“Nel giudizio di appello – che non è un “novum iudicium” – la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso specifici motivi e tale specificità esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono. Ne consegue che, nell’atto di appello, ossia nell’atto che, fissando i limiti della controversia in sede di gravame consuma il diritto potestativo di impugnazione, alla parte volitiva deve sempre accompagnarsi, a pena di inammissibilità del gravame, rilevabile d’ufficio e non sanabile per effetto dell’attività difensiva della controparte, una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, al qual fine non è sufficiente che l’atto di appello consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate, ma è altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata”.
Ed ancora: “L’onere della specificazione dei motivi di appello – ai sensi dell’art. 342 c.p.c. – ha la duplice funzione di delimitare l’ambito della cognizione del giudice di appello e di consentire il puntuale e ragionato esame delle critiche mosse alla sentenza impugnata ed è assolto solo se l’atto di appello contiene articolate ragioni di doglianza su punti specifici della sentenza di primo grado.
L’art. 342 c.p.c., in particolare, richiede che siano sviluppate adeguate motivazioni critiche in ordine alla sentenza gravata, con la indicazione – per ciascuna delle ragioni esposte nella stessa a sostegno della decisione sul punto oggetto della doglianza dell’appellante – delle contrarie ragioni di fatto e di diritto giustificative della censura. La specificità dei motivi esige – anche quando la sentenza di primo grado sia censurata nella sua interezza – che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte a incrinare il fondamento logico giuridico delle prime, alla parte volitiva dell’appello dovendosi sempre accompagnare una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice” (Cass. 25.2.2014, n. 4437).
Significativa sul punto è pure Cass. 18.4.2012, n. 6069, secondo cui “l’appellante non può esaurire la sua ragione di doglianza nella reiterazione delle sue richieste e nell’affermazione che esse devono essere accolte in quanto meritevoli di accoglimento rispetto all’operata liquidazione ma ha l’onere di indicare specificamente gli errori di fatto e di diritto attribuibili alla sentenza in modo da contrapporre con sufficiente grado di specificità le proprie ragioni di censura alle ragioni poste dal giudice a base delle sue valutazioni”.
Recentemente sono intervenute sul punto anche le sezioni Unite della Cassazione, con sentenza n. 27199 del 16.11.2017, le quali hanno così sentenziato: “Gli artt. 342 e 434 cod. proc. civ., nel testo formulato dal decreto – legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, vanno interpretati nel senso che l’impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. Resta tuttavia escluso, in considerazione della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata, che l’atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali o che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado”.
Questo il principio espresso dalla Corte d’Appello di Napoli, Pres. Fusillo – Rel. De Paola, con la sentenza n. 1863 del 3 maggio 2022.
Nel caso di specie accadeva che, una società deduceva di aver svolto, per conto – e talvolta in nome – di una banca, attività di mediazione creditizia e, quale agente della stessa, attività finanziaria, sulla scorta di una serie di convenzioni con enti e ministeri, dando attuazione a forme di finanziamento in favore di dipendenti di tali Enti, denominate “delega di pagamento”.
L’odierna ricorrente faceva rilevare inoltre che la banca, sin dalle prime battute del rapporto contrattuale in oggetto, non rispettava gli impegni contrattuali assunti e le generali norme di correttezza e buona fede, tenendo un comportamento ostativo rispetto che svolgeva in esecuzione delle convenzioni stipulate, arrecandole così gravi danni.
La società; specificatamente, sosteneva che la convenuta non avrebbe provveduto alla pubblicizzazione del prodotto finanziario “delega di pagamento” attraverso i propri canali pubblicitari, sia cartacei che telematici, non attuando corsi per istruire il personale dipendente delle proprie filiali, non rispettando l’obbligo di vendita del prodotto in esame presso i propri sportelli e non aggiornando tempestivamente la modulistica necessaria per il perfezionamento delle convenzioni con gli enti.
Si costituiva in giudizio la convenuta, la quale contestava le avverse deduzioni e chiedeva il rigetto della domanda.
Il Giudice di prime cure rigettava la domanda sul presupposto che era da escludersi il dedotto rapporto di agenzia, atteso che non si ravvisavano – a seguito dell’istruttoria espletata – le caratteristiche tipiche di tale rapporto, mancando il rapporto di stabilità proprio dell’agente e che non emergevano le violazioni agli obblighi contrattuali denunciate dall’attrice.
Avverso la suddetta sentenza proponeva appello la società proponendo quattro motivi di gravame e specificamente: 1) violazione degli artt. 1742 e ss. c.c. con riferimento al mancato riconoscimento del rapporto di agenzia; 2) mancato riconoscimento dei gravi inadempimenti contrattuali della banca; 3) omessa e/o carente motivazione, nonché erronea valutazione delle prove; 4) omessa nomina del CTU.; resisteva la banca.
La Corte, visti i motivi li dichiarava inammissibili per cui rigettava l’appello con conseguente condanna alle spese.
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