Provvedimento segnalato dall’Avv. Domenica Onofrio
Nel processo tributario ai fini della valutazione delle prove, ai sensi dell’art.116 cpc, il giudice tiene conto del comportamento, anche extraprocessuale, delle parti.
Tale comportamento può costituire, non solo elemento di valutazione delle risultanze acquisite, ma anche unica e sufficiente fonte di prova idonea a sorreggere la decisione del giudice di merito che, con riguardo a tale valutazione, è censurabile nel giudizio di legittimità solo sotto il profilo della logicità della motivazione.
Il contribuente che ha presentato istanza di rimborso non può distruggere la documentazione contabile in suo possesso, anche se sia scaduto il termine decennale di conservazione delle scritture di cui all’art.2220 cc., ostandovi il diritto dell’amministrazione finanziaria di provare la eventuale traslazione dell’imposta (impeditiva del diritto al rimborso): un tale comportamento si porrebbe, pertanto, in contrasto con il dovere di lealtà e probità di cui all’art. 88 cpc e da esso il giudice ben potrebbe desumere argomenti di prova ex art.116 cpc, comma 2.
IL COMMENTO
Il contribuente ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale, che aveva rigettato l’appello e confermato la legittimità dell’avviso di rettifica dell’IVA, con relativi interessi e sanzioni, emesso dall’Amministrazione finanziaria.
L’Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso.
Il contribuente ha eccepito l’inutilizzabilità nel processo tributario delle prove assunte in violazione degli artt. 52 e 63 D.P.R. n. 633 del 1972, che regolano in materia di IVA l’attribuzione e l’esercizio dei poteri istruttori.
Sul punto la Cassazione, con la sentenza in esame ha ribadito che in tema di accertamento dell’IVA e delle imposte sui redditi, l’autorizzazione del procuratore della Repubblica per l’apertura di pieghi sigillati, borse, casseforti e simili, prevista dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52, comma 3, è necessaria solamente nel caso di accesso disposto dagli uffici delle imposte (o eseguito, anche di propria iniziativa, dalla Guardia di finanza nell’esercizio di attività di polizia tributaria), ma non anche nel caso di perquisizione domiciliare già autorizzata dall’autorità giudiziaria, essendo evidente che l’autorizzazione alla perquisizione domiciliare è comprensiva di ogni attività strumentale necessaria per l’acquisizione delle prove.
Chiarita la legittimità e quindi l’utilizzabilità del prove così assunte, la Corte stabilisce che il giudice tributario può porre a fondamento della sua decisione ai sensi dell’art. 116 cpc, il comportamento, anche extraprocessuale, delle parti.
Tale comportamento può costituire, non solo elemento di valutazione delle risultanze acquisite, ma anche unica e sufficiente fonte di prova idonea a sorreggere la decisione del giudice di merito.
LA SENTENZA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
SOCIETA’ BETA
RICORRENTE
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE,
CONTRORICORRENTE
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Toscana n. 42/26/06, depositata il 24 ottobre 2006;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. La SOCIETA’ BETA in liquidazione, operante nel campo della lavorazione e del commercio di metalli preziosi, ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di sei motivi, avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Toscana indicata in epigrafe, con la quale, rigettando l’appello della contribuente, è stata confermata la legittimità dell’avviso di rettifica dell’IVA, con relativi interessi e sanzioni, emesso nei suoi confronti in relazione all’anno 1996; in particolare, l’atto aveva accertato varie ipotesi di omessa fatturazione di operazioni imponibili e di omessa regolarizzazione di acquisti non fatturati e traeva origine da una verifica eseguita dalla Guardia di finanza, con perquisizioni anche domiciliari ed acquisizione di documentazione extracontabile.
Il giudice a quo ha ritenuto, in sintesi, che fosse legittimamente acquisito, e quindi utilizzabile, il materiale informatico trasmesso dalla Guardia di finanza, previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria, come risultato di attività di polizia giudiziaria; che dovessero ritenersi valide ed attendibili, pur nella impossibilità di effettuare consulenza tecnica a causa del comportamento di un socio (valutabile ai sensi dell’art. 116 c.p.c.) che aveva distrutto i materiali originali, le operazioni di trascrizione, da parte della Guardia di finanza, dei dati informatici dai quali erano emerse le violazioni contestate; che, infine, non fosse applicabile il principio deìfavor rei in relazione al sopravvenuto D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 6, comma 8, ed alla abrogazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 41, in tema di sanzioni per omessa regolarizzazione di acquisti senza fattura.
