Testo massima
L’atto di impugnazione della sentenza, nel caso di morte della parte vittoriosa, deve essere rivolto e notificato agli eredi, indipendentemente sia dal momento in cui il decesso è avvenuto, sia dalla eventuale ignoranza dell’evento, anche se incolpevole, da parte del soccombente; ove l’impugnazione sia proposta invece nei confronti del defunto, non vi è luogo all’applicazione dell’art.291cpc.
Così ha stabilito la Corte di Cassazione, con sentenza n.26279 del 16/12/2009, chiamata a pronunciarsi sull’annosa questione delle impugnazioni, e delle consequenziali notifiche, proposte in seguito alla morte di una delle parti del giudizio in giudizio intrapreso con citazione notificata nel lontano dicembre 1987.
Nel caso di specie, l’erede del de cuius, costituitosi nel giudizio di appello, aveva dedotto l’invalidità dell’atto di impugnazione in quanto la notifica del gravame era stata effettuata presso il procuratore che aveva rappresentato l’attore (ormai defunto) nel giudizio di primo grado e non già all’erede del defunto.
La Corte di appello, aderendo alle eccezioni formulate dalla erede del de cuius aveva dichiarato inammissibile l’appello.
Avverso tale decisione veniva proposto ricorso per cassazione dal soccombente, il quale deduceva la validità della notificazione del proprio atto di appello in quanto legittimamente effettuata all’attore (ormai defunto) presso il procuratore che lo aveva rappresentato nel giudizio di primo grado, non avendo prodotto alcun effetto il suo decesso, avvenuto nel periodo compreso tra la chiusura della discussione davanti al collegio e la pubblicazione della sentenza del Tribunale.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso evidenziando che, in caso di morte di una delle parti processuali, l’atto di appello deve essere notificato in ogni caso agli eredi essendo irrilevante l’eventuale ignoranza dell’evento morte da parte dell’impugnante, il quale neppure può essere ammesso alla rinnovazione della notificazione prevista ex art.291 cpc.
In particolare è stato sottolineato come aspetto rilevante che il soccombente, al quale il decesso della controparte non è stato comunicato mediante la notificazione della sentenza e lo ignora senza colpa, dispone dunque di almeno un anno per poter verificare se eventualmente la parte vittoriosa non sia più in vita: accertamento agevolmente effettuabile mediante la consultazione dei registri di stato civile, dato che la morte di ognuno viene annotata a margine del suo atto di nascita, come dispone il D.P.R.3 novembre 2000, n.396, art.81.
Nell’ambito della decisione è stato altresì rilevato che ratione temporis il giudizio nel quale è stata pronunciata la sentenza impugnata con il ricorso in cassazione è iniziato il 1 dicembre 1987 per cui non è stato possibile considerare né il nuovo testo dell’art.164 cpc, che consente di sanare retroattivamente le nullità della citazione mediante la sua rinnovazione, né l’art.153 cpc, che ammette la rimessione in termini della parte incorsa in decadenza per causa ad essa non imputabile, cristallizzando dunque il principio secondo il quale in caso di morte di una parte processuale, la notificazione dell’atto di appello dovrà essere effettuata agli eredi.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
SUL RICORSO 9616-2004 PROPOSTO DA:
C.C.; (CAIO)
RICORRENTE
contro
G.G. (MEVIO) (erede del de cuius);
CONTRORICORRENTI
avverso la sentenza n. 268/2003 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 04/03/2003;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza depositata in cancelleria il 13 maggio 1999 il Tribunale di Bari, adito da G.A.(TIZIO) nei confronti di C.C. (CAIO), accolse la domanda proposta dall’attore, intesa ad ottenere la dichiarazione di nullità del testamento pubblico con cui suo fratello G.F.(SEMPRONIO), deceduto il X.X.X, aveva nominato proprio erede universale il convenuto.
Adita dal soccombente, la Corte d’appello di Bari, con sentenza depositata in cancelleria il 4 marzo 2003, ha dichiarato inammissibile il gravame, in accoglimento dell’eccezione formulata in tal senso da G.G., (MEVIO) (erede del de cuius);) la quale si era costituita nel giudizio di secondo grado nell’udienza di precisazione delle conclusioni tenuta il 19 ottobre 2000, quale erede di G.A. (TIZIO) deceduto il X.X.X.
La decisione si basa sul rilievo che l’atto di impugnazione, nonostante la morte dell’originario attore, era stato a costui notificato presso il suo procuratore, invece che all’erede del defunto.
