Nel regime originario della legge fallimentare, il deposito delle somme fatto dalla procedura veniva a innestare un rapporto contrattuale in modo diretto tra il creditore, non presentato o irreperibile, e l’istituto depositario. La “quietanza” rispondeva, quindi, al “pagamento” posto in essere dalla procedura a mezzo deposito liberatorio con la medesima forza effettuale, cioè, di cui è dotato il deposito previsto dall’art. 1210 c.c. Nel regime poi sostituito dalla riforma del 2006, le somme rimaste non riscosse non fanno più parte della massa attiva del fallimento, né sono più nella disponibilità degli organi della procedura perché non sono più, prima di ogni altra cosa, di proprietà del debitore ex-fallito.
Questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione, I sez. civ., Pres. Di Virgilio – Rel. Dolmetta, con l’ordinanza n. 5618 del 28 febbraio 2020.
Nello specifico la Corte ha confermato la decisione cui era pervenuto il Tribunale che aveva affermato che la disciplina dettata dalla L. n. 181 del 2008, art. 2, comma 2, intitolata “Fondo unico di giustizia”, aveva giustamente comportato il venir meno del diritto dei creditori irreperibili alla corresponsione delle somme loro destinate, come depositate ai sensi dell’art. 117, terzo comma, nella versione ante 2006, L.F., e la conseguente automatica apprensione delle stesse al bilancio dello Stato a prescindere dal decorso dell’ordinario termine di prescrizione decennale del diritto di quelli stessi creditori.
L’art. 117, comma 3, l. fall., nella formulazione ante riforma 2006, stabiliva che “per i creditori che non si presentano o sono irreperibili la somma dovuta è depositata presso un istituto di credito. Il certificato di deposito vale quietanza”. L’attuale formulazione, al comma 4, invece, prevede che “per i creditori che non si presentano o sono irreperibili le somme dovute sono nuovamente depositate presso l’ufficio postale o la banca già indicati ai sensi dell’articolo 34. Decorsi cinque anni dal deposito, le somme non riscosse dagli aventi diritto e i relativi interessi, se non richieste da altri creditori, rimasti insoddisfatti, sono versate a cura del depositario all’entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnate, con decreti del Ministro dell’economia e delle finanze, ad apposita unità previsionale di base dello stato di previsione del Ministero della giustizia”.
Il senso normativo dell’ultimo periodo, terzo comma, dell’art.117 L.F., nella versione anteriore alla riforma del 2006, laddove disponeva “il certificato di deposito vale quietanza”, non poteva che sottintendere che l’avvenuto deposito presso l’istituto designato valeva come distribuzione delle somme ai singoli creditori quando questi non si fossero presentati ovvero fossero rimasti irreperibili, vale a dire che il deposito delle somme non potute assegnare da parte della procedura fallimentare veniva ad innestare un rapporto contrattuale diretto tra i creditori, non presentatisi o irreperibili, e l’istituto depositario avente la medesima forza liberatoria di cui al deposito previsto dall’art. 1210 c.c., ragion per cui le somme rimaste non riscosse e depositate si doveva ritenere che non facessero più parte della massa attiva fallimentare e non fossero più nella disponibilità degli organi della procedura e, prima di ogni altra cosa, non nella disponibilità del debitore ex fallito.
Il riferimento alla quietanza, di cui al certificato di deposito, altro non può significare che l’avvenuto deposito presso l’istituto designato vale come distribuzione delle somme al creditore, quand’anche questi non si sia presentato ovvero sia rimasto irreperibile. Se il regime attuale ha un’ottica fermata sulla concorsualità tra i creditori del fallito, dunque, quello originario si concentrava invece sul rapporto sussistente tra fallito e singolo creditore.
Il deposito delle somme fatto dalla procedura veniva a innestare un rapporto contrattuale in modo diretto corrente tra il creditore – non presentato o irreperibile – e l’istituto depositario. La richiamata “quietanza” rispondeva, quindi, al “pagamento” posto in essere dalla procedura a mezzo deposito liberatorio (come sostanzialmente intestato al creditore che si è disperso): con la medesima forza effettuale, cioè, di cui è dotato il deposito previsto dalla norma dell’art. 1210 c.c..”.
Ne deriva che nel regime originario i) le somme rimaste non riscosse non facevano più parte della massa attiva del fallimento, né erano più nella disponibilità degli organi della procedura, in quanto non più di proprietà del debitore ex-fallito (cfr. art. 1210 c.c., comma 2: “eseguito il deposito… il debitore non può più ritirarlo ed è liberato dalla sua obbligazione”) e che, pertanto ii) un problema di (eventuale) rapporto tra diritto del creditore insoddisfatto e somme destinate ad altro creditore del comune debitore – come mediato, cioè, dalla responsabilità patrimoniale ex art. 2740 c.c., di quest’ultimo – non aveva proprio alcuno spazio per risultare proponibile.
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