2. L’Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso.
3. All’esito dell’udienza pubblica dell’11 dicembre 2009, per la quale il ricorso era stato originariamente fissato, la Corte ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni unite in relazione alla questione della natura, sanzionatoria o meno, dell’obbligo di pagamento dell’imposta prescritto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 41 cit., comma 6.
Con sentenza n. 26126 del 2010, le Sezioni unite, affermata la natura di sanzione dell’obbligo predetto, hanno accolto il sesto motivo di ricorso, cassato la sentenza impugnata in relazione a tale motivo e rimesso il ricorso a questa sezione per le statuizioni conseguenti al detto accoglimento e per la decisione sugli altri motivi.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il PRIMO MOTIVO di ricorso, con il quale si denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, commi 2 e 3, art. 63, comma 1, e art. 75, comma 1, nonchè dell’art. 247 c.p.p. e art. 268 c.p.p., comma 7, si conclude con un complesso quesito di diritto con cui si chiede a questa Corte di stabilire che: a) in forza del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 3, è in ogni caso necessaria – a pena di illegittimità ed inutilizzabilità degli elementi di prova – un’apposita e specifica autorizzazione del Procuratore della Repubblica o dell’autorità giudiziaria più vicina per procedere durante l’accesso a perquisizioni personali e all’apertura coattiva di pieghi sigillati, borse, casseforti, mobili, ripostigli e simili; b) in forza del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 63, comma 1, secondo periodo, l’autorità giudiziaria può autorizzare l’utilizzo e la trasmissione agli Uffici esclusivamente di documenti, dati e notizie perfettamente intelligibili, venendo meno altrimenti la possibilità per l’autorità medesima di effettuare le necessarie valutazioni sull’opportunità del rilascio dell’autorizzazione medesima in chiave di tutela del segreto istruttorio; c) il giudice tributario non può utilizzare ai fini della decisione prove che siano state illegittimamente assunte: in particolare, i dati e le notizie acquisiti dagli organi competenti nelle vesti di polizia giudiziaria, poi fatti valere dall’Amministrazione finanziaria previa autorizzazione del p.m., sono utilizzabili nel processo tributario solo a condizione che tale acquisizione non sia avvenuta in violazione delle relative disposizioni del codice di procedura penale e/o di quelle del D.P.R. n. 633 del 1972 (artt. 52 e ss.) che regolano in materia di IVA l’attribuzione e l’esercizio dei poteri istruttori; d) in base al combinato disposto del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 75 e dell’art. 268 c.p.p., comma 7, e art. 242 c.p.p., quando è acquisito un nastro magnetofonico, l’autorità giudiziaria dispone, se necessario, la trascrizione integrale delle registrazioni ovvero la stampa in forma intelligibile delle informazioni contenute nei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche da acquisire, osservando le forme, i modi e le garanzie previsti per l’espletamento delle perizie.
Il motivo è infondato.
E’ pacifico nella fattispecie che il materiale acquisito, consistente essenzialmente in supporti informatici (nastri magnetici), venne rinvenuto nel corso di perquisizione domiciliare disposta dal procuratore della Repubblica nell’ambito di un procedimento penale ed effettuata, quindi, dalla Guardia di finanza nell’esercizio di attività di polizia giudiziaria, e che l’utilizzazione a fini fiscali e la trasmissione agli uffici tributali del materiale medesimo furono previamente autorizzate dall’autorità giudiziaria ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 63.
Da ciò consegue l’applicazione dei seguenti consolidati principi.
A) In tema di accertamento dell’IVA e delle imposte sui redditi, l’autorizzazione del procuratore della Repubblica per l’apertura di pieghi sigillati, borse, casseforti e simili, prevista dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52, comma 3, è necessaria solamente nel caso di accesso disposto dagli uffici delle imposte (o eseguito, anche di propria iniziativa, dalla Guardia di finanza nell’esercizio di attività di polizia tributaria), ma non anche nel caso di perquisizione domiciliare già autorizzata dall’autorità giudiziaria, essendo evidente che l’autorizzazione alla perquisizione domiciliare è comprensiva di ogni attività strumentale necessaria per l’acquisizione delle prove (Cass. nn. 14058 del 2006, 739 del 2010 – quest’ultima resa in controversia tra le stesse parti del presente ricorso -).
