In tema di usucapione, la sussistenza o meno dell’animus possidendi e del corpus possessionis – prendendo le mosse dall’esame dei fatti e delle prove inerenti al processo – è rimessa all’esame del giudice del merito, le cui valutazioni non sono sindacabili in sede di legittimità ove congruamente motivate.
Questo è il principio espresso dalla Corte di Cassazione, Pres. Mocci – Rel. Varrone, con l’ordinanza n. 34164 del 6 dicembre 2023.
La società resistente conveniva in giudizio in primo grado i ricorrenti deducendo di essere proprietaria di un terreno sito in Pomezia e asserendo che l’appezzamento di terreno era detenuto senza titolo dai convenuti che lo coltivavano e ne percepivano i frutti. Chiedeva pertanto il rilascio del terreno e il risarcimento del danno conseguente il mancato utilizzo.
Si costituivano in giudizio i germani, chiedendo in via riconvenzionale l’usucapione in loro favore ai sensi dell’art. 1158 c.c., e, in subordine, ex art. 1159 bis c.c., rivestendo gli stessi la qualifica di coltivatori diretti.
Il Tribunale accoglieva la domanda attorea e rigettava quella riconvenzionale.
Gli originari convenuti interponevano appello avverso la suddetta sentenza. Si costituiva la società chiedendo il rigetto del gravame.
La Corte d’appello rigettava l’appello, evidenziando che il Tribunale si era già correttamente pronunciato sulla domanda di usucapione ex art. 1158 c.c., rilevando la mancanza di elementi sufficienti in ordine all’elemento soggettivo del possesso.
I germani hanno proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza. La società ha resistito con controricorso.
Secondo la Suprema Corte “la valutazione circa la sussistenza o meno delll’animus possidendi e del corpus possessionis – prendendo le mosse dall’esame dei fatti e delle prove inerenti al processo – è rimessa all’esame del giudice del merito, le cui valutazioni, alle quali il ricorrente contrappone le proprie, non sono sindacabili in sede di legittimità, ciò comportando un nuovo esame del materiale delibato che non può avere ingresso nel giudizio di cassazione”.
Il Supremo Consesso ha evidenziato che la Corte d’Appello aveva ampiamente specificato come i fratelli ricorrenti non avessero fornito elementi sufficienti a ritenere che nei 20 anni precedenti la instaurazione del giudizio avessero esercitato un potere di fatto corrispondente al diritto di proprietà.
Pertanto, il ricorso è stato rigettato con condanna dei ricorrenti in solido tra loro al pagamento delle spese del giudizio di legittimità nei confronti della parte controricorrente.
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