Si ringrazia per il contributo il Dott. Massimo Vaccari, Giudice del Tribunale di Verona
Il 28 febbraio è entrata in vigore la parte più consistente della riforma del processo civile, fortemente voluta dal governo Draghi e dalla ministra Cartabia, al fine dichiarato di velocizzare la giustizia civile e rilanciare l’economia, che sono alcuni degli obiettivi del PNRR.
Il nuovo governo ha condiviso tale impostazione dal momento che ha introdotto un emendamento alla legge di Bilancio, poi approvato dal Parlamento, con il quale è stata anticipata l’entrata in vigore della riforma dal 30 giugno 2023 appunto al 28 febbraio.
Purtroppo non si tratta del primo intervento sul processo civile, perché negli ultimi trent’anni se ne sono succeduti numerosi. Si era però trattato, per la maggior parte, di interventi settoriali, cosicché questo è sicuramente il più incisivo e rilevante dal 1990 ad oggi.
Il giudizio sulla riforma di commentatori e operatori della giustizia è quasi unanimemente molto negativo e discende dalla comune considerazione che essa finirà per non risolvere nessuna delle criticità del processo civile ma introdurrà solo maggiori adempimenti per i difensori ed il Giudice.
L’ultima voce, in ordine di tempo, fortemente critica che si è levata è stata quella della Presidente del Consiglio Nazionale Forense, l’avvocato Maria Masi, che ha tenuto un discorso molto accorato nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la Suprema Corte di Cassazione.
Una valutazione così negativa è sicuramente fondata se si considerano solo alcune delle novità introdotte.
Uno degli strumenti attraverso i quali il legislatore mira ad accelerare i tempi della giustizia è l’obbligatorietà della predisposizione da parte del giudice del c.d. calendario del processo.
Si tratta della fissazione preventiva di tutte le udienze in cui teoricamente, in ogni processo, potrebbe svolgersi l’attività istruttoria (escussione dei testi e giuramento dei consulenti).
Chi ha pensato a questo sistema ha dimostrato di non sapere che il processo civile è soggetto ad una serie di inevitabili imprevisti, come ad esempio le assenze, per i motivi più disparati, dei testi, dei difensori o dei consulenti, o gli accordi sopravvenuti tra le parti, o anche l’acquisizione in udienza di una prova decisiva, tutte circostanze queste che possono rendere necessario eliminare o rinviare le udienze già previamente fissate.
È per questa ragione che finora era il giudice a scegliere di volta in volta le udienze sulla base della situazione processuale contingente.
Costringere, invece, l’organo giudicante a prenotare una serie di date della sua agenda con l’elevata probabilità che esse dovranno poi essere modificate, anche più volte, comporterà non solo un’inutile perdita di tempo per tutti ma anche, indirettamente, un ritardo nella fissazione dei processi.
È facile intuire infatti che, se per un processo sono state riservate una serie di date, quello seguente slitterà alle date disponibili successive.
Per cercare di essere ancora più chiari sarebbe come se un cittadino, su indicazione del proprio medico, prenotasse, in date diverse e successive, tutta una serie di esami anche se il primo di essi potrebbe essere sufficiente a chiarire il suo stato di salute, impedendo così ad altri di utilizzare le date già prenotate ma non necessarie.
Ancora, il legislatore ha ritenuto utile, alla realizzazione degli obiettivi sopra indicati, imporre alle parti che abbiano optato per il giudizio ordinario di articolare le loro difese nella fase iniziale del processo e in tempi piuttosto ristretti, prevedendo al contempo, con il nuovissimo art. 171 – bis c.p.c, che il giudice effettui le verifiche preliminari ancor prima di aver incontrato le parti.
Si tratta di una norma che è evidentemente finalizzata ad anticipare, rispetto all’udienza ex art. 183 c.p.c., alcune verifiche preliminari.
Ebbene, su di essa si possono svolgere una molteplicità di rilievi:
- non è prevista dalla legge delega (la relazione al d.lgs. infatti non indica il criterio di cui costituirebbe attuazione) e in effetti sembra un corpo estraneo, inserito a posteriori nella struttura del processo di primo grado;
- chi l’ha scritta non ha considerato che la verifica d’ufficio sulla realizzazione delle condizioni di procedibilità può essere svolta fino alla udienza ex art. 183 c.p.c. e quindi nel pieno contraddittorio di tutte le parti, cosicchè non si vede perché dovrebbe essere anticipata;
- la norma non precisa se il giudice deve provvedere, sulle questioni preliminari, prima dell’udienza o può attendere fino all’udienza e, nel primo caso, non chiarisce se il giudice può rinviare l’udienza stessa;
- obbliga le parti a svolgere comunque le richieste istruttorie integrative anche se il giudice abbia rilevato una questione idonea a definire il giudizio.
Un’ulteriore novità consiste poi nell’aver stabilito che l’unico tipo di provvedimento con il quale potranno essere decisi i processi, anche quelli più semplici, sia la sentenza.
Tutti gli operatori della giustizia, però, sono da sempre concordi nel ritenere che uno dei maggiori problemi del processo civile sia costituito dal c.d. “collo di bottiglia”, per cui ciascun magistrato non può decidere più di un certo numero di cause in un dato periodo.
Proprio per cercare di ovviare a tale inconveniente con la riforma del 2009, che disciplinava il procedimento sommario di cognizione, era stato previsto che lo stesso fosse definito con ordinanza, essendo essa un provvedimento molto più sintetico e richiedendo, dunque, un tempo di redazione molto inferiore.
Adesso la nuova riforma rinnega quella scelta giacché prevede che anche il procedimento semplificato, che sostituisce il sommario, sia deciso con sentenza.
È molto probabile allora che essa produrrà un risultato che può essere sintetizzato nella formula: “più formalismi e meno sentenze” e, insieme ad esso, un allungamento dei tempi di definizione dei giudizi, quale diretta conseguenza della necessità per i giudici di dedicare periodi più lunghi alla stesura dei provvedimenti.
Tutto ciò costituirebbe una vera e propria eterogenesi dei fini rispetto agli obiettivi dichiarati della riforma.
A questo punto qualche lettore potrebbe chiedersi se c’erano altre misure, diverse da quelle adottate, che potevano servire a migliorare le condizioni della giustizia civile in Italia.
La risposta è sicuramente affermativa.
Se proprio si voleva intervenire sul processo, sarebbe stato sufficiente semplificare le modalità di stesura dei provvedimenti giudiziari.
Ancora più utili sarebbero stati dei provvedimenti di carattere strutturale come l’aumento delle piante organiche del personale di cancelleria e la conseguente indizione di concorsi per coprirle, la rifondazione dell’informatica giudiziaria, attraverso la sostituzione del software per la gestione del processo attualmente in uso con uno nuovo, l’incremento del personale dedicato all’assistenza e l’adozione di nuove modalità di fornitura dei dispositivi hardware (passaggio dall’acquisto al leasing).
Sono state invece fatte altre scelte che lasciano intravedere una prospettiva piuttosto fosca.
Qualcuno già prevede che, per sottrarsi alle complicazioni del nuovo processo civile, i cittadini che se lo potranno permettere saranno indotti, o costretti, a ricorrere alla giustizia privata (mediazione, negoziazione assistita e altre forme di adr).
Se ciò accadesse, avremmo un fenomeno, forse addirittura auspicato dai riformatori, analogo a quello che si sta verificando nella sanità, ma che rappresenterebbe il fallimento della giustizia pubblica in Italia e anche il tradimento della Costituzione che, all’art. 24, prevede che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti”.
Dott. MASSIMO VACCARI
Giudice Tribunale di Verona
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