C.C.(CAIO) ha proposto ricorso per cassazione, in base a un motivo.
G.G. (MEVIO) (erede del de cuius); si è costituita con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il motivo addotto a sostegno del ricorso C.C. (CAIO) deduce che la notificazione del proprio atto di appello avrebbe dovuto essere ritenuta valida, poiché legittimamente, in applicazione dell’art.300 cpc, era stata rivolta ad G.A. (MEVIO) (erede del de cuius); presso il procuratore che lo aveva rappresentato nel giudizio di primo grado, non avendo prodotto alcun effetto il suo decesso, avvenuto nel periodo compreso tra la chiusura della discussione davanti al collegio e la pubblicazione della sentenza del Tribunale.
Sul tema delle impugnazioni proposte dopo la morte di una parte sono emersi nella giurisprudenza di legittimità contrasti, divergenze e oscillazioni, che non hanno trovato una stabile e definitiva composizione neppure in seguito ai vari interventi delle sezioni unite, che più volte sono state – e perciò di nuovo vengono ora – chiamate a pronunciarsi sulla questione.
Le prime loro decisioni sono state adottate con le sentenze 21 febbraio 1984, n. 1228, 1229 e 1230, con le quali si è ritenuto che la materia è disciplinata da norme non rispondenti a un criterio unitario e diverse secondo il momento in cui l’evento si verifica.
Se questo è precedente alla chiusura della discussione e non è stato dichiarato o notificato, l’altra parte, anche se ne ha avuto altrimenti notizia, può rivolgere l’atto di impugnazione al defunto e notificarlo presso il suo procuratore, poiché la posizione di colui che è venuto a mancare resta stabilizzata come quella di persona ancora vivente per tutto l’ulteriore corso del giudizio anche nei gradi successivi, nei quali il mandato conserva ultrattivamente efficacia, per il disposto dell’art.300 cpc; lo stesso procuratore è dunque altresì abilitato sia a ricevere la notificazione della sentenza sia a impugnarla, in nome del defunto, se il mandato non era limitato a quel grado.
Quando invece la morte è posteriore alla chiusura della discussione, la notificazione della sentenza, a norma dell’art.286 cpc, può essere rivolta indifferentemente alla parte deceduta presso il suo procuratore, oppure agli eredi.
Infine, se l’evento si avvera nella pendenza del termine per l’impugnazione, influisce sulla sua decorrenza, secondo le previsioni dell’art.328cpc:
nel caso in cui la notificazione della sentenza sia già avvenuta, deve essere rinnovata agli eredi e solo da allora prende inizio il termine “breve” stabilito dall’art.325cpc;
altrimenti, si applica quello “lungo” di cui all’art.327 cpc, che tuttavia è prorogato di sei mesi, ove la morte o la perdita della capacità di stare in giudizio sia avvenuta più di sei mesi dopo la pubblicazione della sentenza.
Investite ancora della questione, le sezioni unite l’hanno affrontata con la sentenza 19 dicembre 1996 n.11394.
Con riferimento a una fattispecie di morte successiva alla pubblicazione della sentenza di primo grado, ma in base ad argomenti estensibili anche all’ipotesi di decesso anteriore, si è ritenuto che l’atto di appello, a norma dell’art.328 cpc, deve essere notificato in ogni caso agli eredi, essendo irrilevante l’eventuale ignoranza dell’evento da parte dell’impugnante, il quale neppure può essere ammesso alla rinnovazione della notificazione prevista dall’art.291 cpc, sicché l’unica sanatoria consentita è quella che deriva dalla costituzione in giudizio dei successori del defunto, purché effettuata prima della scadenza del termine di un anno dal deposito della sentenza in cancelleria.
Della problematica di cui si tratta le sezioni unite si sono di nuovo occupate con la sentenza 28 luglio 2005 n.15783, per dirimere il contrasto di giurisprudenza che si era manifestato a proposito della particolare ipotesi del raggiungimento della maggiore età del soggetto che in precedenza era stato in giudizio rappresentato dagli esercenti la potestà dei genitori.
Allargando lo sguardo alla generale prospettiva dell’incidenza di tutti gli eventi menzionati dall’art.300 cpc, si è deciso che il momento in cui sono sopravvenuti è ininfluente, poiché l’art.328 cpc impone di notificare comunque l’atto di impugnazione alla parte effettiva del rapporto processuale (nel caso: al maggiorenne), anche se la morte, la perdita della capacità di stare in giudizio o la cessazione della rappresentanza, non dichiarate o notificate dal procuratore, che unicamente è abilitato a farlo, sono avvenute prima della pubblicazione della sentenza, né vi è luogo all’applicazione dell’art.291cpc.
