Procedimento patrocinato dallo Studio Legale Filesi di Roma
LE MASSIME
La volontà di risolvere un contratto per inadempimento non deve necessariamente risultare da una domanda espressamente proposta dalla parte in giudizio.
La riconsegna del bene al concedente, nel contratto di leasing con funzione traslativa, è condizione di efficacia dell’obbligo restitutorio da parte del lessee.
In caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, quest’ultimo ha diritto alla restituzione delle rate riscosse solo dopo la restituzione della cosa da parte dell’utilizzatore.
Questi i principi espressi dalla Corte di Cassazione, Pres. Scarano, Rel. Condello, con la sentenza n. 2857 del 15 novembre 2024.
IL CASO
Nelle fasi di merito, e quindi anche davanti alla Corte distrettuale, la parte utilizzatrice in leasing aveva eccepito l’improcedibilità della domanda per mancato esperimento della mediazione, invocando l’applicazione dell’art. 1526 cod. civ., stante la natura traslativa del leasing e chiedendo la restituzione di tutti i canoni versati.
Il Giudice di prime cure aveva invece dichiarato la risoluzione del contratto di leasing, condannando la società convenuta al rilascio degli immobili. Disattesa l’eccezione di improcedibilità della domanda reiterata dalla parte appellante, i giudici di secondo grado avevano osservato, confermando la prima sentenza, che la prospettazione difensiva della società concedente, che aveva lamentato il reiterato inadempimento dell’utilizzatrice al pagamento dei canoni, chiedendo in ragione di ciò il rilascio del bene, rendeva evidente che la domanda avesse come suo presupposto logico la declaratoria di risoluzione del contratto di leasing; rilevato ed ancora che la restituzione dei beni oggetto del rapporto di leasing, integrasse condizione di ammissibilità della domanda volta a far valere l’applicabilità dell’art. 1526 cod. civ., presupposto che, nel caso di specie, difettava.
Davanti alla Suprema Corte, il lessor invocava l’annullamento della sentenza ai sensi dell’art. 360 n. 4 in relazione all’art. 112 c.p.c., per violazione del divieto di ultrapetizione.
La ricorrente rimarcava che la società che in primo grado aveva gito ai sensi dell’art. 702-bis cod. proc. civ. in danno della società utilizzatrice, si era limitata a chiedere solo il rilascio del bene oggetto di leasing, senza formulare domanda di risoluzione del medesimo contratto, cosicché, erroneamente, il Giudice del gravame non avrebbe rilevato il vizio di ultrapetizione della sentenza di primo grado.
COMMENTO
Orbene la Suprema Corte, con la sentenza oggi in commento, ha preso atto che il Giudice di Appello non si era discostato dal principio secondo cui la volontà di risolvere un contratto per inadempimento non deve necessariamente risultare da una domanda espressamente proposta dalla parte in giudizio, ben potendo essere implicitamente contenuta in un’altra domanda, eccezione o richiesta, sia pure di diverso contenuto, che presupponga una domanda di risoluzione (Cass., sez. 2, 18/09/2020, n. 19513; Cass., sez. 6 -1, 23/10/2017, n. 24947; Cass., sez. 2, 16/09/2013, n. 21113; Cass., sez. 2, 05/10/2009, n. 21230; Cass., sez. 2, 18/06/1992, n. 7518).
Nel caso di specie, la parte ricorrente in primo grado aveva dedotto l’inadempimento della utilizzatrice in ragione del mancato pagamento dei canoni e richiesto l’immediata restituzione dei beni immobili concessi in locazione finanziaria, in tal modo, sia pure implicitamente, manifestando la volontà di sciogliere il vincolo negoziale e di ottenere la declaratoria di risoluzione del contratto, che costituisce imprescindibile presupposto logico e giuridico della domanda di rilascio.
Dalla motivazione che precede, deriva, ad avviso della Suprema Corte, la non configurabilità del contestato vizio di ultrapetizione: infatti, l’interpretazione del contenuto della domanda è attività riservata al giudice di merito, sicché non è deducibile la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., quale errore procedurale rilevante ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., allorquando il Giudice abbia svolto una motivazione sul punto, dimostrando come la questione sia stata ricompresa tra quelle oggetto di decisione, attenendo, in tal caso, il dedotto errore, al momento logico relativo all’accertamento in concreto della volontà della parte (tra le tante, Cass., sez. 3, 22/09/2023, n. 27181; Cass., sez. 3, 10/06/2020, n. 11103).
Con il terzo motivo, la parte ricorrente e già utilizzatrice in leasing, aveva denunciato la ‹‹violazione e falsa applicazione dell’art. 1526 cod. civ. – in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ. – con riguardo alla asserita improponibilità della domanda riconvenzionale di accertamento del leasing traslativo, in mancanza della consegna del bene››.
