Il c.d. “decreto del fare” del 2013 ha previsto l’impignorabilità della “prima casa” ad opera del “Fisco”: il citato D.L. n. 69/2013 (convertito con modificazioni dalla Legge n. 98/2013) ha infatti modificato l’art. 76, comma 1, D.P.R. n. 602/1973 disciplinante l’esecuzione esattoriale.
Segnatamente, il Legislatore ha imposto all’esecuzione esattoriale dei limiti di ammontare al di sotto dei quali l’unico immobile posseduto dal debitore non può essere pignorato.
Il testo dell’art. 76, D.P.R. n. 602/1973, al primo comma, lett. a), prevede che l’Agente della riscossione non dà corso all’espropriazione se l’unico immobile di proprietà del debitore è adibito ad uso abitativo e lo stesso vi risiede anagraficamente.
Dunque, il bene immobile sarà impignorabile in tutti quei casi in cui ricorrano contestualmente i due presupposti e, seppur impropriamente definita “prima casa”, purché sia l’unico in proprietà dell’esecutando.
Tuttavia, a prescindere dalla sussistenza di tali requisiti, resta libera la pignorabilità di determinati immobili, qualificati di lusso o rientranti in determinate categorie (ad esempio i beni rientranti nella categoria A/9: castelli, palazzi di eminenti pregi artistici o storici).
La lett. b) del primo comma prevede invece che, nell’ipotesi in cui il debitore sia titolare di più immobili, si può procedere all’espropriazione immobiliare se l’importo complessivo del credito per cui procede supera centoventimila euro.
Al comma 2 è previsto, invece, che se il valore di base d’asta “dei beni” al netto delle passività ipotecarie già iscritte ed aventi priorità sul credito “erariale” sia inferiore al credito iscritto a ruolo, l’agente per la riscossione non procede comunque all’esecuzione immobiliare.
L’attuale riferimento “ai beni”, implica una valutazione dell’intero patrimonio immobiliare che, pertanto, deve avere un “valore netto” almeno pari a 120.000 Euro che rappresenta il credito minimo a partire dal quale l’Agente della riscossione potrà procedere al pignoramento immobiliare.
Questi i limiti prescritti dalla norma, valevoli, tuttavia, esclusivamente per il Fisco.
Quid iuris per gli altri creditori che intendano agire esecutivamente nei confronti del debitore che versi nell’ipotesi normativa contemplata a sua tutela dal Legislatore e che impedisce di fatto all’Erario di privare l’esecutando del suo bene?
Orbene, per gli altri creditori e, dunque, per le Banche, resta la ricorribilità allo strumento del pignoramento immobiliare ai sensi del codice di rito, con conseguente inapplicabilità dei vincoli espressamente posti a carico del solo Erario.
Tuttavia, lo scenario si “complica” rispetto alla possibilità contemplata dall’incipit dell’art. 76, D.P.R. n. 602/1973, al primo comma, lett. a), che fa salva la facoltà di intervento dell’Erario ai sensi dell’art. 499 del codice di procedura civile, nelle procedure esecutive avviate dagli altri creditori.
La possibilità riconosciuta al Fisco di concorrere con gli altri creditori reca con sé il seguente quesito: cosa accade se il creditore che ha avviato la procedura esecutiva (e quindi svincolato dall’obbligo dell’impignorabilità dell’unico immobile posseduto dal debitore o del patrimonio immobiliare il cui valore non superi i 120.000 Euro) rinunci alla procedura? Può l’Erario continuare l’azione esecutiva, al di fuori dei limiti imposti, neutralizzando così la portata normativa del dispositivo di cui all’art. 76?
Le Sezioni Unite della Cassazione, intervenute sulla vexata quaestio (Cass. 7 gennaio 2014, n. 61) hanno avuto modo di affermare che i creditori (sulla scorta di un titolo esecutivo) intervenuti in un’azione espropriativa si collocano in situazione paritetica ed i titoli esecutivi sono da considerarsi equipollenti e fungibili. L’ipotesi di “sopravvivenza” della sola azione esattoriale, se non venisse meno in seguito alla rinuncia/caducazione dell’istante originario, in assenza di altri procedenti, realizzerebbe proprio quella lesione che il Legislatore ha voluto impedire.
La tesi dell’estinzione della procedura è altresì coerente con la Cass. Sez. Unite n. 12310/2015 secondo la quale è imposto al Giudice di non limitarsi alla meccanica e formalistica applicazione di regole processuali astratte, ma di verificare sempre se l’interpretazione adottata sia necessaria ad assicurare nel caso concreto le garanzie fondamentali in funzione delle quali le norme oggetto di interpretazione sono state poste.
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