Lo scostamento del corrispettivo dichiarato rispetto al valore normale dell’immobile ceduto costituisce una presunzione semplice, da valutare unitamente ad altri elementi che ne confermino la gravità, precisione e concordanza. Tale presunzione, per la quale il corrispettivo versato per l’acquisto dell’immobile non può essere inferiore alla entità del mutuo concesso dalla banca, è rafforzata dalle disposizioni sul limite massimo di finanziabilità stabilito con deliberazione 22 aprile 1995 del Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio (sul punto Cass. n. 24004/2018), secondo cui l’ammontare massimo dei finanziamenti di credito fondiario non può superare l’ottanta per cento del valore dell’immobile oggetto di compravendita nonché dalle regole rigide poste dalla Banca d’Italia agli istituti bancari per concedere finanziamenti di credito fondiario, regole la cui violazione sarebbe lesiva degli interessi degli stessi istituti di credito, tenuti a garantire il capitale dato a prestito con beni il cui valore non può essere inferiore: in base a tali regole, il prezzo di cessione degli immobili non può essere inferiore all’80% dell’ammontare del mutuo contratto.
Questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione, V sez. civ., Pres. Cirillo – Rel. Ghitti, con la sentenza n. 16951 del 25.06.2019, che di seguito si riporta.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –
Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –
Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –
Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –
Dott. GHITTI Italo Mario – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. omissis R.G. proposto da:
SOCIETA’
– ricorrente –
Contro
AGENZIA
– controricorrente –
Avverso la sentenza n. 64/08/12, della Commissione Tributaria Regionale della Sardegna, Sez. di Sassari, depositata il 20/11/2012; Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 30/4/2019 dal Consigliere Italo Mario Ghitti;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Kate Tassone , che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso per infondatezza dei motivi;
udito l’Avv. OMISSIS per l’Avvocatura dello Stato;
Rilevato che:
L’Agenzia, con avviso di accertamento n. OMISSIS del giorno 8 ottobre 2008, per l’anno d’imposta 2005, rettificava in aumento i ricavi ed i corrispettivi dichiarati dalla SOCIETÀ per un importo di ammontare pari ad € 69.127,00, con conseguente richiesta di pagamento di maggiori imposte per € 2.938,00 per IRAP, €22.812,00 per IRES ed € 2. 765 per IVA oltre sanzioni ed interessi.
La rettifica era operata in relazione alla vendita di un appartamento fatta, in data 13/9/2005, dalla società contribuente a ACQUIRENTE con prezzo dichiarato di € 76.000,00 ritenuto incongruo in relazione al contratto di mutuo stipulato dall’acquirente per € 120.000,00, all’ammontare del prezzo di altro appartamento venduto il 1/12/2005 dalla stessa società nello stesso stabile per € 120.000,00 nonché in relazione ai valori dell’Osservatorio immobiliare della FIAIP , valori che per l’appartamento de quo erano pari ad € 1.409,00 al mq e quindi, il valore di vendita era di € 145.127,00.
Il contribuente proponeva ricorso avanti alla CTP di Sassari che, con sentenza n. 70/02/11 depositata il giorno 8/6/2011, rigettava il ricorso.
Avverso tale sentenza il contribuente proponeva appello alla CTR della Sardegna, Sezione staccata di Sassari, che, con sentenza n. 64/08/12 depositata il 20/11/2012, respingeva l’appello confermando la sentenza impugnata.
La SOCIETÀ propone ricorso per la cassazione di tale sentenza deducendo tre motivi; è stata depositata anche memoria ex art. 378 cod. proc. civ.;
L’Agenzia resiste con controricorso.
