ISSN 2385-1376
Testo massima
A cura di Daniele Peccianti e Fausto Magi
(Avvocati del Foro di Siena)
L’evoluzione giurisprudenziale (oltre alle sentenze in commento si vedano Tribunale Siena 7/7/2014 in questa Rivista e Tribunale Livorno 5/8/2014, consultabile sul sito “ilcaso.it”) in tema di azioni ripetitorie relative al pagamento di interessi o commissioni illegittimamente addebitati in conto corrente sta portando, seppure all’interno di un “movimentato”quadro interpretativo , alla individuazione di alcuni fondamentali criteri chiave, in linea peraltro con quanto già chiaramente stabilito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 24418/2010 e della successiva sentenza della Terza Sezione Civile 798/2013:
– l’azione di ripetizione non può che riguardare rimesse solutorie (“. . . la ripetizione con conseguenziale condanna alla restituzione può essere chiesta solo con riferimento a rimesse solutorie. Quindi o ci sono rimesse solutorie e la società potrebbe chiedere la restituzione dei pagamenti (solutori) effettuati; oppure non vi sono rimesse solutorie, ma allora la correntista non avrebbe alcun pagamento di cui chiedere la restituzione”: così Tribunale di Padova);
– in presenza di conto corrente aperto alla data della domanda, salva la dimostrazione della ricorrenza di rimesse solutorie , non può esperirsi azione ripetitoria (“. . . . parte attrice non ha provato di aver pagato gli importi indicati nell’atto di citazione: il conto corrente, infatti, ancora acceso alla data della notificazione dell’atto di citazione risultava affidato. . . . L’azione di ripetizione di indebito ex art. 2033 c.c., nel caso di conto aperto, può essere proposta soltanto nel caso in cui vi siano state delle operazioni solutorie extrafido, operazioni che parte attrice non ha richiesto di provare e che, comunque, dall’analisi effettuata dal CTU, non risultano essere state effettuate”; così Tribunale di Treviso);
– dopo la chiusura del conto, restando indimostrata la ricorrenza di rimesse solutorie, l’unica azione ripetitoria esperibile è quella avente ad oggetto l’eventuale pagamento del saldo finale (“Quanto alle precedenti rimesse difetta in atti alcun principio di prova del loro carattere solutorio: la stessa consulenza tecnica di parte. . . . . non contiene in alcun modo una specifica allegazione, né tantomeno uno specifico principio di prova, circa la natura solutoria anziché ripristinatoria delle rimesse che emergono dagli estratti conto. . . . Tale impostazione della consulenza induce a ritenere che l’unica rimessa a cui l’azione di ripetizione di indebito si riferisce sia appunto quella finale”: così Tribunale di Siena 7/7/2014).
Tali criteri, come dicevamo, appaiono perfettamente conformi all’interpretazione inaugurata dalla Suprema Corte con la citata Sentenza delle Sezioni Unite 24418/2010, ma l’indubbio merito della richiamata giurisprudenza di merito risiede nel fatto di aver contribuito a dissipare gli equivoci interpretativi che avevano accompagnato la pronuncia sin dalla sua pubblicazione.
L’equivoco principale è consistito nell’aver voluto intendere – da parte della dottrina avversa alle banche che la Suprema Corte non avrebbe negato in via definitiva la ripetibilità della rimessa ripristinatoria ma l’avrebbe semplicemente condizionata alla chiusura del conto.
Si è cercato di sostenere, in pratica, che per tutto il periodo di vigenza del rapporto le rimesse ripristinatorie sarebbero semplicemente “ibernate” per tornare ad essere ripetibili a conto chiuso.
Coerentemente con tale ricostruzione gli interpreti avversi alle banche hanno sostenuto che la chiusura del conto costituisce semplicemente lo sbarramento temporale per la decorrenza della prescrizione.
Le sentenze richiamate hanno invece ricondotto la questione nei suoi corretti termini interpretativi riaffermando che per poter parlare di prescrizione della azione di ripetizione di un pagamento occorre in primo luogo che un pagamento giuridicamente inteso esista e sia stato effettuato.