Tuttavia, se l’evento è stato senza colpa ignorato dall’impugnante, la notificazione rivolta al defunto o all’incapace ed effettuata presso il suo procuratore deve essere reputata valida.
Dai principi di volta in volta enunciati con le sentenze citate, peraltro tra sotto vari profili discordanti, si sono poi frequentemente discostate le sezioni semplici, le quali talvolta hanno anche adottato soluzioni intermedie, come quella secondo cui la nullità della notificazione al defunto può essere sanata con effetto retroattivo mediante la sua rinnovazione agli eredi, disposta a norma dell’art.291 cpc.
In tal senso si sono orientate anche le sezioni unite, con l’ordinanza 15 luglio 2008 n. 19343, con riguardo al ricorso per cassazione.
Ritiene il collegio che debba essere seguito l’indirizzo segnato dalla sentenza n. 11394/96.
Occorre in primo luogo prendere atto che la disciplina dell’impugnazione della sentenza, nel caso di morte (o di perdita o acquisto della capacità di stare in giudizio) della parte, non è direttamente contenuta in alcuna delle norme nelle quali di volta in volta è stata ravvisata, con i precedenti prima richiamati.
L’art.300 cpc attribuisce esclusivamente al procuratore della parte stessa la facoltà discrezionale di dichiarare in udienza o di notificare alle altre l’evento, fino alla chiusura della discussione (il nuovo testo dell’art.275 cpc e art.281-quinquies cpc, prevedono la possibilità che essa non abbia luogo, sicché quel limite temporale deve intendersi in tal caso sostituito dalla scadenza del termine per il deposito delle memorie di replica) e dispone che in mancanza l’evento stesso “non produce effetto“, mentre altrimenti da quel momento “il processo è interrotto”.
L'”effetto” che non viene prodotto è dunque quello della interruzione, con la conseguenza che il processo, salva la possibilità di costituzione volontaria di coloro cui spetta proseguirlo o di loro citazione in riassunzione, continua a svolgersi tra le parti originarie, come se fosse ancora in vita il defunto, il quale continua a essere rappresentato in giudizio dal suo procuratore e nei confronti del quale la sentenza viene pronunciata.
Ma nessuna previsione della norma consente di estendere la “stabilizzazione” della posizione della parte e la “ultrattività” del mandato oltre il grado di giudizio nel quale l’evento si è verificato, né in particolare di ritenerle operanti in relazione alle impugnazioni, che nel codice di procedura civile hanno la loro regolamentazione in un diverso titolo del libro dedicato al processo di cognizione.
L’art.286 cpc attiene alla notificazione non dell’atto di impugnazione, ma della sentenza: attività prodromica all’instaurazione dell’ulteriore grado del giudizio, ma ad esso ancora esterna.
Per tale notificazione dispone che “si può fare“, se la morte della parte è avvenuta dopo la chiusura della discussione, anche con le modalità stabilite dall’art.303cpc, ossia collettivamente e impersonalmente agli eredi, nell’ultimo domicilio del defunto.
Peraltro, come possibilità alternativa a quella consentita, deve intendersi la notificazione non già alla parte deceduta, bensì sempre agli eredi, ma singolarmente e personalmente.
Dalla norma non si può dunque desumere alcun argomento, a suffragio della tesi di una “ultrattività” del mandato, che abbia efficacia temporale illimitata, anche nei gradi di giudizio successivi.
Riguardano invece le impugnazioni, con riferimento al caso di morte della parte, l’art.328 cpc e art.330 cpc, comma 2.
Il primo detta una particolare regolamentazione dei termini per la proposizione dell’impugnazione, ma nulla dice a proposito di chi debba esserne il destinatario.
Il secondo stabilisce che l’atto, se il decesso è posteriore alla notificazione della sentenza, “può” essere notificato collettivamente e impersonalmente agli eredi (anche qui evidentemente ponendo l’alternativa implicita anche nell’art. 286 cpc), nel nuovo domicilio eventualmente eletto, o altrimenti in quello indicato per il giudizio o presso il procuratore costituito, il cui ruolo è dunque limitato a quello eventuale di semplice domiciliatario dei successori del defunto.
