Il curatore fallimentare non è legittimato a proporre, nei confronti del finanziatore responsabile – nella specie, una banca – l’azione da illecito aquiliano per il risarcimento dei danni causati ai creditori dall’abusiva concessione di credito diretta a mantenere artificiosamente in vita una impresa dedotta, suscitando così nel mercato la falsa impressione che si tratti di impresa economicamente valida.
Ove si volesse considerare di natura contrattuale l’illecito prospettato, innanzitutto deve rilevarsi che, emessa pronunzia di condanna risarcitoria generica, resta salvo il potere (nel giudizio sul quantum) di verificare l’esistenza effettiva del pregiudizio, la sua consistenza e la sua derivazione causale dal fatto potenzialmente lesivo.
Nel procedere alla liquidazione del danno, a seguito di condanna generica, il giudice può negare sia la configurabilità reale dei danni sia la loro derivazione pratica dal fatto potenzialmente lesivo, senza che ne risulti sovvertita la portata del giudicato, invero limitata alla valutazione della mera astratta idoneità lesiva del fatto.
Questi i principi di diritto espressi dalla Corte d’Appello di Lecce – sez. distaccata di Taranto – Pres. Genoviva – Rel. Morea con la sentenza n. 78 del 24 febbraio 2020.
Nella vicenda esaminata, nell’ambito di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, una Banca era stata condannata al risarcimento dei danni, da liquidarsi separatamente, per abusiva concessione di credito in favore di una società con cui intratteneva plurimi rapporti, poi fallita nel corso dell’opposizione.
Nel successivo giudizio promosso dal Fallimento, il Tribunale rilevava che la condanna era stata comminata in ragione della rilevata potenzialità lesiva della condotta dell’istituto di credito, che però avrebbe dovuto escludersi laddove fosse emerso che la società avesse cooperato con la banca nell’abusiva concessione del credito.
Pertanto, proprio in ragione del rilievo per cui la debitrice in bonis non avrebbe potuto sviluppare utili che le avrebbero consentito di superare le esposizioni debitorie già esistenti, né che gli utili raggiungibili le avrebbero consentito la riduzione dell’esposizione e la conseguente sua attiva operatività sul mercato, aveva rigettato la domanda proposta escludendo la risarcibilità del danno.
Avverso tale pronuncia proponeva appello la Curatela lamentando che il giudice di prime cure aveva rimesso in discussione questioni che avrebbero dovuto essere sollevate nel giudizio sull’an, specialmente in ordine al concorso della società fallita, e che la prova del nesso causale tra comportamento della Banca ed il danno doveva ritenersi sussistente in re ipsa.
Si costituiva l’appellata, contestando i motivi di gravame.
La Corte rilevava preliminarmente la carenza di legittimazione del Fallimento a proporre l’azione da illecito aquiliano per il risarcimento dei danni causati ai creditori dall’abusiva concessione di credito e specificava che, anche laddove tale illecito si volesse considerare di natura contrattuale, una volta emessa pronuncia di condanna risarcitoria generica, resta salvo il potere nel giudizio sul quantum di verificare l’esistenza effettiva del pregiudizio, la sua consistenza e la sua derivazione causale dal fatto potenzialmente lesivo.
Il Collegio ha quindi specificato che nel procedere alla liquidazione del danno, a seguito di condanna generica, il giudice può negare sia la configurabilità reale dei danni sia la loro derivazione pratica dal fatto potenzialmente lesivo, senza che ne risulti sovvertita la portata del giudicato, invero limitata alla valutazione della mera astratta idoneità lesiva del fatto.
I giudici dell’impugnazione hanno quindi ritenuto che legittimamente il Tribunale si fosse pronunciato sull’insussistenza del nesso causale tra il pregiudizio prospettato dal fallimento ed abusiva concessione del credito, in quanto il tracollo della società era semplicemente dovuto all’incapacità dell’azienda di sviluppare soddisfacenti utili, specificando altresì che il recupero dei crediti non avrebbe potuto incidere sul tracollo della società, trattandosi di legittima attività posta in essere dall’istituto bancario e che il nesso eziologico tra contegno contrario ai doveri di buona fede e danno non è in re ipsa, ma rientra nell’onere probatorio a carico dell’attore, rimasto nella specie inadempiuto.
In ragione di tali rilievi, la Corte ha rigettato l’appello condannando il Fallimento al pagamento delle spese di lite ed all’ulteriore sanzione ex art. 13, comma 1 quater, DPR 115/2002.
Per ulteriori approfondimenti, si rinvia ai seguenti contributi pubblicati in Rivista:
ABUSIVA CONCESSIONE DEL CREDITO: ACTIO PAULIANA NON ESPERIBILE DAL CURATORE
NON È UN’AZIONE DI MASSA MA STRUMENTO DI REINTEGRAZIONE PATRIMONIALE DEL SINGOLO CREDITORE
Sentenza | Cassazione civile, sez. terza, Pres. Spirito – Rel. Scoditti | 12.05.2017 | n.11798
CONCESSIONE ABUSIVA DEL CREDITO: L’AZIONE RISARCITORIA NON È ESPERIBILE DAL CURATORE FALLIMENTARE
LA DOMANDA NON È QUALIFICABILE COME AZIONE DI MASSA
Sentenza | Tribunale di Nola, Dott.ssa Giuseppa D’Inverno | 23.01.2017 | n.201
CONCESSIONE ABUSIVA DI CREDITO: L’AZIONE DI DANNO NON PUÒ ESSERE ESPERITA DAL CURATORE
NEL SISTEMA FALLIMENTARE IL CURATORE NON È TITOLARE DI UN POTERE DI RAPPRESENTANZA DI TUTTI I CREDITORI, INDISTINTO E GENERALIZZATO
Sentenza | Corte di Appello di Milano, Pres. Fabrizi – Rel. Nardo | 20.03.2015 | n.1229
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