B) L’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, richiesta dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 63, comma 1, per la trasmissione, agli uffici delle imposte, dei documenti, dati e notizie acquisiti dalla Guardia di finanza nell’ambito di un procedimento penale, è posta a tutela della riservatezza delle indagini penali, non dei soggetti coinvolti nel procedimento medesimo o di terzi, con la conseguenza che anche la sua eventuale mancanza (ipotesi nella specie comunque insussistente), se può avere riflessi disciplinari a carico del trasgressore, non tocca l’efficacia probatoria dei dati trasmessi, nè implica l’invalidità dell’atto impositivo adottato sulla scorta degli stessi; l’autorizzazione in parola è stata infatti introdotta per realizzare una maggiore tutela degli interessi protetti dal segreto istruttorio, piuttosto che per filtrare ulteriormente l’acquisizione di elementi significativi a fini fiscali (Cass. nn. 28695 del 2005, 22035 del 2006, 2450 e 11203 del 2007, 27947 del 2009).
C) Le indagini svolte, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 33, o D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 52 e 63, dalla Guardia di finanza che, cooperando con gli uffici finanziari, proceda ad ispezioni, verifiche, ricerche ed acquisizione di notizie, hanno carattere amministrativo (e pertanto riguardo ad esse non è invocabile l’art. 24 Cost.) e vanno quindi considerate distintamente dalle indagini che la stessa Guardia di finanza conduce in veste di polizia giudiziaria, dirette all’accertamento dei reati, con l’osservanza di tutte le prescrizioni dettate dal codice di procedura penale a tutela dei diritti inviolabili dell’indagato: la mancata osservanza di tali prescrizioni, rilevante al fine della possibilità di utilizzare in sede penale i risultati dell’indagine, non incide – purchè non siano violate le dette disposizioni del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 33 e 52 e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 63 – sul potere degli uffici finanziari e del giudice tributario di avvalersene a fini meramente fiscali (Cass. nn. 8990 del 2007, 29385 del 2008, 18077 e 22984 del 2010).
D) Va, infine, per completezza, ribadito che non qualsiasi irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale comporta, di per sè, l’inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso, ed esclusi, ovviamente, i casi in cui viene in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale (l’inviolabilità della libertà personale, del domicilio, ecc.) (Cass. nn. 8344 del 2001, 1543 del 2003, 19689 del 2004,14058 del 2006).
2. Con il SECONDO MOTIVO si denuncia la violazione dell’art. 116 c.p.c., comma 2, e art. 88 c.p.c., in combinato disposto con il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, dell’art. 2697 c.c. e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 5, nonchè vizio di motivazione.
Si chiede di stabilire che: a) ai fini del processo tributario, non costituiscono violazione del dovere di lealtà e probità ex art. 88 c.p.c. nè contegni valutabili come argomenti di prova ex art. 116 c.p.c., quei comportamenti del contribuente che costituiscano legittimo esercizio del diritto di difesa ex art. 24 Cost., o che comunque rientrino nelle condotte indicate nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 5, sanzionate unicamente con l’inutilizzabilità a favore del contribuente dei documenti sottratti o non esibiti, o che non siano scientemente preordinati alla dispersione della prova o, comunque, non ne siano primariamente responsabili, essendo questa imputabile piuttosto alla negligenza dell’autorità procedente; b) in ogni caso, gli eventuali comportamenti del contribuente valutabili ai sensi dell’art. 116 c.p.c., comma 2, non possono da soli giustificare una sentenza favorevole all’Amministrazione finanziaria, dovendo piuttosto essere valutati congiuntamente a tutte le risultanze istruttorie e non potendo in alcun modo sollevare detta Amministrazione dall’onere della prova ex art. 2697 c.c. in ordine ai fatti costituivi della pretesa impositiva.
In relazione alla censura di vizio di motivazione, si precisa che questa è omessa in ordine all’assunto che la distruzione dei nastri magnetici da parte del contribuente sia stata scientemente preordinata ad impedire la valutazione dei dati extracontabili, e ciò nonostante che, al momento di tale distruzione, la perizia non fosse stata disposta dal giudice e, comunque, la Guardia di finanza avesse già estratto copia del relativo contenuto.
Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.
Il giudice di merito, come detto in narrativa, ha ritenuto di desumere argomenti di prova, ai fini della formazione del proprio convincimento in ordine alla fondatezza della pretesa fiscale, dal comportamento tenuto da un socio della ricorrente, il quale, nel corso del processo tributario e dopo il dissequestro da parte dell’autorità giudiziaria, aveva distrutto i materiali informatici originali, pur nella consapevolezza che essi avrebbero dovuto formare oggetto di accertamento peritale, così rendendolo impossibile, in violazione del dovere di lealtà processuale di cui all’art. 88 cod. proc. civ. (peraltro, ha aggiunto il giudice a quo, l’operazione di trascrizione dei nastri magnetici era stata eseguita alla presenza dell’amministratore della società e del suo difensore, i quali avevano attestato nel verbale l’assenza di alterazioni o manipolazioni).