Con il PRIMO MOTIVO di ricorso – Violazione o falsa applicazione dell’art. 24, commi 4 e 5, legge 7 luglio 2009 n. 88 abrogative di E5 alcune disposizioni introdotte dall’art. 35 decreto legge 4 luglio 2006 cA-1 n. 223, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.- il ricorrente lamenta che la CTR, nella sentenza impugnata, abbia ritenuto «corretto» il metodo adottato dall’Agenzia delle Entrate, nell’operare la rettifica di cui all’avviso di accertamento indicato in epigrafe: l’Ufficio, nell’avviso di rettifica datato, 8/10/2008, avrebbe fatto riferimento al «valore normale» dell’immobile compravenduto, basandosi sulle presunzioni di cui alli art. 35 d.l. 223/2006, oggetto di successiva abrogazione ad opera della legge 7 luglio 2009 n. 88 (Legge Comunitaria 2008).
Il motivo dedotto non è fondato.
In primo luogo, le presunzioni legali relative di cui all’art. 35 d.l.223/2006 – che introduceva il criterio del “valore normale dei beni” sia nell’art. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973 (imposte dirette) che nell’art. 54, terzo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972 n.633 – non hanno mai avuto efficacia per gli anni pregressi in forza dell’art. 1, comma 265, della legge 24 dicembre 2007 n. 244, che ha delimitato temporalmente l’ambito applicativo delle presunzioni legali in oggetto, stabilendo che, per gli atti formati anteriormente al 4 luglio 2006, esse non hanno valore presuntivo legale, ma valgono quali presunzioni semplici, a norma dell’art.2729 cod.civ.
Nel caso di specie è pacifico che l’atto di compravendita dell’immobile oggetto di accertamento è stato concluso nell’anno d’imposta 2005 e di conseguenza, lo scostamento del corrispettivo dichiarato rispetto al valore normale dell’immobile ceduto, non costituisce una presunzione legale (relativa) di percezione di un maggior corrispettivo, ma una presunzione semplice, da valutare unitamente ad altri elementi che ne confermino la gravità, precisione e concordanza (Cass. 28/12/2017, n. 31027).
Nel caso di specie, la CTR nella sentenza impugnata sottolinea come l’Ufficio abbia «correttamente» proceduto alla rettifica ai fini IRES, IRAP ed IVA del reddito prodotto nel 2005 dalla SOCIETÀ, non avendo ritenuto congruo il prezzo della vendita dichiarato di € 76.000,00 alla luce dell’art.39, comma 1, lettera d) d.P.R. 600/1973, norma per la quale «l’esistenza di attività non dichiarate ovvero l’inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici purché queste siano gravi precise e concordanti».
Gli elementi indiziari che hanno conferito i caratteri della gravità, precisione e concordanza alle presunzioni semplici poste a base dell’accertamento ed indicate nella parte motiva dell’atto impositivo, sono anche indicate dalla stessa CTR: «la vendita di altro appartamento nello stesso complesso edilizio con superficie e rendita catastale inferiore a prezzo notevolmente superiore; stipulazione di un contratto di mutuo per l’appartamento oggetto di rettifica per importi quasi doppi rispetto al prezzo dichiarato di cessione dell’immobile; conferma di tali elementi sulla base dei prezzi di mercato, desunti dalla banca dati tenuta dalla FIAIP».
La CTR, nella motivazione della sentenza impugnata, ha in particolare valorizzato il dato rappresentato dall’ammontare del mutuo concesso per l’acquisto dell’immobile stesso quale indizio della esistenza di un corrispettivo maggiore di quello dichiarato ed ha attribuito particolare valore alla presunzione semplice costituita dall’ammontare del mutuo concesso.
La presunzione semplice per la quale il corrispettivo versato per l’acquisto dell’immobile non può essere inferiore alla entità del mutuo concesso dalla banca, è infatti rafforzata dalle disposizioni sul limite massimo di finanziabilità stabilito con deliberazione 22 aprile 1995 del Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio (sul punto Cass. n. 24004/2018), secondo cui l’ammontare massimo dei finanziamenti di credito fondiario non può superare l’ottanta per cento del valore dell’immobile oggetto di compravendita (potendo raggiungere il 100% soltanto in presenza di garanzie integrative) nonché dalle regole rigide poste dalla Banca d’Italia agli istituti bancari per concedere finanziamenti di credito fondiario, regole la cui violazione sarebbe lesiva degli interessi degli stessi istituti di credito, tenuti a garantire il capitale dato a prestito con beni il cui valore non può essere inferiore: in base a tali regole, il prezzo di cessione degli immobili non può essere inferiore all’80% dell’ammontare del mutuo contratto.