Con la semplice chiusura di un conto non interessato da rimesse solutorie, pertanto, non si genera alcun effetto in termini di ripetibilità e di prescrizione: niente vi è ancora di ripetibile e, quindi, non vi è decorrenza di prescrizione.
Sarà solo all’esito dell’eventuale pagamento fatto dal cliente a fronte del saldo finale del conto che potrà parlarsi di rimessa solutoria (e, quindi, di pagamento) e da quel momento decorrerà il termine prescrizionale della relativa azione ripetitoria.
E’ paradossale che ci sia voluto l’intervento illuminato di alcuni giudici di merito per chiarire tali concetti, considerato che gli stessi erano stati ben enucleati dalla stessa sentenza delle Sezioni Unite, laddove, a proposito di conto affidato interessato solo da rimesse ripristinatorie, affermava: “di pagamento, nella descritta situazione, potrà parlarsi soltanto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia esatto dal correntista la restituzione del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi interessi non dovuti e, perciò, da restituire se corrisposti dal cliente all’atto della chiusura del conto”.
Appare oggi definitivamente chiarito, comunque, che la rimessa ripristinatoria non è mai ripetibile, perché non sostanzia un pagamento in senso giuridico.
Il rilievo ha importanti riflessi anche sul piano probatorio:
1) la dimostrazione della ricorrenza della natura solutoria delle rimesse giova alla Banca, relativamente a quelle intercorse prima del decennio antecedente alla notifica della citazione, per poter eccepire validamente la prescrizione (Cass. civ. 4518/2014);
2) la dimostrazione – e, ancor prima, l’allegazione – della ricorrenza di rimesse solutorie in tutto il periodo di vigenza del rapporto giova all’attore per dimostrare la fondatezza della propria domanda.
Pertanto, come ha lucidamente evidenziato il Tribunale di Siena con la sentenza 7/7/2014, in assenza di prova della esistenza di rimesse solutorie la domanda ripetitoria non può trovare accoglimento.
Nel descritto contesto interpretativo resta da chiarire un ultimo aspetto, che sembra peraltro di agevole soluzione.
Potrebbe infatti sorgere il dubbio in merito alla sorte della domanda di mero accertamento, cioè finalizzata semplicemente alla rideterminazione a credito del saldo finale del conto senza immediate finalità ripetitorie.
L’attore, per il fondato timore di doversi trovare a dover decidere se allegare l’esistenza di rimesse solutorie e vedersi così eccepire la prescrizione o rischiare il rigetto integrale della domanda per non aver provveduto ad effettuare detta allegazione (con la relativa prova), potrebbe chiedere l’accertamento della illegittimità di tutti gli addebiti per interessi intercorsi sul conto e la rideterminazione del saldo epurato, che potrebbe in tal modo divenire creditore, con la connessa condanna della Banca alla sua restituzione. Infatti, la domanda, finalizzata all’accertamento di una nullità, sarebbe imprescrittibile e non necessiterebbe di essere supportata dall’allegazione e prova della natura solutoria delle rimesse.
Secondo noi è lo stesso quadro interpretativo illustrato a motivare il rigetto di questa tesi.
In linea generale, l’accertamento della nullità di un atto dovrebbe essere funzionale o alla ripetizione della prestazione in base ad esso eseguita o alla contestazione del diritto a pretenderla, se non ancora adempiuta.
Nel primo caso però la giurisprudenza ha precisato che, sebbene azione di nullità e azione di ripetizione siano diverse per causa petendi e petitum, l’assenza di una prestazione ripetibile svuota di interesse l’azione di accertamento della nullità (a meno che l’attore non dimostri di perseguire un fine ultroneo rispetto a quello meramente ripetitorio, come ad esempio la contestazione della sussistenza di un controcredito in capo al convenuto ).
