In tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l’altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione). Anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento.
Questo è il principio espresso dalla Corte di Cassazione, Pres. Scarano – Rel. Gianniti, con l’ordinanza n. 34475 dell’11 dicembre 2023.
Nel 2015 il ricorrente conveniva davanti al Tribunale il patronato resistente chiedendo accertarsi l’inadempimento contrattuale dell’Istituto convenuto, con conseguente condanna dello stesso a titolo di risarcimento danni al pagamento in suo favore della somma di Euro 55.942,92, pari alla somma delle ventisette mensilità di pensione di anzianità, che aveva perso a causa del grave comportamento omissivo del Patronato medesimo nella gestione del mandato.
Il Tribunale con sentenza rigettava la domanda. La Corte di appello di Trieste, con sentenza, rigettava l’appello, confermando integralmente la sentenza di primo grado e condannando l’appellante alla rifusione delle spese processuali. In particolare, secondo la corte territoriale, era risultato provato che il Patronato aveva gestito con diligenza la pratica e non era emerso comportamento diverso al quale lo stesso avrebbe dovuto attenersi.
Avverso la sentenza di secondo grado il ricorrente ha proposto ricorso per Cassazione.
Alla luce del principio di diritto già menzionato, la Suprema Corte ha ribadito che il riparto dell’onere probatorio in materia di inadempimento contrattuale prevede che, a fronte dell’inadempimento lamentato dall’attore, il convenuto debba dimostrare di aver esattamente dato corso alla prestazione affidatagli ovvero la non imputabilità a sè dell’inidoneità della stessa.
Pertanto, gli Ermellini hanno ritenuto che la corte territoriale di merito non avesse fatto corretta applicazione di tali principi e ha per tale motivo accolto il ricorso, ritenendo che il patronato convenuto non avesse provato che il danno patito dal ricorrente poteva essere evitato proponendo il ricorso amministrativo suggeritogli avverso i dinieghi dell’Inps e specificamente che tali ricorsi avrebbero avuto ragionevoli possibilità di essere accolti. Oltretutto considerando che, in virtù del ricevuto mandato di assistenza e rappresentanza ricevuto, il predetto patronato avrebbe potuto presentare ricorso amministrativo avverso entrambi i dinieghi dell’Inps senza autorizzazione del ricorrente, cosa che non era stata fatta.
Pertanto, il ricorso è stato accolto con rinvio alla Corte d’Appello, in diversa composizione, per un nuovo esame della vicenda, facendo applicazione dei suindicati disattesi principi, e per le spese del giudizio di cassazione.
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