ISSN 2385-1376
Testo massima
“Il solo fatto che un cittadino scelga di acquisire un titolo professionale in un altro Stato membro allo scopo di beneficiare di una normativa più favorevole non è sufficiente, di per sé, a costituire un abuso del diritto “
È quanto sostiene l’avvocato Nils Wahl nelle proprie conclusioni, presentate in data 10 aprile 2014, alla Corte europea di Giustizia per le cause riunite C-58/13 e C-59/13.
La questione affrontata e, attualmente al vaglio della Suprema Corte di Giustizia Europea, riguarda il caso dei c.d. “abrogados”, ossia coloro che ottengono il titolo per l’abilitazione professionale in Spagna e, poi decidono di stabilirsi in uno dei paesi dell’Unione europea per esercitare la professione legale.
Nel caso di specie, due cittadini italiani, dopo aver acquisito il diritto di usare il titolo professionale di «abogado» in Spagna, presentavano al competente Consiglio dell’ordine degli avvocati di Macerata, una domanda di iscrizione nella sezione speciale dell’albo degli avvocati, ossia quella riservata agli avvocati che hanno ottenuto la qualifica all’estero [«avvocati stabiliti»], per poter esercitare con tale titolo la professione in Italia.
Ebbene, la difesa dei ricorrenti faceva presente come tali domande fossero basate sulle leggi italiane di trasposizione della direttiva 98/5/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 1998, volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica. Tuttavia, poiché il Consiglio locale dell’ordine degli avvocati non si era pronunciato su di esse entro il termine previsto di trenta giorni, i ricorrenti presentavano ricorso dinanzi al Consiglio Nazionale Forense; che decideva di deferire alla Corte Europea di Giustizia, in base al procedimento di rinvio pregiudiziale, le questioni riguardanti l’interpretazione e la validità della direttiva 98/5, alla luce dei principi che vietano l’«abuso del diritto» e impongono il «rispetto dell’identità nazionale».
Due, in particolare, i quesiti proposti:
il primo, “se l’art. 3 della [direttiva 98/5], alla luce del principio generale del divieto di abuso del diritto e dell’art. 4, paragrafo 2, TUE relativo al rispetto delle identità nazionali, debba essere interpretato nel senso di obbligare le autorità amministrative nazionali ad iscrivere nell’elenco degli avvocati stabiliti cittadini italiani che abbiano realizzato contegni abusivi del diritto dell’Unione, ed osti ad una prassi nazionale che consenta a tali autorità di respingere le domande di iscrizione all’albo degli avvocati stabiliti qualora sussistano circostanze oggettive tali da ritenere realizzata la fattispecie dell’abuso del diritto dell’Unione, fermi restando, da un lato, il rispetto del principio di proporzionalità e non discriminazione e, dall’altro, il diritto dell’interessato di agire in giudizio per far valere eventuali violazioni del diritto di stabilimento, e dunque la verifica giurisdizionale dell’attività dell’amministrazione“;
il secondo, invece, “se in caso di risposta [affermativa alla prima questione], l’art. 3 della direttiva 98/5, così interpretato, debba ritenersi invalido alla luce dell’art. 4, paragrafo 2, TUE nella misura in cui consente l’elusione della disciplina di uno Stato membro che subordina l’accesso alla professione forense al superamento di un esame di Stato laddove la previsione di siffatto esame è disposta dalla Costituzione di detto Stato e fa parte dei principi fondamentali a tutela degli utenti delle attività professionali e della corretta amministrazione della giustizia“.
IL PUNTO DI VISTA DELL’AVVOCATO WAHL
Perché possa configurarsi ipotesi di abuso del diritto dichiara quest’ultimo – occorrono due condizioni, in primo luogo, un insieme di circostanze oggettive dalle quali risulti che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa dell’Unione, l’obiettivo perseguito dalla stessa non sia stato raggiunto. In secondo luogo, poi, un elemento soggettivo che consista nella volontà di ottenere un vantaggio derivante dalla normativa dell’Unione mediante la creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento.
In via di principio, spetta [comunque] al giudice nazionale accertare l’esistenza dei suddetti due elementi, la cui prova deve essere prodotta conformemente alla normativa nazionale, a condizione che l’efficacia del diritto dell’Unione non ne risulti compromessa. In particolare, i giudici nazionali non possono, nel valutare l’esercizio di un diritto derivante da una disposizione dell’Unione, modificare il contenuto di detta disposizione né compromettere gli obiettivi da essa perseguiti.
