Il giudizio di “immeritevolezza” di cui all’art. 1322, comma 2, c.c. va compiuto avendo riguardo allo scopo perseguito dalle parti e non alla convenienza, né alla chiarezza, né alla aleatorietà del contratto.
La clausola inserita in un contratto di leasing – la quale preveda che: a) la misura del canone varii in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra la valuta domestica ed una valuta straniera; b) l’importo mensile del canone resti nominalmente invariato e i rapporti di dare/avere tra le parti dipendenti dalle suddette fluttuazioni siano regolati a parte – non è un patto immeritevole ex art. 1322 c.c., né costituisce uno “strumento finanziario derivato” implicito e, quindi, la relativa pattuizione non è soggetta alle previsioni del d.lgs. n. 58 del 1998 (principio formulato nell’interesse della legge ex art. 363, comma 3, c.p.c.).
Questi i principi espressi dalle Sezioni Unite di Cassazione, Pres. Curzio – Rel. Rossetti, con la sentenza n. 5657 del 23 febbraio 2023.
È accaduto che una società stipulasse con altra società un contratto di leasing avente ad oggetto un immobile.
Sei anni dopo la stipula del contratto, la società concedente, lamentando l’inadempimento della società utilizzatrice, chiese ed ottenne dal Tribunale un decreto ingiuntivo pronunciato nei confronti della debitrice e dei suoi garanti, a titolo di canoni scaduti e non pagati.
Tutti gli intimati proposero, congiuntamente, opposizione al decreto ingiuntivo ed a fondamento dell’opposizione dedussero che il contratto di leasing, nella parte in cui conteneva la clausola di variabilità del canone, andava qualificato come “strumento finanziario implicito” e doveva ritenersi perciò nullo, in quanto stipulato senza che fossero stati assolti da parte della banca i preventivi obblighi di informazione imposti dal d. lgs. 58/98.
Chiesero perciò la revoca del decreto ingiuntivo e, in via riconvenzionale, la condanna della concedente alla restituzione di tutte le somme pagate a titolo di indicizzazione del canone, nonchè la condanna dell’intermediario al risarcimento del danno.
Il Tribunale ritenne che la clausola che prevedeva la variazione del canone in funzione sia del tasso LIBOR che del tasso di cambio tra l’Euro ed il franco svizzero contenesse in realtà due strumenti finanziari derivati, autonomi rispetto al contratto di leasing. Ne dichiarò perciò la nullità, poichè la società utilizzatrice non aveva ricevuto le informazioni precontrattuali prescritte dalla legge prima della stipula dei contratti aventi ad oggetto strumenti finanziari.
La sentenza fu appellata e la Corte d’appello rigettò il gravame, adottando però una motivazione diversa rispetto a quella del Tribunale.
Il giudice di secondo grado infatti definì l’intero contratto sottoposto al suo esame come “una sorta di swap”, qualificandolo “aleatorio”, rientrante nel genus delle scommesse, e affermando che l’opposizione al decreto ingiuntivo andava accolta in quanto la sola clausola di rischio cambio era “invalida ex art. 1322, comma 2, c.c.”, e non già perchè il contratto fosse nullo a causa della violazione degli obblighi di informazione precontrattuale prescritti dal d. lgs. 58/98.
La sentenza d’appello è stata poi impugnata per Cassazione che, con ordinanza interlocutoria, ha rimesso gli atti al Primo Presidente affinchè fosse valutata l’opportunità di assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, le quali, rilevata l’assenza di un contrasto sul punto, hanno precisato che una clausola inserita in un contratto di leasing, la quale faccia dipendere gli interessi dovuti dall’utilizzatore dalla variazione di un indice finanziario insieme ad un indice monetario, in un caso come quello di specie, non è uno strumento finanziario derivato, e tanto meno un “derivato implicito”.
Gli “strumenti finanziari derivati”, infatti, sono accordi negoziali definiti dall’art. 1 d. lgs. 58/98, nel quale non rientra la clausola oggetto del giudizio nè avendo riguardo al testo vigente all’epoca della conclusione del contratto di leasing di cui si discorre né a quello in vigore al momento della pronuncia né facendo ricorso all’analogia legis.
La corretta qualificazione giuridica di clausole come quella esaminata deve muovere dal rilievo che il contratto oggetto del contendere riguardava una operazione reale (leasing), prevedeva che il valore del debito complessivo dell’utilizzatore fosse determinato in franchi svizzeri e accordava all’utilizzatore la facoltà di pagare in Euro.
Il contratto di leasing ha ovviamente sempre una funzione (anche) di finanziamento e quest’ultimo può legittimamente essere concesso in valuta nazionale od in valuta estera.
La clausola di cui si discorre dunque non è che una normale clausola-valore, attraverso la quale le parti individuano il criterio al quale commisurare la prestazione del debitore.
Pertanto:
-) l’aleatorietà del contratto, lungi dal costituire un indice della presenza d’un “derivato implicito”, non è che un effetto naturale d’una altrettanto normale clausola-valore;
-) la previsione che eventuali conguagli a favore dell’una o dell’altra parte fossero regolati a parte, e non incidessero sul valore della rata (che restava costante) non è che una modalità esecutiva delle reciproche obbligazioni, insuscettibile di riverberare effetti di sorta sulla qualificazione del contratto. Del resto, il creditore ha facoltà di accettare un adempimento parziale (art. 1181 c.c.) o di rinunciare al termine stabilito a suo favore (art. 1185 c.c.), e ciò dimostra che la possibilità di regolare a parte alcune delle obbligazioni e non altre, oppure una aliquota dell’unica obbligazione, è un effetto normale dello statuto delle obbligazioni civili.
