguito a contestazioni del debitore prospettate mediante una formale opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., in relazione alla quale il giudice abbia dichiarato di volersi pronunziare, il provvedimento sommario di provvisorio arresto del corso del processo esecutivo, che resta perciò pendente, è impugnabile con il reclamo ai sensi dell’art. 624 c.p.c.. Al fine di distinguere tra le due ipotesi deve ritenersi decisivo indice della natura definitiva del provvedimento la circostanza che con esso sia disposta (espressamente, o quanto meno implicitamente, ma inequivocabilmente) la liberazione dei beni pignorati. In entrambi i casi, quando è stata proposta una opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., il giudice dell’esecuzione, con il provvedimento che sospende o chiude il processo, deve contestualmente fissare il termine per l’instaurazione della fase di merito del giudizio di opposizione (salvo che l’opponente stesso vi rinunzi) e, in mancanza, sarà possibile per la parte interessata chiedere l’integrazione del provvedimento ai sensi dell’art. 289 c.p.c., ovvero procedere direttamente alla instaurazione del suddetto giudizio di merito (Cass. n. 22033/2011 e successive conformi). Peraltro, solo se il processo esecutivo non è stato definito, ma resta pendente, è eventualmente possibile, all’esito dell’opposizione, la riassunzione dell’esecuzione. Se, invece, il processo esecutivo è stato definito con liberazione dei beni pignorati e non vi è stata opposizione accolta agli atti esecutivi, il giudicato sull’opposizione all’esecuzione potrà fare stato tra le parti solo ai fini di futuri eventuali nuovi processi, ma non sarà possibile la riassunzione dell’esecuzione, definitivamente chiusa”.
Alla luce dei principi sopra esposti, nel caso di specie va in primo luogo rilevata l’inammissibilità del motivo di ricorso in esame, per difetto di specificità, ai sensi dell’art. 366, c.p.c. comma 1, n. 6, nella parte in cui esso non richiama espressamente il contenuto dell’atto di opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c. che, a dire dell’istituto ricorrente, esso avrebbe avanzato nel corso del processo esecutivo, nonché quello del provvedimento del giudice dell’esecuzione, nella parte in cui abbia eventualmente manifestato l’intenzione di provvedere esclusivamente in ordine a tale ricorso, senza esercitare i propri poteri officiosi di rilievo del difetto del titolo esecutivo.
Il motivo di ricorso è comunque manifestamente infondato, in quanto l’avvenuta liberazione del beni pignorati (espressamente disposta dal giudice dell’esecuzione, secondo quanto dichiarato dallo stesso istituto ricorrente: cfr. pag. 5 del ricorso), è indice inequivocabile ed incontrastabile della definitività del provvedimento impugnato, della cui assoggettabilità all’opposizione agli atti esecutivi, ai sensi dell’art. 617 c.p.c., non può quindi dubitarsi.
- Con il SECONDO MOTIVO del ricorso si denunzia “violazione o falsa applicazione dell’art. 480 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)“. Il motivo è inammissibile, per difetto di specificità, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6.
Risulta dagli atti che, prima della notificazione dell’atto di precetto, l’INPS aveva provveduto al pagamento delle somme portate dal titolo esecutivo (nella specie costituito da sentenza di condanna al pagamento delle spese di un precedente giudizio, distratte in favore del procuratore costituito della parte ai sensi dell’art. 93 c.p.c.), oltre a spese successive per Euro 113,37, e che la omissis ha intimato precetto per ottenere il pagamento del residuo importo di Euro 281,29 a titolo di spese successive, non coperto dalla cifra a tal fine corrisposta dall’istituto.
Il Tribunale – contrariamente a quanto statuito dal giudice dell’esecuzione – ha ritenuto legittima l’intimazione del pagamento di tali ulteriori spese.
Nel ricorso, peraltro, l’istituto ricorrente non specifica né quali siano le spese successive alla formazione del titolo riconosciute e pagate prima dell’intimazione, né quali siano le spese di cui la creditrice ha intimato il pagamento. La trascrizione dell’atto di precetto risulta sul punto incompleta: il ricorrente omette di trascriverne in ricorso i decisivi passaggi nei quali la creditrice, dopo avere dato atto dei pagamenti parziali ricevuti, doveva verosimilmente avere indicato i motivi per i quali non li riteneva satisfattivi e si era indotta ad intimare il pagamento di ulteriori somme.
Di conseguenza, la tecnica o modalità di redazione del ricorso priva questa Corte della stessa possibilità di esaminare la fondatezza della doglianza in rapporto alla ratio decidendi della sentenza impugnata, che si incentra sostanzialmente sul carattere non esaustivo dei pagamenti effettuati dall’istituto intimato e riconosciuti dalla precettante (ratio decidendi che fonda la reiezione dell’analoga censura avanzata dall’istituto ricorrente in sede esecutiva e che è stata riconosciuta fondata in quella stessa sede dal giudice dell’esecuzione col provvedimento oggetto dell’opposizione agli atti esecutivi definita con la sentenza oggi gravata).
Poiché il ricorso sul punto difetto di specificità, non è consentito alla Corte di pervenire all’esame nel merito del secondo motivo.
- Con il TERZO MOTIVO del ricorso si denunzia “violazione o falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 91 c.p.c. e del D.M. n. 55 del 2014, art. 4 (art. 360 c.p.c., n. 3)”.
Il motivo è manifestamente fondato.
La liquidazione dell’importo di Euro 4.600,00 a titolo di onorario di avvocato, per una causa il cui valore era inferiore ad Euro 1.100,00 (considerato che l’importo precettato ammontava ad Euro 281,29) risulta certamente violare i valori massimi previsti dal D.M. n. 55 del 2014.
La pronuncia impugnata va pertanto cassata con riguardo al capo relativo alla liquidazione delle spese di lite, la cui regolazione andrà nuovamente effettuata in sede di rinvio, e in ogni caso mantenuta nell’ambito dei valori previsti dal suddetto decreto ministeriale.
5.Il primo motivo del ricorso è rigettato, il secondo è dichiarato inammissibile, mentre è accolto il terzo motivo.
La sentenza impugnata è cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio al Tribunale di Foggia, in persona di diverso magistrato, anche per le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte:
– rigetta il primo motivo del ricorso; dichiara inammissibile il secondo; accoglie il terzo e cassa in relazione la sentenza impugnata, con rinvio al Tribunale di Foggia, in persona di diverso magistrato, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 13 dicembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2019
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