Provvedimento segnalato dall’Avv. Francesco Balestrazzi, del foro di Catania
In tema di operatori “compro oro”, benché la normativa di settore preveda per essi l’obbligo di utilizzare un conto corrente, bancario o postale, dedicato in via esclusiva alle transazioni finanziarie effettuate per la specifica operatività, non esiste, d’altro canto, una speculare norma che, allo stato, sancisca il dovere per gli istituti bancari di procedere all’apertura di rapporti dedicati, che sono, quindi, liberi di agire in base alla propria autonomia negoziale.
Questo è il principio espresso dal Tribunale di Catania, Giudice Vera Marletta, con l’ordinanza del 9 luglio 2024.
Il caso originava dal ricorso ante causam, ex artt. 669 bis e 700 c.p.c., con cui parte attrice conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Catania, due istituti bancari e altra società premettendo di essere iscritta nel registro degli operatori “compro oro” e di svolgere detta attività in forza della allegata licenza rilasciata dal Questore.
Rappresentava che tale licenza prevedeva che gli operatori di compro oro fossero obbligati all’utilizzo di un conto corrente, bancario o postale, dedicato in via esclusiva alle transazioni finanziarie eseguite in occasione del compimento di operazioni di compro oro ma che, ciononostante, una banca aveva risposto negativamente a simile richiesta, l’altra società convenuta aveva assunto la decisione di recedere dal conto in essere e l’altra banca ancora non aveva fornito nessun riscontro alla richiesta di apertura di un conto corrente.
Asseriva, poi, che, in favore degli operatori di compro oro, erano ormai costanti le decisioni giurisprudenziali favorevoli alla obbligatorietà della apertura dei conti correnti dedicati.
Si doleva, inoltre, che il recesso da un rapporto di conto corrente, o la sua negata apertura, violava non solo il principio costituzionale sulla libertà di iniziativa, ma anche la “normativa (D. Lgs. n. 92/2017) che pretendeva l’apertura del conto corrente dedicato da parte degli istituti bancari, sottoposti al controllo della Banca d’Italia.
Concludeva, infine, con la richiesta di adozione di ogni provvedimento d’urgenza idoneo ad assicurare la apertura di conto corrente dedicato da parte degli enti convenuti, essendo evidente il fumus derivante dalla violazione delle norme indicate e il grave danno che derivava dalla mancata apertura che conseguentemente impediva lo svolgimento dell’attività di impresa, con i conseguenti rischi di chiusura.
Il procedimento veniva inizialmente assegnato al G.U. che negava la concessione del provvedimento inaudita altera parte richiesto ex adverso, così motivando: “non sono stati analiticamente prospettati gravi motivi sulla base dei quali il tempo necessario per l’instaurazione del contraddittorio potrebbe pregiudicare in maniera grave ed irreparabile la situazione giuridica soggettiva vantata da parte ricorrente, tenuto anche conto della possibilità di conseguire aliunde il bene della vita oggetto della prospettata lesione”.
Nel contempo, veniva fissata in seguito l’udienza di comparizione delle parti, all’esito della quale il Giudice del Tribunale catanese, investito della vicenda, riteneva il ricorso infondato, per mancanza dei requisiti richiesti dall’art. 700 c.p.c..
Dalla parte motivazionale della sentenza in commento si legge infatti che, quanto al fumus boni iuris, dalla natura privatistica dell’attività della banca discendeva l’impossibilità di immaginare in capo all’intermediario un “obbligo a contrarre”, che non solo non era desumibile dai principi generali, ma sarebbe finito con porsi addirittura in contrasto con essi, ledendo la libertà di iniziativa economica costituzionalmente garantita (art. 41 Cost.).
Ne conseguiva, secondo il Giudice siciliano, che la banca avesse il diritto di valutare sempre le singole richieste di finanziamento, applicando i criteri di diligenza professionale, buona fede e correttezza e in assoluta aderenza al dettato della disciplina antiriciclaggio europea e nazionale.
Il Tribunale evidenziava altresì che, pur divenendo progressivamente indispensabile la titolarità di un conto corrente, vista la lotta all’evasione fiscale e la dematerializzazione della moneta, nell’ordinamento italiano un “diritto al conto corrente” non era configurato direttamente da alcuna norma.
Pertanto, il Giudice ravvisava come regolare e in linea con la buona fede l’operato di una delle società convenute che aveva dato seguito alla chiusura del rapporto di conto corrente, anche perché la ricorrente aveva accettato che la predetta società potesse recedere, unilateralmente, da tale rapporto a tempo indeterminato, per giusta causa o per giustificato motivo, senza alcun preavviso, ovvero, in assenza di un giustificato motivo, comunicando apposito preavviso scritto, da formalizzare al cliente, in un termine non inferiore a due mensilità.
Quanto alla posizione dell’altra banca convenuta, quest’ultima aveva correttamente svolto i controlli di rito in seguito ai quali era emerso che vi erano notizie pregiudizievoli interne collegate ad altra società, a seguito delle quali le filiali avevano riscontrato negativamente la richiesta della ricorrente, non ritenendo che vi fossero i presupposti per l’instaurazione di un rapporto fiduciario, al di là della circostanza che si trattasse di rapporto finalizzato alla delicata attività di “compro oro”.
Anche in questo caso quindi la Banca aveva agito correttamente.
Medesime conclusioni anche per la terza banca convenuta che, nella sua totale autonomia contrattuale, non aveva accettato l’apertura di un conto corrente presso le proprie filiali.
Con riferimento al periculum in mora, il Tribunale riteneva anche tale requisito non soddisfatto.
La ricorrente, infatti, si era limitata a prospettare in modo generico la futura e non imminente possibilità di un “pregiudizio”, ma non ne dava alcun contenuto, né dimostrava che sussistesse il serio rischio di chiusura dell’attività, ad esempio allegando documentazione idonea a dimostrare l’esistenza di una istruttoria avviata dagli organi preposti al controllo dell’attività “compro oro”, o l’interruzione dell’attività commerciale direttamente discendente dalla mancata apertura del preteso rapporto di conto corrente. Né aveva dimostrato di non essere allo stato intestataria di ulteriori rapporti bancari necessari per svolgere la propria attività imprenditoriale.
Per le ragioni sopra esposte, quindi, e alla luce del principio di diritto già menzionato, il ricorso è stato rigettato, con condanna di parte soccombente alla refusione delle spese di lite.
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