La circostanza, inoltre, che la clausola preveda una doppia indicizzazione, agganciando le variazioni del canone sia alle variazioni del tasso LIBOR, sia alle variazioni del rapporto di cambio franco-Euro, non modifica le deduzioni fin qui svolte.
Ed infatti:
- a) l’indicizzazione del canone al tasso LIBOR costituisce una normale clausola onnipresente nei finanziamenti a tasso variabile; essa è pacificamente lecita e non costituisce un derivato;
- b) l’indicizzazione del canone alle fluttuazioni del rapporto di cambio costituisce una clausola-valore, secondo quanto appena esposto; così inquadrata, anch’essa è pacificamente lecita e non costituisce un derivato.
Non è dunque sostenibile che dalla combinazione di due clausole, tutte e due lecite e non costituenti uno strumento finanziario derivato, possa sorgere un contratto illecito e che costituisca a sua volta uno strumento finanziario derivato.
Le Sezioni Unite inoltre hanno affermato che la clausola di rischio cambio non snaturi la causa del contratto di leasing. La presenza della suddetta clausola, infatti, non consente di affermare che scopo dell’utilizzatore non fu acquisire un immobile, ma fu investire del denaro per realizzare un lucro finanziario invece che commerciale né basta per sostenere che fosse volontà del concedente concludere il contratto al solo fine di speculare sul tasso di cambio.
Quanto al giudizio di meritevolezza della clausola in esame, le Sezioni Unite hanno affermato che il giudizio di cui all’art. 1322, comma 2, c.c. non coincide col giudizio di liceità del contratto, del suo oggetto o della sua causa.
Secondo la Relazione al Codice civile, la meritevolezza è un giudizio che deve investire non il contratto in sè, ma il risultato con esso avuto di mira dalle parti, cioè lo scopo pratico o causa concreta che dir si voglia.
Un contratto non può dirsi “immeritevole” solo se è poco conveniente per una delle parti.
L’ordinamento garantisce il contraente il cui consenso sia stato stornato o prevaricato, non quello che, libero ed informato, abbia compiuto scelte contrattuali non pienamente satisfattive dei propri interessi economici.
Affinchè, dunque, un patto atipico possa dirsi “immeritevole”, ai sensi dell’art. 1322 c.c., è necessario accertare la contrarietà (non del patto, ma) del risultato cui esso mira con i principi di solidarietà, parità e non prevaricazione che il nostro ordinamento pone a fondamento dei rapporti privati.
Le Sezioni Unite, quindi, hanno respinto le motivazioni adottate dalla Corte d’appello per affermare che la clausola in esame fosse immeritevole, affermando che:
1) l’equazione stabilita dalla Corte d’appello, per cui “macchinosità della clausola = immeritevolezza” è erronea in punto di diritto: dinanzi a clausole contrattuali oscure il giudice deve ricorrere agli strumenti legali di ermeneutica (artt. 1362-1371 c.c.), e non ad un giudizio di immeritevolezza, né può dirsi che una clausola contrattuale è “macchinosa” sempre in senso assoluto;
2) è sbagliato sostenere che “la clausola è caratterizzata da aleatorietà e squilibrio” perché ciò mostra di confondere l’alea economica, insita in ogni contratto, con l’alea giuridica, che del contratto forma invece oggetto e ne è elemento essenziale: e cioè la susceptio periculi. E nel caso di specie causa del contratto era il trasferimento della proprietà di un immobile, non il trasferimento di un rischio dietro pagamento di un prezzo.
In ogni caso un contratto aleatorio non è, per ciò solo, immeritevole di tutela ex art. 1322 c.c.;
3) il diritto dei contratti non impone l’assoluta parità tra le parti quanto a condizioni, termini e vantaggi contrattuali: la libertà negoziale è principio cardine del nostro ordinamento e del diritto dei contratti, per cui il soggetto abilitato all’esercizio del credito ha il dovere di rispettare le regole del gioco e comportarsi in buona fede, nondimeno ha anche il diritto di pianificare in piena libertà le proprie strategie imprenditoriali e commerciali. Inoltre, lo squilibrio delle prestazioni non può farsi coincidere la convenienza del contratto. Non è dunque lo iato tra prestazione e controprestazione che può rendere un contratto “immeritevole” di tutela ex art. 1322 c.c., se quella differenza sia stata in piena libertà ed autonomia compresa ed accettata;
4) lo squilibrio (economico) tra le prestazioni se è genetico legittima il ricorso alla rescissione per lesione; se è sopravvenuto legittima il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta. L’esistenza di tali rimedi esclude dunque la necessità stessa di ricorrere a fantasiose invenzioni circa la “immeritevolezza” d’un contratto che preveda “prestazioni squilibrate”.
Inoltre, anche ad ammettere che il calcolo del conguaglio degli interessi, per come previsto dal contratto, fosse più vantaggioso per il concedente rispetto all’utilizzatore, questa circostanza non basta di per è a rendere “immeritevole” ex art. 1322 c.c.;
Pertanto, la Suprema Corte ha affermato che la deduzione formulata dalla ricorrente – e cioè che il contratto da essa stipulato con la società utilizzatrice non presentava alcuno dei presupposti che, secondo la giurisprudenza di legittimità, dovevano ricorrere per poter qualificare un contratto come “immeritevole”, ex art. 1322, comma 2, c.c. – è fondata.
Per tali motivi, la sentenza impugnata è stata cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’appello, in diversa composizione, con l’onere di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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