ISSN 2385-1376
Testo massima
A seguito del noto e dirompente intervento interpretativo della Suprema Corte di cui alla sentenza 24418/2010, i clienti delle Banche che intendono contestare, in relazione a rapporti di conto corrente, l’applicazione di interessi anatocistici o altre condizioni contrattuali reputate illegittime, formulano oggi ricorrentemente una domanda diversa da quella di ripetizione dell’indebito in senso stretto (domanda di condanna): chiedono, cioè, la ri-quantificazione del saldo del rapporto (domanda di accertamento, cioè “ripristinatoria” e non “ripetitoria“), epurato da tutti gli addebiti ritenuti illegittimi, formulando, però, spesso contestualmente una domanda di condanna della Banca alla restituzione dell’eventuale saldo a credito derivante dalla ri-quantificazione.
Tale tipo di domanda, per la stessa citata sentenza della Corte di Cassazione, non sarebbe soggetta a limiti prescrizionali.
Non è pertanto ardimentoso affermare che, attraverso la sua proposizione, i clienti mirano ad aggirare gli oneri allegatori e probatori e le pesanti limitazioni temporali che potrebbero derivare dalla proposizione, ormai nettamente desueta, della diversa domanda di ripetizione.
Quest’ultima domanda dovrebbe oggi necessariamente dirigersi verso i pagamenti avvenuti in conto degli interessi contestati, non essendo più proponibile e coltivabile, come noto, una richiesta di ripetizione riguardante gli addebiti sul conto conseguenti alle condizioni contestate.
Gli attori potrebbero però andare incontro al rischio processuale di vedersi eccepire la prescrizione in relazione ai pagamenti di cui non fosse dimostrata la natura “ripristinatoria”; al contempo, qualora venisse appurata processualmente l’esistenza di un affidamento, potrebbero sentirsi contestare che, in relazione alle rimesse intervenute a fronte di una esposizione non demarginante il limite dell’affidamento, nessun diritto alla relativa ripetizione potrebbe esser loro riconosciuto, difettando tali rimesse del requisito della “solutorietà” e non essendo quindi le stesse qualificabili come pagamenti.
Sono concetti questi ampiamente e chiaramente illustrati dalla Corte di legittimità con la sentenza in commento, così sinteticamente riassumibili:
a).gli addebiti per interessi e commissioni indebitamente effettuati non sono ripetibili, comportando semplicemente un incremento del debito del correntistia o una riduzione del credito di cui egli ancora dispone;
b).solo le rimesse che hanno pagato tali addebiti sono ripetibili, a condizione che le stesse abbiano avuto lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale a favore della banca; non lo sarebbero, pertanto, i versamenti intervenuti in un momento in cui il passivo del conto non superava il limite dell’affidamento concesso al cliente (rimessa “ripristinatoria“, diversa da quella “solutoria“);
c).in presenza di rimesse meramente “ripristinatorie” il cliente è legittimato esclusivamente a contestare il saldo finale del conto, nella misura in cui lo stesso sia viziato da interessi non dovuti, e nel caso in cui lo abbia già saldato, la prescrizione decorrerà dal relativo pagamento;
d).la differenziazione tra rimesse “solutorie” e “ripristinatorie“, pertanto, rileva non solo ai fini della decorrenza del termine prescrizionale della relativa azione di ripetizione (dalla effettuazione della rimessa nel primo caso, dal pagamento del saldo finale di chiusura del conto nel secondo caso) ma ancor prima al fine degli effetti ripetitori della domanda: la rimessa “solutoria“, rappresentando un atto dispositivo, è ripetibile per l’intero, quella “ripristinatoria” non è ripetibile se non entro il limite (del pagamento) del saldo finale del conto.
Il concetto di cui ai punti c) e d), per quanto chiaramente illustrato dalla Suprema Corte, non pare correttamente interpretato nella prassi o, comunque, non ne risultano colte appieno tutte le implicazioni.
Vediamo, in primo luogo, perché lo stesso sia agevolmente enucleabile dalla sentenza 24418/2010 della Corte di Cassazione.