La ricorrente evidenziava che, pur dovendosi escludere l’applicabilità alla fattispecie in esame della legge n. 124 del 2017, la società concedente non avrebbe potuto chiedere l’immediato rilascio dell’immobile senza corrispondere contestualmente l’importo complessivo che la stessa aveva incamerato a titolo di canoni di locazione, che dovevano essere restituiti, configurandosi, altrimenti, in capo alla stessa, un vantaggio ingiustificato ed un arricchimento indebito in danno della utilizzatrice. La Corte d’appello avrebbe omesso di svolgere qualsiasi accertamento in merito alla natura traslativa del contratto di leasing intercorso tra le parti e pertanto essa ricorrente ribadiva l’applicabilità, al caso in esame, dell’art. 1526 cod. civ.
La Suprema Corte non ha accolto il predetto motivo, sulla scorta dei principi espressi nella pronuncia delle Sezioni Unite n. 2061/2021, la quale ha affermato che alla risoluzione del leasing traslativo, i cui presupposti si siano verificati anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 124 del 2017, si applica analogicamente la disciplina di cui all’art. 1526 cod. civ.; sicché, ove detta risoluzione consegua all’inadempimento dell’utilizzatore, dal principio di salvaguardia del corretto equilibrio contrattuale discende che l’utilizzatore abbia diritto alla restituzione delle rate pagate, previa restituzione del bene al concedente, dal momento che solo dopo tale restituzione il concedente potrà trarre dalla cosa ulteriori utilità e sarà possibile determinare l’equo compenso spettante per il godimento garantito all’utilizzatore nel periodo di durata del contratto (cfr. anche Cass., sez. 3, 21/06/2023, n. 17752). La riconsegna del bene al concedente, nel contratto di leasing con funzione traslativa, è condizione di efficacia dell’obbligo restitutorio gravante sul concedente per effetto della risoluzione contrattuale regolata dall’ art. 1526 cod. civ., afferente al ricavato dalla riallocazione del bene, se avvenuta, o al valore di stima di mercato in caso di mancata liquidazione (cfr. Cass., sez. 6 -3, 20/09/2017, n. 21895, e Cass., sez. 3, 22/03/2022, n. 9210), in quanto espressione dell’inderogabile divieto d’indebita locupletazione del concedente in cui diversamente si tradurrebbe il cumulo tra canoni e valore del bene (Cass., sez. U, n. 2061/2021 parla di restituzione del bene quale ‹‹presupposto del pagamento››).
In buona sostanza la Suprema Corte ha ricordato anche ulteriori pronunce, secondo le quali, nella risoluzione del leasing traslativo, acquista un ruolo decisivo la restituzione del bene, perché tale evento consente al meccanismo delineato dall’art. 1526 cod. civ. (primo e secondo comma) di esplicarsi nella sua pienezza. Sicché la restituzione del bene comporta, per l’utilizzatore inadempiente, il diritto alla restituzione delle rate pagate, salvo il versamento dell’equo compenso al concedente; mentre, qualora sia convenuto che le rate pagate restino acquisite al concedente, il giudice potrà provvedere alla riduzione d’ufficio dell’indennità convenuta (cfr. Cass. n. 26531 del 2021 circa il carattere officioso di tale potere, derivante dalla previsione generale dell’art. 1384 cod. civ., nonché Sezioni Unite n. 2061 del 2021 citate sulla c.d. clausola di confisca; Cass., sez. 3, n. 7367/2023).
Assolto quindi l’obbligo di restituzione del bene, il concedente, rientratone nel possesso, potrà trarne ulteriori utilità nel prosieguo; dall’altro, solo dopo che la restituzione è avvenuta, è possibile determinare l’equo compenso a lui spettante per il godimento garantito all’utilizzatore nel periodo di durata del contratto, salva la prova del danno ulteriore (Cass., n. 21895/17, cit.; Cass., n. 6606/19, cit.); non si tratta, ha chiarito la Suprema Corte, di profilo legato, in termini di esclusiva perimetrazione, alla ricostruzione e applicazione della correlata disciplina precettiva dell’equo compenso, ma di una ricaduta del principio di mantenere un corretto equilibrio anche nella fase risolutoria del contratto, espresso nell’art. 1526, secondo comma, cod. civ.
A tali principi si era dunque uniformata la Corte d’appello, che facendo espresso riferimento alle condizioni generali del contratto di leasing in esame — che prevedeva che, in caso di inadempimento dell’utilizzatore, il concedente aveva diritto, oltre all’immediato rilascio del bene, alla definitiva acquisizione di quanto versato durante la vigenza del contratto ed al pagamento di tutti gli importi maturati per insoluti, interessi e spese sino alla data della restituzione dell’immobile e, inoltre, dell’importo attualizzato corrispondente ai canoni futuri e al costo di esercizio del diritto di opzione finale di acquisto, detratto quanto ricavato dalla vendita o reimpiego del bene (o il suo valore di mercato ove invenduto) — ha ritenuto valida tale clausola contrattuale, in quanto compatibile con l’art. 1526 cod. civ.; avallando quindi la decisione del Tribunale, aveva posto in rilievo che la mancata restituzione del bene – costituente circostanza pacifica – precludeva la proponibilità e l’accoglimento delle domande di restituzione delle rate già versate e di ritenzione del bene, come formulate dalla parte utilizzatrice.
Il ricorso è stato quindi totalmente respinto con condanna al pagamento delle spese di lite.
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