Chiarificatrice è in proposito la sentenza 9/4/2003 n. 5575 della Corte di Cassazione, che ha stabilito espressamente: “in materia contrattuale, deve escludersi la permanenza di un interesse all’accertamento e alla declaratoria di nullità di un contratto quando risulti ormai prescritta l’azione di ripetizione della prestazione in base ad esso eseguita”.
Interpolando questi principi con i dettami introdotti dalle SS.UU. con la sentenza 24418/2010, non vi sarebbe spazio, quindi, per una azione di accertamento della nullità di addebiti in conto non pagati avente finalità ultronee rispetto alla riduzione o al totale azzeramento del saldo debitore del conto (a seconda di quanto incidano su di esso gli addebiti illegittimi).
Il concetto dovrebbe valere necessariamente anche per i conti interessati esclusivamente da rimesse “intra-fido”.
La conclusione a cui si vuol giungere non è, almeno apparentemente, di facile comprensione ma pare, comunque, perfettamente logica e coerente, ribadiamo, con l’orientamento introdotto da Cass. 24418/2010.
Proviamo a sintetizzarne i passaggi logici:
1) sappiamo che la rimessa ripristinatoria non è un pagamento;
2) vi è altresì giuridica consapevolezza del fatto che una azione ripetitoria ex art. 2033 c.c. presuppone l’allegazione e prova, da parte di chi la propone, del pagamento;
3) abbiamo visto inoltre che l’accertamento della nullità di una obbligazione sostanzia un interesse dell’attore fintantoché vi è una prestazione eseguita a fronte della stessa e nella misura in cui la stessa è ripetibile, dovendo in caso contrario tale interesse limitarsi alla contestazione della controprestazione sottesa all’obbligazione stessa;
4) quando gli attori propongono una domanda di riquantificazione si limitano a contestare e far accertare l’illegittimità degli addebiti che hanno portato al saldo risultante dalle scritture della banca: ebbene, non allegano né provano di aver effettuato pagamenti ma piuttosto, sul presupposto che tale dimostrazione non sia necessaria (esponendoli al rischio di vedersi eccepire la prescrizione), pongono in dubbio tutti gli addebiti intercorsi sin dalla accensione del conto, anche se molto risalente nel tempo.
5) nel caso di conto chiuso, tuttavia, non potendo lo stesso più movimentare, non possono prescindere dal chiedere la ripetizione del nuovo saldo creditore (e di quanto eventualmente già pagato a fronte del “vecchio” saldo banca), con ciò sottoponendosi alle eccezioni di cui ai punti 1) 2 e 3).
In realtà, infatti, a conto chiuso l’attore è sempre costretto a dissimulare la finalità ripetitoria dell’eventuale azione di mero accertamento tutte le volte in cui pretende che il saldo divenga da debitore creditore: tale finalità però, come si è cercato di spiegare, sarebbe da lui fruibile solo dimostrando di aver fatto corrispondenti pagamenti (cioè rimesse solutorie).
Queste considerazioni, perfettamente coerenti con il descritto quadro interpretativo, non pongono come visto in discussione l’astratta esperibilità di una azione di riquantificazione del saldo, ammessa anche dalla Suprema Corte, ma comportano semplicemente che, in assenza di rimesse solutorie, la stessa non possa produrre effetti ripetitori.
Il concetto è sempre lo stesso e non può mutare a seconda del tipo di domanda formulata (di ripetizione o di mero accertamento): se la rimessa è ripristinatoria resta irripetibile anche all’esito dell’eventuale accertamento della nullità del titolo obbligatorio che vi aveva dato causa.
Le conclusioni a cui si è fin qui giunti hanno anche una base logica: se un conto corrente chiusosi con un saldo debitore cambia “segno” e diviene creditore per effetto di una operazione di “espunzione” degli addebiti illegittimi, ciò non può che essere dovuto alla contestuale presenza di rimesse. Più l'”espunzione” è ampia, maggiore è la possibilità di una inversione di segno del saldo. Nel caso in cui quest’ultima si concretizzi, le eventuali pretese restitutorie vantate dall’attore in relazione al nuovo saldo avrebbero ad oggetto proprio le rimesse e il medesimo non dovrebbe quindi poter prescindere dalla allegazione e prova della loro natura solutoria.