Appare sufficiente, a tal fine, la lettura delle pagg. 13 e 14 della sentenza:
“Un versamento eseguito dal cliente su un conto il cui passivo non abbia superato il limite dell’affidamento concesso dalla banca con l’apertura di credito non ha né lo scopo né l’effetto di soddisfare la pretesa della banca medesima di vedersi restituire le somme date a mutuo (credito che, in quel momento, non sarebbe scaduto né esigibile), bensì quello di riespandere la misura dell’affidamento utilizzabile nuovamente in futuro dal correntista. Non è, dunque, un pagamento, perché non soddisfa il creditore ma amplia (o ripristina) la facoltà d’indebitamento del correntista; e la circostanza che, in quel momento, il saldo passivo del conto sia influenzato da interessi illegittimamente fin lì computati si traduce in un’indebita limitazione di tale facoltà di maggior indebitamento, ma non nel pagamento anticipato di interessi. Di pagamento, nella descritta situazione, potrà dunque parlarsi soltanto dopo che, conclusosi il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia esatto dal correntista la restituzione del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi interessi non dovuti e, perciò, da restituire se corrisposti dal cliente all’atto della chiusura del conto”.
Da notare che la Corte, avendo ovviamente ben presente che l’accertamento della eventuale natura indebita della esazione del saldo finale del conto presuppone la preventiva ri-quantificazione di quest’ultimo, ha testualmente limitato il diritto di ripetizione del correntista al saldo risultante dalla contabilità della banca, ignorando l’ipotesi che dalla ri-quantificazione possa scaturire, anziché un minor debito, un saldo a credito a favore del cliente.
Le rimesse “ripristinatorie“, pertanto, come cercheremo di spiegare in seguito, non divengono “solutorie” e, quindi, ripetibili, per effetto della chiusura del conto, il cui saldo finale fornisce la misura massima dell’indebito accertabile.
La situazione, ovviamente, non dovrebbe mutare ove il cliente, vistosi richiedere il pagamento del saldo, anziché pagarlo e poi promuovere azione per ripeterlo, formuli domanda finalizzata all’accertamento della sua legittimità (cioè una domanda di “ri-quantificazione” nel senso sopra descritto): anche in tal caso, per logica coerenza con quanto affermato dalla Corte a proposito dell’ipotesi in cui lo abbia già pagato, l’attore dovrebbe poter beneficiare al massimo del suo azzeramento.
Il concetto, dunque, discente de plano dalla stessa linea argomentativa tracciata dalla Suprema Corte.
La sua applicazione, tuttavia, non preoccupa apparentemente i “contendenti” nelle cause per interessi e anatocismo, oggi assorbite, come detto, dalla diversa questione della rideterminazione del saldo finale del rapporto epurato dagli addebiti non legittimi.
Infatti, la sensazione diffusa è che non abbia senso apparente preoccuparsi dei limiti ripetitori di un versamento quando a esser posto in discussione non è il versamento stesso, ma l’addebito (di cui si invoca l’illegittimità) che vi ha dato causa.
Alla luce di quanto illustrato, tuttavia, tale interpretazione parrebbe in contrasto con il lucido e chiaro insegnamento della Corte, oltre che con le regole dell’Ordinamento e della stessa logica.
Sul piano delle regole, è principio a dir poco pacifico che tra la valutazione della validità di una obbligazione e la verifica della ripetibilità del relativo adempimento esiste una interdipendenza solo funzionale nel senso che, se è vero che l’invalidità della obbligazione può essere causa della ripetizione dell’adempimento (facendolo divenire indebito) è altrettanto indubbio che la ripetibilità di quest’ultimo soggiace a regole sue proprie e non discende automaticamente dall’accertamento della invalidità della obbligazione.
Una evidente applicazione di questo concetto è data dall’art. 1422 c.c. che scinde appunto la prescrizione dell’azione di nullità da quella relativa all’azione di ripetizione dell’indebito (l’imprescrittibilità della prima non condiziona la prescrizione dell’altra).
Del resto, come detto, è la stessa Suprema Corte, nella sentenza più volte richiamata, a porre in evidenza tale concetto: “Non può, pertanto, ipotizzarsi il decorso del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione se non da quando sia intervenuto un atto giuridico, definibile come pagamento, che l’attore pretende essere indebito, perché prima di quel momento non è configurabile alcun diritto alla ripetizione. Né tale conclusione muta nel caso in cui il pagamento debba dirsi indebito in conseguenza dell’accertata nullità del negozio giuridico in esecuzione al quale è stato effettuato, altra essendo la domanda volta a far dichiarare la nullità di un atto, che non si prescrive affatto, altra quella volta ad ottenere la condanna alla restituzione di una prestazione eseguita: sicché questa Corte ha già in passato chiarito che, con riferimento a quest’ultima domanda, il termine di prescrizione inizia a decorrere non dalla data della decisione che abbia accertato la nullità del titolo giustificativo del pagamento, ma da quella del pagamento stesso: Cass. 13 aprile 2005, n. 7651“.
