Nei procedimenti pendenti innanzi la Corte di Cassazione l’oggetto del controllo di legittimità sulla motivazione deve avere ad oggetto la giustificazione della decisione di merito e non la vicenda giudiziale nel suo complesso. Invero, in sede di legittimità, il controllo della motivazione in fatto si incentra nel verificare che il discorso giustificativo svolto dal giudice circa la propria statuizione abbia i requisiti strutturali minimi dell’argomentazione: fatto probatorio – massima di esperienza – fatto accertato, senza che sia consentito alla Corte sostituire una diversa massima di esperienza a quella utilizzata, o confrontare la sentenza impugnata con le risultanze istruttorie, al fine di prendere in considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione.
Il vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione.
IL CASO
MEVIO, ex coniuge, proponeva appello avverso la sentenza di primo grado, chiedendo l’attribuzione dell’assegno divorzile nei confronti dell’ex coniuge BIANCA.
La Corte di appello rigettava la domanda.
Avverso la predetta sentenza MEVIO proponeva ricorso per cassazione lamentando, violazione e/o falsa applicazione della Legge 1 dicembre 1970, n.8985, art.5, comma 6, nel testo modificato dalla Legge 6 marzo 1987, n.74; omessa e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio, relativo all’esclusione del reddito conseguito dal marito in costanza di matrimonio (art.360 cpc nn.3 e 5).
In particolare il ricorrente, deduceva che la Corte di merito aveva escluso dalle disponibilità reddituali della coppia, durante il periodo matrimoniale, i “massicci interventi” della madre della moglie, perché non rispondenti ad un obbligo legale e, che la Corte di merito non avrebbe spiegato perché il reddito tratto dal ricorrente dalla propria attività in una palestra non doveva essere considerato al fine del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
LA DECISIONE
La Corte ha accolto il ricorso e per l’effetto ha cassato la sentenza impugnata rinviando alla Corte di appello in diversa composizione per nuovo esame e per il regolamento delle spese.
La Corte ha preliminarmente richiamato il principio di diritto, consolidato dalla giurisprudenza dominante secondo cui, il presupposto per l’attribuzione dell’assegno di divorzio è la mancata disponibilità da parte del soggetto istante di adeguati redditi propri, idonei ad assicurare il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso. Il Giudice del merito, al fine di stabilire l’an ed il quantum dell’assegno, deve quindi tenere conto della situazione reddituale al momento della cessazione della convivenza, da cui ricavare, in via presuntiva, qual era il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio utilizzando quale parametro di valutazione la documentazione attestante i redditi.
Quanto ai vizi motivazionali contestati la Corte, dopo aver analizzato le osservazioni effettuate dal Giudice di sul “tenore di vita della coppia può agire quale elemento utile allorquando lo stesso sia coerente con le capacità reddituali della coppia. Nel caso di specie il godimento da parte dei coniugi di una villa per abitazione, i viaggi dagli stessi fatti e la stessa vita conviviale con amici nei fine settimana non possono, ragionevolmente, essere assunti ad indici di un tenore di vita in quanto pacificamente non alimentato, almeno soltanto, dai redditi della coppia, ma frutto di massicci interventi della madre dell’ex moglie e dunque non valorizzabili per il calcolo delle capacità reddituali della coppia. Per quanto concerne i redditi attualmente percepiti dalle parti deve negarsi una apprezzabile sperequazione, continuando l’appellato a percepire la retribuzione di insegnante ed essendo molto modesti i redditi da partecipazioni azionarie dell’appellante, a torto ritenuti inattendibili dal primo giudice, attesa le note incidenze sulle imprese conciarie della concorrenza di paesi extracomunitari e della nota, persistente situazione di depressione congiunturale” ha sottolineato che l’oggetto del controllo di legittimità sulla motivazione concerne solo ed unicamente la giustificazione della decisione di merito e non la vicenda giudiziale nel suo complesso.
Invero, è stato da tempo chiarito dalla giurisprudenza che in sede di legittimità il controllo della motivazione in fatto si compendia nel verificare che il discorso giustificativo svolto dal giudice del merito circa la propria statuizione esibisca i requisiti strutturali minimi dell’argomentazione (fatto probatorio – massima di esperienza – fatto accertato) senza che sia consentito alla Corte sostituire una diversa massima di esperienza a quella utilizzata, o confrontare la sentenza impugnata con le risultanze istruttorie, al fine di prendere in considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione.
Nel caso di specie, le censure relative alla stabilità delle elargizioni e il reddito sono risultate inammissibili essendo le stesse versate e provate in fatto.
Quanto alle censure relative agli immobili, alle partecipazioni e agli utili societari la Corte ha osservato la fondatezza della censura relativa al vizio di motivazione.
Invero, il vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione.
In particolare, in base al combinato disposto dell’art.132 cpc, comma 1, n. 4, e art.360 cpc, comma 1, n.5, il giudice di appello, a fronte di una qualsiasi doglianza ritualmente formulata contro la decisione di primo grado, ha il dovere di riesaminare la questione oggetto della doglianza e di esporre le ragioni che lo inducono a confermare o a riformare la decisione stessa, con la conseguenza che se, da un lato, deve ritenersi affetta dal vizio di motivazione la pronuncia che si limita a condividere, senza esporre alcuna altra argomentazione, la decisione emessa dal primo giudice, altrettanto viziata è la motivazione allorquando il giudice di appello ritenga di non condividere le valutazioni del primo giudice senza fornire un’adeguata giustificazione del diverso apprezzamento degli elementi di prova.
Nella concreta fattispecie la Corte di appello da un lato, ha omesso qualsiasi valutazione dei cespiti immobiliari e delle partecipazioni societarie della di cui, invece, il Tribunale aveva tenuto conto, e, dall’altro, con motivazione quasi apparente (perchè riferita a presunti fatti notori) ha del tutto omesso di spiegare la ritenuta attendibilità dei redditi dichiarati dalla BIANCA, nonostante il Tribunale avesse evidenziato che quest’ultima non poteva percepire un reddito pari o di poco superiore a quello di un operaio dipendente della stessa società.
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