La soluzione diversa porterebbe a risultati a nostro avviso “paradossali”.
Ricordato infatti che l’azione di ripetizione di indebito presuppone, oltre alla prova dell’avvenuto pagamento, quella della inesistenza o invalidità della causa solvendi, quando la domanda di accertamento della nullità fosse funzionale alla ripetizione, l’ammissibilità di quest’ultima dipenderebbe dalla natura (solutoria) della rimessa; viceversa, la domanda avente ad oggetto soltanto l’accertamento della nullità della causa solvendi dovrebbe poter fruire della ripetizione della corrispondente rimessa, a prescindere dalla natura di quest’ultima.
Si ponga mente al seguente esempio contabile.
Qualunque sia il criterio di calcolo adottato in concreto e le censure esaminate dal CTU (interessi ultralegali, anatocismo, usura, ecc.) il perito nominato dal Giudice in una causa avente ad oggetto la ripetizione di pagamenti indebiti dovrebbe sviluppare due conteggi , uno finalizzato a verificare quale avrebbe dovuto essere lo sviluppo legittimo del conto (senza cioè addebiti non dovuti) e l’altro deputato ad individuare:
1) la presenta di rimesse che hanno ridotto l’esposizione dovuta ad interessi non legittimi;
2) se e in che misura il saldo ridotto con la rimessa era demarginante il limite del fido, allo scopo di verificare se la rimessa era da considerarsi in tutto o in parte solutoria e, quindi, ripetibile.
1) Verifica delle rimesse solutorie su estratto conto banca
Movimento
|
Saldo banca
(fido 100)
|
Causale
|
Rimesse che
hanno ridotto l’esposizione dovuta ad interessi illegittimi
|
|
– 80
|
|
|
– 20
|
-100
|
Interessi (di
cui 18 non dovuti)
|
|
+20
|
– 80
|
versamento
|
18 (non solutoria)
|
– 10
|
– 90
|
Interessi (di
cui 8 non dovuti)
|
|
+10
|
– 80
|
versamento
|
8 (non solutoria)
|
– 15
|
– 95
|
Interessi (di
cui 10 non dovuti)
|
|
+60
|
– 35
|
versamento
|
10 (non
solutoria)
|
– 5
|
– 40
|
Interessi (di
cui 5 non dovuti)
|
|
+ 5
|
– 35
|
versamento
|
5 (non
solutoria)
|
– 3
|
– 38
|
(interessi (di
cui 2 non dovuti)
|
|
+ 2
|
– 36 saldo finale
|
versamento
|
2 (non
solutoria)
|
2) Sviluppo del conto ricalcolato
Movimento
|
Saldo
riquantificato
|
Causale
|
|
– 80
|
|
– 2
|
– 82
|
Interessi
legittimi
|
+ 20
|
– 62
|
Versamento
|
– 2
|
– 64
|
Interessi
legittimi
|
+ 10
|
– 54
|
Versamento
|
– 5
|
– 59
|
Interessi
legittimi
|
+ 60
|
+ 1
|
Versamento
|
+ 5
|
+ 6
|
Versamento
|
– 1
|
– 5
|
Interessi
legittimi
|
+ 2
|
+ 7 saldo finale
|
Versamento
|
Qualsiasi diversa anche più complessa simulazione porterebbe agli stessi risultati di questo esempio.