La ripetizione dell’adempimento, pertanto, soggiace a regole sue proprie e non è condizionata se non in rapporto di causa/effetto dall’accertamento della nullità della obbligazione che le ha dato causa.
Scendendo sullo specifico campo del conto corrente, non si comprende allora, perché, se una rimessa bancaria è, per motivi giuridici suoi propri, non ripetibile (ad esempio perché non “solutoria“), lo debba divenire a seguito dell’accertamento della invalidità del relativo titolo giustificativo.
In tema di prescrizione, per esempio, la stessa Corte di Cassazione, con la sentenza 9/4/2003 n. 5575, ha stabilito espressamente: “in materia contrattuale, deve escludersi la permanenza di un interesse all’accertamento e alla declaratoria di nullità di un contratto quando risulti ormai prescritta l’azione di ripetizione della prestazione in base ad esso eseguita”.
Ciò dimostra intanto la giuridica fondatezza dell’eccezione di prescrizione che le banche formulano a fronte delle domande di ri-quantificazione avanzate dai clienti, tesa ad evitarne gli effetti in relazione agli addebiti illegittimi saldati con rimesse prescritte (salvo verificare, ma non è questa la sede, su chi gravi il relativo onere probatorio).
La portata dirompente, ma assolutamente logica, dell’enunciato principio, dovrebbe però cogliersi in rapporto all’eccezione, che quasi sempre gli attori fanno per aggirare l’eccezione di prescrizione della banca, della natura affidata del rapporto e della conseguente efficacia meramente “ripristinatoria” di tutte le rimesse, onerando della prova contraria la convenuta (di impossibile assolvimento nel caso in cui nessun affidamento fosse stato contrattualizzato).
Non è infrequente, in proposito, che il Giudice qualifichi assurdamente il rapporto come assistito da un “fido di fatto” giuridicamente opponibile e ridetermini il saldo sulla base delle risultanze della CTU fondate sulla natura “ripristinatoria” di tutte le rimesse intercorse sul conto.
Poiché, quasi sempre, da questa rideterminazione discende l’accertamento di un saldo creditore del conto spesso rilevantissimo, stante l’inoperatività della prescrizione a favore del cliente, vi è legittimamente da domandarsi se questo ragionamento non contrasti con i principi appena illustrati.
Abbiamo visto, infatti, che l’unico oggettivo parametro di contestazione nel caso di rimesse meramente “ripristinatorie” dovrebbe essere il saldo finale del conto risultante dalla contabilità della banca che, se pagato, fonderebbe un corrispondente diritto ripetitorio in capo al cliente (nella misura in cui, ovviamente, quel saldo fosse viziato da addebiti illegittimi).
Si è inoltre dimostrato che la situazione non muta nel caso in cui il cliente eviti di pagare e proponga anticipatamente una azione volta ad accertare la legittimità del saldo del conto.
E’ opportuno precisare che gli effetti sarebbero gli stessi nel caso in cui tale azione di accertamento fosse proposta in costanza di rapporto e, quindi, prima della sua chiusura; anche su questo specifico punto è intervenuta la Corte di Cassazione che, con la più volte richiamata sentenza 24418/2010, ha stabilito: “Sin dal momento dell’annotazione, avvedutosi dell’illegittimità dell’addebito in conto, il correntista potrà naturalmente agire per far dichiarare la nullità del titolo su cui quell’addebito si basa e, di conseguenza, per ottenere una rettifica in suo favore delle risultanze del conto stesso. E potrà farlo, se al conto accede un’apertura di credito, allo scopo di recuperare una maggior disponibilità di credito entro i limiti del fido concessogli. Ma non potrà agire per la ripetizione di un pagamento che, in quanto tale, da parte sua non ha ancora avuto luogo”.