Quest’ultima norma non solo non esclude, ma anzi presuppone che l’atto di impugnazione debba essere in ogni caso indirizzato agli eredi e a loro notificato, indipendentemente dal momento nel quale il decesso della parte è avvenuto: non è ravvisabile alcuna plausibile ragione, per la quale la notificazione della sentenza debba segnare un discrimine temporale per l’applicazione di due discipline diverse.
Che l’impugnazione debba essere proposta nei confronti degli eredi, in effetti, discende dal basilare principio già enunciato dall’art.101 cpc e ora solennemente ribadito dal nuovo testo dell’art.111 Cost., secondo cui “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti“: principio la cui essenzialità è stata costantemente affermata dalla Corte costituzionale e da ultimo ribadita con la sentenza 29 ottobre 2009 n. 276.
Esso implica e contiene anche quello di “giusta parte“, quale non può evidentemente essere considerata la persona non più in vita, nel cui universum ius sono subentrati i successori.
L’eccezionale deroga introdotta dall’art.300 cpc, che consente la prosecuzione del giudizio nei confronti della parte deceduta, se il suo procuratore non dichiara o notifica l’evento, non può quindi essere ritenuta operante indefinitamente, anche nell’eventuale grado successivo del giudizio, in cui si da luogo a un nuovo rapporto processuale ulteriore e distinto, anche se collegato a quello ormai esaurito con la pronuncia della sentenza.
Il difetto assoluto della qualità di “giusta parte” nel defunto comporta altresì che all’invalidità derivante dall’instaurazione nei suoi confronti del giudizio di impugnazione non può essere posto rimedio mediante lo strumento della rinnovazione, apprestato dall’art.291 cpc.
Non si verte infatti nell’ipotesi, cui la norma si riferisce, di “un vizio che importi nullità nella notificazione della citazione“, ma di un errore incidente sulla vocatio in ius, in quanto rivolta verso un soggetto diverso da quello che avrebbe dovuto esserne il destinatario.
A queste stesse conclusioni erano pervenute le citate sentenze n. 11394/96 e 15783/05.
Con la seconda, tuttavia, si è opinato doversi introdurre un’eccezione alla regola della necessità di impugnare la sentenza nei confronti degli eredi del defunto, se il decesso è stato ignorato senza sua colpa dall’altra parte (ipotesi che in quel giudizio si è esclusa, stante la facile conoscibilità, con l’uso dell’ordinaria diligenza, dell’evento – il raggiungimento della maggiore età – di cui allora si trattava).
In tal caso una “interpretazione costituzionalmente orientata” imporrebbe di considerare senz’altro valido l’atto introduttivo del nuovo grado di giudizio, anche se indirizzato al defunto e notificato al suo procuratore, poiché altrimenti il diritto di azione dell’impugnante resterebbe ingiustificatamente sacrificato.
La tesi non è condivisibile.
Le norme in tema di impugnazione fanno tutte dipendere la validità dei relativi atti da presupposti prettamente oggettivi, sicché non lasciano spazio alcuno per attribuire rilievo a condizioni interne di “buona fede“.
Ma va soprattutto osservato che l’interpretazione proposta, per tutelare una delle parti, correlativamente pregiudicherebbe l’altra: a rimanere compromesso sarebbe il diritto di difesa degli eredi, esposti al concreto rischio di dover subire gli effetti di una sentenza pronunciata all’esito di un processo del quale non avevano avuto notizia, perché promosso nei confronti del loro dante causa.
Con la sentenza n.11394/96 era stata invece esclusa l’idoneità dell’ignoranza dell’evento, anche se incolpevole, ad evitare l’inammissibilità dell’impugnazione proposta nei confronti del defunto, non sanabile se non in seguito alla spontanea costituzione in giudizio degli eredi anteriormente alla scadenza del termine di un anno dalla pubblicazione della sentenza. Si era tuttavia ipotizzato che potessero derivarne dubbi di legittimità costituzionale (ritenuti peraltro irrilevanti in quel giudizio, risultando che l’impugnante era a conoscenza del decesso dell’altra parte).
La questione è stata già sottoposta alla Corte costituzionale, che con l’ordinanza 4 febbraio 2000 n. 27 l’ha dichiarata manifestamente inammissibile, osservando che “appare evidente come non sia possibile nella specie operare la reductio ad legitimitatem delle norme impugnate in termini univoci e costituzionalmente obbligati, essendo astrattamente configurabili più itinera – la cui scelta spetta al legislatore -, tutti ugualmente idonei a porre rimedio alla dedotta incostituzionalità”; ha inoltre rilevato che “è compito precipuo del giudice rimettente adottare un’interpretazione della norma che sia conforme a Costituzione” e che nella giurisprudenza “si rinvengono numerosi precedenti nei quali si è ritenuta pienamente valida l’impugnazione proposta nei confronti della parte non più esistente, allorché la controparte abbia senza colpa ignorato l’evento, ovvero nei quali si è fatto ricorso all’art.291 cpc”.