In punto di diritto, va al riguardo affermato che, anche in materia di contenzioso tributario, il comportamento, anche extraprocessuale, delle parti può costituire, ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ., non solo elemento di valutazione delle risultanze acquisite, ma anche unica e sufficiente fonte di prova idonea a sorreggere la decisione del giudice di merito che, con riguardo a tale valutazione, è censurabile nel giudizio di cassazione solo sotto il profilo della logicità della motivazione (cfr., in generale, Cass. nn. 3822 del 1995, 10268 del 2002, 14748 del 2007). La sentenza n. 4080 del 1998, citata dalla ricorrente, ribadisce in realtà tale principio, là dove afferma che, dopo la presentazione di istanza di rimborso di indebito comunitario ai sensi della L. n. 428 del 1990, art. 29, il contribuente non può distruggere la documentazione contabile in suo possesso, anche se sia scaduto il termine decennale di conservazione delle scritture di cui all’art. 2220 cod. civ., ostandovi il diritto dell’amministrazione finanziaria di provare la eventuale traslazione dell’imposta (impeditiva del diritto al rimborso): un tale comportamento si porrebbe, pertanto, in contrasto con il dovere di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c. e da esso il giudice ben potrebbe desumere argomenti di prova ex art. 116 c.p.c., comma 2.
Nè l’applicazione di detti principi può ritenersi preclusa, nella specie, dalla “sanzione” – prevista nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 5, – di inutilizzabilità a favore del contribuente della documentazione che questi abbia rifiutato di esibire in sede di verifica, trattandosi evidentemente di previsione avente una portata distinta e limitata, inidonea ad escludere l’operatività delle citate norme processuali generali.
Per il resto, la censura si rivela inammissibile, in presenza di una valutazione del giudice di merito congruamente motivata, come tale insindacabile in questa sede.
3. Con il TERZO MOTIVO (violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c. e vizio di motivazione), è denunciata l’omessa pronuncia, o l’omessa motivazione, in ordine al fatto che l’ufficio non aveva prodotto in giudizio la stampa originale dei dati extracontabili contenuti nei nastri magnetici.
Con il QUARTO MOTIVO (violazione dell’art. 112 c.p.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 54 in combinato disposto con gli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c. e vizio di motivazione), si censura la sentenza impugnata per omessa pronuncia, o omessa motivazione, sulla sufficienza dei dati extracontabili a dimostrare la presunta evasione (anche sotto il profilo della gravità, precisione e concordanza degli elementi presuntivi acquisiti) e sulle numerose circostanze (lettura apodittica e contraddittoria dei dati, andamento di altre aziende orafe nell’aretino, ecc.) che, invece, proverebbero l’insussistenza di detta evasione.
Il QUINTO MOTIVO (violazione dell’art. 112 c.p.c. e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, commi 3 e 5) denuncia omessa pronuncia in ordine a censure poste dalla contribuente con riferimento alla procedura di accertamento in rettifica seguita dall’Ufficio, asseritamente in violazione del richiamato D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54.
I motivi anzidetti si rivelano tutti inammissibili per difetto di autosufficienza, non essendo stati riportati nel ricorso i passaggi testuali dell’atto di appello nei quali le varie censure, delle quali si lamenta l’omesso esame da parte del giudice del gravame, erano state in tale sede formulate.
4. In conclusione, vanno rigettati il primo e il secondo motivo e dichiarati inammissibili il terzo, il quarto e il quinto.
Il SESTO ed ultimo MOTIVO, relativo alla mancata applicazione del principio del favor rei a seguito dell’abrogazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 41 ad opera del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 16, è stato accolto, come detto in narrativa, con sentenza delle Sezioni unite n. 26126 del 2010, la quale ha cassato sul punto la sentenza impugnata e rimesso la causa a questa sezione per le conseguenti statuizioni (decisione nel merito o rinvio): il Collegio non ritiene sussistenti le condizioni per una decisione nel merito in ordine alla questione di cui al motivo accolto, limitatamente alla quale, pertanto, la causa va rinviata ad altra sezione della Commissione tributaria regionale della Toscana, la quale si uniformerà al principio enunciato dalla citata pronuncia e provvederà in ordine alle spese anche del presente giudizio di legittimità
PQM
La Corte rigetta il primo e il secondo motivo di ricorso e dichiara inammissibili il terzo, il quarto e il quinto.
In relazione al sesto motivo, già accolto, con conseguente cassazione in parte qua della sentenza impugnata, con la sentenza delle Sezioni unite di questa Corte n. 26126 del 2010, rinvia la causa, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale della Toscana.
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