L’interpretazione del titolo esecutivo giudiziale (nella specie, relativa alla portata del giudicato esterno di una sentenza definitiva di condanna al pagamento di una somma di denaro) compete al giudice dell’esecuzione e, in caso di opposizione ex art. 615 c.p.c., a quello dell’opposizione, che ne individua la portata precettiva sulla base del dispositivo e della motivazione; egli può ricorrere, ove il contenuto del titolo sia obbiettivamente ambiguo o incerto e ferma l’indeducibilità di motivi di contestazione nel merito delle statuizioni, anche ad elementi extratestuali, purché ritualmente acquisiti nel processo ed a condizione che non sovrapponga la propria valutazione in diritto a quella del giudice del merito.
In tema di opposizione all’esecuzione, il termine che, ai sensi dell’art. 616 c.p.c., il giudice dell’esecuzione deve assegnare alle parti, all’esito della fase sommaria, per introdurre il giudizio di merito o riassumerlo davanti all’ufficio giudiziario competente deve essere contenuto entro quelli minimo (un mese) e massimo (tre mesi) stabiliti dall’art. 307 c.p.c., comma 3. Nondimeno, qualora il giudice erroneamente assegni un termine maggiore, non incorre in decadenza la parte che introduca il giudizio oltre lo spirare dei tre mesi, ma entro il termine concretamente assegnatogli. Infatti, la legge che rimette al giudice di determinare un termine di decadenza entro un limite minimo e massimo non fissa essa stessa un termine perentorio, sostitutivo di quello giudiziario cui le parti debbano comunque attenersi.
Questi i principi espressi dalla Corte di Cassazione, III sez. civ., Pres. De Stefano – Rel. D’Arrigo, con la sentenza n. 10806 del 5 giugno 2020.
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