La praticabilità di queste due strade va però esclusa, come prima si è rilevato.
Ma comunque, con riguardo all’ipotesi del decesso della parte, la questione appare manifestamente infondata.
La morte è evento ineluttabile, sicché l’eventualità che si verifichi, nel corso del processo (senza essere dichiarato o notificato dal procuratore) o dopo la pubblicazione della sentenza, non è affatto remota.
E per queste ipotesi l’art.328 cpc contiene regole che danno luogo a un’adeguata tutela del diritto di impugnazione della parte non colpita dall’evento:
– a norma del comma 1, la notificazione della sentenza, effettuata dalla parte vittoriosa quando era ancora in vita, diviene inefficace, se la morte sopravviene durante la pendenza del termine “breve” di impugnazione, il quale non inizia a decorrere di nuovo se non da quando il soccombente ha avuto notizia del decesso dell’altra parte mediante la prescritta rinnovazione della notificazione della sentenza ad opera degli eredi, ai quali poi l’atto di impugnazione può essere notificato collettivamente e impersonalmente, per il disposto dell’art.330cpc;
– a norma del comma 3, se la notificazione della sentenza o la sua rinnovazione non sono avvenute, il termine “lungo” è prorogato di sei mesi, se la morte si è verificata dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza.
Il soccombente, al quale il decesso non è stato comunicato mediante la notificazione della sentenza e lo ignora senza colpa, dispone dunque di almeno un anno, per poter verificare se eventualmente la parte vittoriosa non sia più in vita: accertamento agevolmente effettuabile mediante la consultazione dei registri di stato civile, dato che la morte di ognuno viene annotata a margine del suo atto di nascita, come dispone il D.P.R.3novembre2000, n.396,art.81.
L’ampiezza del suddetto lasso di tempo è tale, da non rendere eccessivamente difficoltoso – tanto da menomare sensibilmente il diritto di azione dell’impugnante – l’adempimento del compito che il principio del contraddittorio gli impone, secondo l’insegnamento, già richiamato nelle sentenze n.11394/96 e 15783/05, di uno dei fondatori della modera scienza italiana del diritto processuale civile: le parti, quando è definito un grado e deve aprirsene un altro, “tornano nella situazione in cui si trova l’attore prima di proporre la domanda, cioè di dover conoscere la condizione di colui col quale intende contrarre il rapporto processuale“.
Il giudizio nel quale è stata pronunciata la sentenza impugnata con il ricorso in esame è iniziato il 1 dicembre 1987.
Non possono quindi venire in considerazione né il nuovo testo dell’art.164 cpc, come modificato dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, art. 9 (che consente di sanare con effetto retroattivo le nullità della citazione, mediante la sua rinnovazione), né l’art.153 cpc, comma 2 inserito dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46 (che ammette la rimessione in termini della parte incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile).
Esula dai limiti di questo giudizio verificare se le due norme, come per la prima è stato ipotizzato con le sentenze n. 113 94/96 e 15783/05, si attaglino, nei processi in cui sono applicabili, al caso di impugnazione proposta nei confronti di una parte defunta.
Il principio da enunciare è dunque: “L’atto di impugnazione della sentenza, nel caso di morte della parte vittoriosa, deve essere rivolto e notificato agli eredi, indipendentemente sia dal momento in cui il decesso è avvenuto, sia dalla eventuale ignoranza dell’evento, anche se incolpevole, da parte del soccombente; ove l’impugnazione sia proposta invece nei confronti del defunto, non vi è luogo all’applicazione dell’art. 291 cpc“.
Poiché la sentenza impugnata è coerente con questo principio, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione vengono compensate tra le parti per giusti motivi, ravvisabili in quello che efficacemente è stato definito, nella sentenza n. 15783/05, il “pendolarismo” che ha caratterizzato la giurisprudenza sulla questione di cui si tratta, con “una sterminata produzione di pronunce orientate per l’una o per
l’altra soluzione“.
PQM
La Corte rigetta il ricorso; compensa tra le parti le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 9 novembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2009
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