Orbene, quanto al caso in esame, – afferma il Wahl – risulta “abbastanza evidente che una prassi come quella nazionale in questione rischia di pregiudicare, nello Stato membro in cui è adottata, il corretto funzionamento del sistema creato dalla direttiva 98/5, e quindi di compromettere gli obiettivi perseguiti da tale strumento giuridico. L’articolo 1 della direttiva 98/5 stabilisce, infatti, che lo scopo di tale direttiva è proprio quello di «facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato (…) in uno Stato membro diverso da quello nel quale è stata acquisita la qualifica professionale”. Ciò, in altre parole, è espressione di quanto il legislatore dell’Unione ha voluto consentire, e cioè riconoscere “il diritto dei cittadini di uno Stato membro di scegliere lo Stato membro nel quale desiderano acquisire il loro titolo professionale è inerente all’esercizio, in un mercato unico, delle libertà fondamentali garantite dai trattati dell’Unione“.
A tal riguardo, – sostiene l’avvocato “non può essere attribuita alcuna importanza al fatto che l’avvocato sia un cittadino dello Stato membro ospitante, o al fatto che egli possa aver scelto di ottenere il titolo professionale al fine di approfittare di una normativa più favorevole o, infine, al fatto che egli presenti la domanda di iscrizione all’albo poco dopo aver ottenuto il titolo professionale all’estero“.
Ma non è tutto. “L’articolo 1, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 98/5 definisce «avvocato» «ogni persona, avente la cittadinanza di uno Stato membro, che sia abilitata ad esercitare le proprie attività professionali facendo uso di uno dei (…) titoli professionali [elencati nella stessa disposizione]». Analogamente, l’articolo 2 della direttiva 98/5 dispone che «[gl]i avvocati hanno il diritto di esercitare stabilmente le attività di avvocato precisate all’articolo 5 [della stessa direttiva] in tutti gli altri Stati membri con il proprio titolo professionale di origine». Non appare, dunque, alcuna indicazione, circa il fatto che “il legislatore dell’Unione abbia voluto consentire agli Stati membri di attuare discriminazioni alla rovescia escludendo i propri cittadini dai diritti creati dalla direttiva 98/5. Inoltre, ciò sembrerebbe poco compatibile con l’obiettivo di creare un mercato interno” e con quanto più volte affermato dalla stessa Corte europea, ossia che “un cittadino dell’Unione non può essere privato della possibilità di avvalersi delle libertà garantite dai trattati dell’Unione solo perché ha inteso approfittare di una normativa favorevole in vigore in uno Stato membro diverso da quello in cui risiede”.
Ne consegue, pertanto,
“che il solo fatto che un cittadino scelga di acquisire un titolo professionale in un altro Stato membro allo scopo di beneficiare di una normativa più favorevole non sia sufficiente, di per sé, a costituire un abuso del diritto “.
Si consideri, inoltre, che “il legislatore dell’Unione come già chiarito dalla Corte europea con l’articolo 3 della direttiva 98/5, ha voluto realizzare la completa armonizzazione dei requisiti preliminari richiesti ai fini dell’esercizio del diritto conferito. Pertanto, la presentazione all’autorità competente dello Stato membro ospitante di un certificato di iscrizione presso l’autorità competente dello Stato membro di origine è l’unico requisito cui può essere subordinata l’iscrizione dell’interessato nello Stato membro ospitante, che gli consente di esercitare la sua attività in quest’ultimo Stato membro con il suo titolo professionale di origine” La riprova di quanto affermato sta peraltro nel fatto che la direttiva 98/5 non prevede che l’iscrizione di un avvocato presso l’autorità competente dello Stato membro ospitante possa essere subordinata ad ulteriori condizioni, come ad esempio un colloquio inteso ad accertare la padronanza della lingua. E, per la stessa ragione, non può dirsi che la direttiva citata (98/5) non consenta che si possa subordinare tale iscrizione allo svolgimento di un determinato periodo di pratica o di attività come avvocato nello Stato membro di origine.
Ciò detto e atteso che qualora le autorità dello Stato membro ospitante accertino che, in un caso specifico, si verificano le due condizioni sopra enunciate e, fermo restando, in questo caso, la possibilità di respingere una domanda in ragione di un abuso del diritto; non resta che attendere la pronuncia della Suprema Corte di giustizia europea.
Testo del provvedimento
In allegato il testo integrale del provvedimento
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Numero Protocolo Interno : 314/2014