Oltre a ciò la CTR ha anche valutato, quali prove presuntive semplici e non quali prove legali relative, i dati desumibili dai prezzi correnti di mercato degli immobili venduti.
L’esplicito richiamo alle presunzioni semplici connotate dai caratteri di gravità, precisione e concordanza desunti dai concreti elementi indicati e la mancanza di un qualsiasi richiamo alle presunzioni legali relative inducono a ritenere del tutto insussistente ed infondata la censura mossa alla sentenza impugnata.
Con il SECONDO MOTIVO di ricorso – Violazione o falsa applicazione dell’art. 73 della Direttiva IVA 2006/112/CE in relazione all’art. 360, comma 1, n.3 cod. proc. civ. – la società ricorrente deduce che la rettifica del valore di compravendita in quanto difforme dal «valore normale» contrasta con l’art. 73 della Direttiva citata e che, in caso di contrasto fra norma interna e norma comunitaria, prevale la norma comunitaria.
Questo motivo è strettamente connesso al precedente, ma è, allo stato, parimenti infondato, in quanto proprio per il contrasto con la normativa comunitaria con la legge 88/2009 è stato abrogato l’art.35 d.l. 223/2006. Quest’ultima norma è stata ritenuta contrastante con la regola sancita dalla direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006; ai sensi dell’articolo 73 della direttiva, infatti, la base imponibile ai fini dell’imposta sul valore aggiunto «comprende tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore o al prestatore per tali operazioni da parte dell’acquirente destinatario o di un terzo, comprese le sovvenzioni direttamente connesse con il prezzo di tali operazioni».
Questa Corte ha anche chiarito che la modifica operata dalla legge n. 88/2009 ha «ripristinato il quadro normativo anteriore al luglio 2006, sopprimendo la presunzione legale (ovviamente relativa) di corrispondenza del corrispettivo effettivo al valore normale del bene, con la conseguenza che tutto è tornato ad essere rimesso alla valutazione del giudice, il quale può, in generale, desumere l’esistenza di attività non dichiarate “anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti”: e ciò -deve intendersi – con effetto retroattivo, stante la ragione di adeguamento al diritto comunitario che ha spinto il legislatore nazionale del 2009 ad intervenire (cfr., anche, circolare dell’Agenzia delle entrate n. 18 del 14 aprile 2010)» (Cass. n. 20429/2014).
L’Amministrazione finanziaria è legittimata a compiere accertamenti ai sensi degli articoli 39 d. P.R.600/1973 e 54 d.P.R.633/1972 «anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti» (Cass. n. 20429/2014), ed i prezzi medi degli immobili estrapolati dall’Osservatorio del mercato immobiliare non costituiscono più presunzioni legali relative, ma rientrano nell’ambito dei citati articoli 39 d.P.R. 600/1973 e 54 d.P.R. 633/1972 quali meri elementi indiziari.
Per quanto concerne l’IVA, va richiamato il principio di diritto — a cui questo Collegio integralmente si riporta, condividendone l’affermazione – secondo cui :«In tema di accertamento della imposta sul valore aggiunto, l’ufficio finanziario ha il potere di accertare la sussistenza della eventuale simulazione relativa (inerente al prezzo di vendita di un bene) in grado di pregiudicare il diritto dell’amministrazione alla percezione dell’esatto tributo, senza la necessità di un preventivo giudizio di simulazione, spettando poi al giudice tributario, in caso di contestazione, il potere di controllare “incidenter tantum”, attraverso l’interpretazione del negozio ritenuto simulato, l’esattezza di tale accertamento, al fine di verificare la legittimità della pretesa tributaria.» (cfr. Cass., Sez. 5 sentenza 21/6/2016, n. 12782 e Cass., Sez. 5, n.1549/2007).