Nel caso specifico, il cliente attore in ripetizione potrebbe dimostrare che gli sono stati addebitati interessi non dovuti (per euro 43) ma non l’esistenza di rimesse solutorie e, quindi, si vedrebbe respingere la domanda di ripetizione (a fronte della quale, se accoglibile, la banca avrebbe comunque potuto eccepire la compensazione con il proprio credito – relativo al “saldo banca” finale – di euro 36, con un conseguente obbligo restitutorio di euro 7). Agendo invece semplicemente con una domanda di accertamento negativo – cioè limitata alla contestazione della validità dell’addebito – e condanna alla ripetizione del saldo finale riquantificato otterrebbe lo stesso effetto ripetitorio inibito con l’utilizzo della domanda più ampia: infatti la differenza tra il saldo finale banca (-36) e il saldo finale riquantificato (+7) corrisponde proprio al totale delle rimesse ripristinatorie (43) per cui è chiaro che la condanna alla restituzione del saldo finale riquantificato (+ 7 nell’esempio) equivarrebbe alla ripetizione monetaria di un addebito per interessi non saldato con rimessa solutoria, addirittura rivalutato in base ai tassi creditori contrattualizzati (non considerati nell’esempio per facilitarne la comprensione).
La questione è stata acutamente colta da una pronuncia di merito (Tribunale Nola 2/7/2013 Giudice Dott. Eduardo Savarese, pubblicato in “ildirittodegliaffari.it”) ove il cliente attore si è visto respingere la domanda di ripetizione del saldo finale del conto riquantificato a suo credito dal CTU per non aver dimostrato di aver fatto pagamenti, cioè rimesse solutorie. Sulla stessa linea si colloca l’altro precedente di merito in commento (Tribunale Paola 18/7/2014): “Alla luce degli elementi probatori disponibili, in particolare, non è possibile stabilire se gli importi individuati dal consulente quali interessi passivi e commissioni di massimo scoperto corrispondano a somme effettivamente trattenute dal. . . . . oppure rappresentino mere poste contabili destinate ad incidere sulla complessa posizione debitoria della. . . . .A fronte di un simile quadro, le pretese restitutorie avanzata da quest’ultima vanno necessariamente respinte”.
Oltretutto, se la tesi che cerchiamo di confutare fosse vera, a noi sembra che l’impianto logico-giuridico su cui si basa Cass. 24418/2010 (e poi la successiva Cass. 798/2013) sarebbe destinato inevitabilmente a crollare, come dimostra la giurisprudenza di merito che, nell’accogliere la domanda di mero accertamento del saldo non corredata dalla prova della sussistenza di rimesse solutorie, si è vista costretta o a “spogliarla” di diretti effetti ripetitori (Tribunale di Nola 2/7/2013 sopra citata; Tribunale Torino 12/11/2014, infra citata) o a ricorrere a criteri interpretativi sostanzialistici e, in quanto tali, dichiaratamente divergenti rispetto ai principi enucleati dalla Suprema Corte (Tribunale di Frosinone 18/4/2014 pubblicata sul sito “ilcaso.it”).
In conclusione:
nel caso di conto chiuso, il correntista, come potrà ripetere il pagamento del saldo del conto, nella misura in cui lo stesso venga accertato come viziato da addebiti illegittimi, così potrà, nella stessa misura, contestarne la fondatezza con una azione di accertamento negativo, prima ancora di averlo saldato; non potrà, viceversa, senza aver dimostrato di aver effettuato rimesse solutorie di corrispondente importo (ed essersi conseguentemente esposto alla eccezione di compensazione della banca), ottenere anche la condanna della banca alla restituzione dell’eventuale saldo creditore conseguente al predetto accertamento negativo.
Nell’ipotesi descritta, infatti, non avendo dimostrato di aver effettato pagamenti, non potrebbe avanzare alcuna pretesa ripetitoria e l’accertamento richiesto al Giudice potrebbe essere funzionale solo alla contestazione del credito finale della banca risultante dagli estratti conto.
Dubbi potrebbero sorgere per il caso di conto aperto, in relazione al quale parrebbe concepibile una azione volta al mero accertamento di un diverso segno del conto priva di diretti riflessi ripetitori.