Abbiamo altresì visto che un versamento, se irripetibile per ragioni giuridiche sue proprie, non diviene ripetibile per effetto dell’accertamento della invalidità del suo titolo giustificativo; se quindi, il versamento era “ripristinatorio” e, quindi, privo del carattere della “solutorietà“, nessuna utilità giuridica dovrebbe avere l’eventuale accertamento della sua non debenza, stante la sua innata e originaria irripetibilità.
Ciò perché appare priva di senso logico e giuridico una azione finalizzata all’accertamento del fondamento indebito di un versamento privo di natura “solutoria“.
Conseguentemente, sarebbe illogica una condanna della banca di retrocessione al cliente dell’eventuale saldo divenuto creditore a seguito del ricalcolo, poiché tale inversione di segno (da a +) del saldo sarebbe esclusivamente dovuta alle rimesse intercorse in costanza di fido nel corso del rapporto, che si “bilanciavano” con gli addebiti per interessi accertati come illegittimi e che diventerebbero “solutorie” solo ex post; il rischio massimo per la banca dovrebbe essere rappresentato esclusivamente dall’azzeramento integrale del saldo debitore del conto.
Giova, in proposito, il richiamo ai principi enucleati negli anni dalla giurisprudenza in materia di revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente.
Sappiamo in proposito che, se una rimessa non è revocabile perché intercorsa in pendenza di fido, non lo è mai, neppure all’esito della chiusura del rapporto; traslando il principio nella fattispecie in esame, sarà il saldo finale del conto a rappresentare la misura massima del beneficio fruibile dal cliente con l’azione di ri-quantificazione, con un duplice ordine di conseguenze:
1).se il conto non è stato ancora saldato alla data di notifica della citazione, la domanda di accertamento tendente alla ri-quantificazione non potrebbe spingersi oltre l’azzeramento di quel saldo;
2).se, viceversa, il conto è chiuso ed è stato già saldato prima della introduzione della causa, gli effetti restitutori della ri-quantificazione non potrebbero sopravanzare detto saldo.
Potrebbe essere obiettato, in proposito, che la valutazione della pertinenza delle rimesse va fatta solo all’esito della declaratoria di nullità con la conseguenza che, tolto il titolo che aveva dato causa alla rimessa – rendendola al tempo stesso non ripetibile perché “ripristinatoria” – questa va a comporre una frazione della disponibilità del correntista che, pertanto, all’esito dell’accertamento della nullità, potrà disporne nei limiti del saldo creditore ri-quantificato.
Questa obiezione non convince, se non altro perché urta contro il pacifico orientamento giurisprudenziale recepito, come visto, anche da Cass. 24418/2010 in base al quale la prescrizione dell’azione di ripetizione non decorre dalla sentenza accertativa della nullità ma dalla data di effettuazione della rimessa, se “solutoria” e, quindi, dal pagamento effettuato.
E’ quindi il momento dell’effettuazione della rimessa e del relativo contesto contabile quello da prendere a riferimento per verificare la ripetibilità della stessa.
Il ragionamento contrario, peraltro, dimostra proprio la correttezza logica della tesi fin qui illustrata.
Chi sostiene infatti la necessità della preventiva sottrazione dal conto degli addebiti illegittimi lo fa al fine di dimostrare che la prescrizione non è maturata, perché le rimesse sarebbero state solo formalmente “solutorie” ma effettivamente “ripristinatorie“: ma allora esse non sarebbero pagamenti e la loro conseguente “irripetibilità” impedirebbe alle stesse di andare a comporre il saldo finale creditore del conto ri-quantificato.
In pratica – e conclusivamente – tutto a nostro avviso si spiega sulla base del chiaro e semplice sillogismo sotteso alla sentenza 24418/2010 della Suprema Corte, confermato dalle sentenze successive, tra cui la n. 4518/2014:
a).non può darsi ripetizione di ciò che non è “solutorio“;
b).solo ciò che è “solutorio” si prescrive;
c).ciò che non si prescrive non è ripetibile.
Pertanto, traslando la regola sul piano del processo, non si potrà escludere la “solutorietà” delle rimesse per sostenere l’imprescrittibilità dell’azione e subito dopo riaffermarla per ottenerne la ripetizione, sia pure in modo indiretto attraverso la ri-quantificazione a credito (o a maggior credito) del saldo del conto.
Avv. Daniele Peccianti Avv. Fausto Magi
Testo del provvedimento
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Numero Protocolo Interno : 303/2014