Inoltre, con riguardo all’accertamento induttivo di maggiori ricavi, la Corte di Giustizia UE ( Sentenza C-648/16 del 21 novembre 2018) ha di recente statuito: «La direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, nonché i principi di neutralità fiscale e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che non ostano ad una normativa nazionale, come quella oggetto del procedimento principale, che consenta all’Amministrazione finanziaria, a fronte di gravi divergenze tra i redditi dichiarati ed i redditi stimati sulla base di studi di settore, di ricorrere ad un metodo induttivo, basato sugli studi di settore stessi, al fine di accertare il volume d’affari realizzato dal contribuente e procedere, di conseguenza, a rettifica fiscale con imposizione di una maggiorazione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA), a condizione che tale normativa e la sua applicazione permettano al contribuente stesso, nel rispetto dei principi di neutralità fiscale, di proporzionalità nonché del diritto di difesa, di contestare, sulla base di tutte le prove contrarie di cui disponga, le risultanze derivanti da tale metodo e di esercitare il proprio diritto alla detrazione dell’imposta ai sensi delle disposizioni contenute nel titolo X della direttiva 2006/112,(…) ».
Nessuna censura quindi può essere mossa alla sentenza impugnata sotto il profilo sin qui considerato avendo la CTR pienamente condiviso la valutazione fatta dall’Ufficio circa la sussistenza, nel caso di specie, di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti che dimostravano una sottofatturazione del vero prezzo di vendita dell’immobile e di conseguenza l’esistenza di maggiori ricavi in capo alla società venditrice.
Con il TERZO MOTIVO di ricorso – Violazione o falsa applicazione dell’art. 64 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ. – la società ricorrente deduce che la CTR nella sentenza impugnata ha recepito acriticamente il valore dell’immobile compravenduto, assunto dall’Ufficio per procedere alla rettifica del valore dichiarato con riferimento ai dati dell’Osservatorio Immobiliare della FIAIP invece che ai dati dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare (OMI) previsto dal D. Lgs. 300/1999, determinando in tal modo il prezzo normale di vendita in € 145.127,00 (pari a 1409,00 al mq. X mq.103).
Anche tale motivo è infondato.
I valori dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare di cui all’art. 64 d.lgs. n.300/1999 costituiscono soltanto «uno strumento di ausilio ed indirizzo per l’esercizio della potestà di valutazione estimativa» (Cass. n.31052/2017) o, secondo altra definizione, «massime di esperienza utilizzabili ai fini della decisione ai sensi dell’art.115, comma 2, cod. proc. civ.» (Cass. n.14264/2016); l’Ufficio nel determinare il prezzo medio di mercato di un immobile può anche avvalersi di dati diversi, quali sono, come nel caso di specie, quelli dell’Osservatorio immobiliare pubblicati sul sito della Federazione italiana Agenti immobiliari professionali, ritenuti più aderenti alla concreta realtà dell’immobile in valutazione.
Infatti il riferimento alle stime effettuato sulla base dei valori OMI non è sempre idoneo e sufficiente a rettificare il valore dell’immobile, tenuto conto che il valore dello stesso può variare in funzione di molteplici parametri quali l’ubicazione, la superficie, la collocazione nello strumento urbanistico, nonché lo stato delle opere di urbanizzazione (Cass. n. 18651/2016; Cass. n. 11439/2018).
Poiché, conclusivamente, nessuna censura risulta fondata, la sentenza impugnata va confermata ed il ricorso va rigettato.
Attesa la soccombenza, parte ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore dell’Agenzia delle Entrate, come liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.300,00, oltre eventuali spese prenotate a debito
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma il 30 aprile 2019
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