La soluzione affermativa è adombrata dalla sentenza in commento del Tribunale di Treviso (“Il titolare del conto, infatti, può proporre anche prima della chiusura del conto una domanda di accertamento costitutivo negativo del saldo finale, relativamente alle operazioni non solutorie, con richiesta di messa a disposizione dell’eventuale saldo positivo alla data dell’atto di citazione”) e da una recente sentenza del Tribunale di Torino (12/11/2014 Dott. Astuni su “ilcaso.it”) che, tuttavia, conferma implicitamente la tesi sopra illustrata a proposito della impossibilità, nel caso di conto chiuso non interessato da rimesse solutorie, di una condanna alla restituzione del saldo finale ri-quantificato a credito per effetto della espunzione degli addebiti illegittimi.
La Corte di Appello di Torino, citata sopra in note 1 e ss, introduce una interpretazione tutta peculiare, giungendo a sostenere che, nel caso di conto aperto e anche in presenza di rimesse solutorie, sarebbe fruibile dal cliente solo una condanna della Banca alla rettifica del saldo (obbligo di facere) o un mero accertamento del saldo riquantificato (non quindi una condanna ripetitoria) limitabile però al decennio nel caso in cui la Banca eccepisca validamente la prescrizione .
Tale “movimentato” quadro interpretativo, dovrebbe comunque conciliarsi con la sentenza delle Sezioni Unite 24418/2010.
Quest’ultima, infatti, proprio in relazione ad un conto aperto, ha affermato: “Sin dal momento dell’annotazione, avvedutosi dell’illegittimità dell’addebito in conto, il correntista potrà naturalmente agire per far dichiarare la nullità del titolo su cui quell’addebito si basa e, di conseguenza, per ottenere una rettifica in suo favore delle risultanze del conto stesso. E potrà farlo, se al conto accede un’apertura di credito, allo scopo di recuperare una maggior disponibilità di credito entro i limiti del fido concessogli. Ma non potrà agire per la ripetizione di un pagamento che, in quanto tale, da parte sua non ha ancora avuto luogo”.
Sembrerebbe pertanto che sia proprio l’impianto argomentativo della Suprema Corte, qui condiviso, a giustificare l’estensione delle conclusioni cui si è giunti anche all’ipotesi di conto aperto; la tesi contraria, come ha ammesso la sentenza del Tribunale Frosinone citata in nota 6), dovrebbe avventurarsi in una aleatoria e difficoltosa confutazione della tesi del Giudice nomofilattico.
L’unica differenza tra le due ipotesi sarebbe quella pratica, priva a nostro avviso di rilevanza giuridica, derivante dal fatto che, nel caso di conto corrente chiuso il correntista attore con la domanda di accertamento negativo si vedrebbe comunque costretto a dissimulare le proprie finalità ripetitorie (dovrebbe cioè chiedere la condanna della Banca a corrispondergli l’importo del nuovo saldo del conto, ovviamente se creditore) mentre nel caso di conto aperto potrebbe prescinderne, pur perseguendo la stessa finalità.
In proposito, un interessante contributo alla discussione è dato dalla citata sentenza 15/2/2015 della Corte di Appello di Torino, laddove ha riconosciuto soggetta a prescrizione proprio la domanda di accertamento negativo svolta a conto corrente aperto, con ciò inducendo a riflettere, a nostro avviso, sugli effetti ripetitori sottesi al suo accoglimento.
Al momento, in attesa di ulteriori contributi interpretativi, non sembrerebbe tuttavia possibile sottrarsi alla seguente alternativa:
– o si segue l’insegnamento del Giudice di legittimità, ma allora, a nostro avviso, non si dovrebbe poter giungere a conclusioni difformi da quelle illustrate;
– o ci si assume la responsabilità di confutarne la fondatezza, non però sulla base di semplici considerazioni di “giustizia sostanziale” ma di corrette argomentazioni logico-giuridiche, che appaiono allo stato di difficoltosa individuazione.
Metodologicamente non corretto, viceversa, appare a nostro avviso il ricorso ad una terza opzione, basata sulla attribuzione ai concetti enucleati dalla Suprema Corte di conseguenze interpretative con essi in contrasto o, comunque, con gli stessi non coerenti.
Avv. Daniele Peccianti Avv. Fausto Magi
Testo del provvedimento
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Numero Protocolo Interno : 131/2015