La questione relativa alla corretta individuazione della nozione di specificità dei motivi di appello, prevista dal novellato art. 342 c.p.c. a pena di inammissibilità, deve essere rimessa al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezione Unite.
Le Sezioni Unite dovranno chiarire quale sia l’ambito della nozione di specificità dei motivi di appello ed in particolare se essa imponga all’appellante un onere di specificazione di un diverso contenuto della sentenza di primo grado, se non perfino un progetto alternativo di sentenza o di motivazione, o non piuttosto soltanto una compiuta contestazione di bene identificati capi della sentenza impugnata e dei passaggi argomentativi, in fatto o in diritto, che la sorreggono, con la prospettazione chiara ed univoca della diversa decisione che ne conseguirebbe sulla base di ben evidenziate ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice.
Questi i principi espressi dalla Corte di Cassazione, sez. terza, Pres. Travaglino – Rel. De Stefano, con l’ordinanza n. 8845 del 05.04.2017.
La Banca ricorreva per Cassazione nei confronti della sentenza con cui la Corte di Appello di Torino aveva dichiarato inammissibile, per difetto di specificità dei motivi, il suo appello avverso la sentenza con cui il Giudice di prime cure aveva accolto l’opposizione di un cliente al decreto ingiuntivo emesso, nei suoi confronti, per il pagamento dei canoni scaduti e da scadere di un contratto di locazione finanziaria per l’acquisto di una unità da diporto, collegato alla compravendita del bene intercorsa tra la finanziatrice e la società produttrice, alla quale, tuttavia, non era seguito il pagamento del quantum dovuto da parte del cliente, che aveva contestato il ritardo nella consegna e gravi vizi nella cosa consegnata, ma il pagamento alla venditrice del prezzo, cui la Banca era stata costretta nel corso di una precedente azione intentata da quest’ultima nei suoi confronti.
La ricorrente denunziava, con un unitario motivo, “nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione dell’art. 342 c.p.c.”, contestando la qualificazione di non specificità dei motivi dell’appello da essa proposto ed in base alla quale la Corte di merito aveva dichiarato inammissibile il suo gravame.
La Corte di Appello aveva ritenuto non attinte da specifiche censure le questioni relative:
- a) all’applicabilità al contratto stipulato inter partes del codice del consumo,
- b) alla ricostruzione analitica dello specifico contenuto contrattuale,
- c) all’individuazione della domanda di dichiarazione di inefficacia del contratto e del potere di rilievo d’ufficio di mancato avveramento della condizione,
- d) alla valutazione degli eventuali effetti del pagamento effettuato dalla Banca alla società produttrice, per effetto del decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Forlì,
- e) al rapporto tra le commissioni d’ordine effettuate, il rapporto del contratto di leasing e il precedente contratto intercorso tra le parti, f) all’applicazione dell’art. 1460 c.c., o, comunque, della valutazione di proporzione, giustificazione e adeguatezza del rifiuto opposto in buona fede dal cliente,
- g) alle valutazioni di difformità espresse dal CTU e della loro rilevanza in ordine alla configurabilità dell’aliud pro alio.
La resistente proponeva controricorso, illustrando le ragioni con memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c. ed instando per la declaratoria di improcedibilità per omesso deposito della copia notificata della sentenza gravata.
Il Collegio osservava che il ricorso aveva sollevato due questioni di massima di particolare importanza in materia processuale, da affrontare in via preliminare: da una parte, se l’improcedibilità comminata dall’art. 369 c.p.c. per il caso di mancato deposito della copia notificata della sentenza gravata di ricorso per Cassazione da parte del ricorrente, una volta che della notifica della medesima sia stata data menzione nel ricorso stesso, dovesse essere pronunciata anche nel caso in cui una copia notificata completa della relata si rinvenga nella produzione del controricorrente o comunque negli atti di causa; dall’altra, quale sia l’ambito della nozione di specificità dei motivi di appello, ora prevista a pena di inammissibilità dal testo dell’art. 342 c.p.c. ed, in particolare, se essa imponga all’appellante un onere di specificazione di un diverso contenuto della sentenza di primo grado, se non perfino un progetto alternativo di sentenza o di motivazione, o non piuttosto soltanto una compiuta contestazione di bene identificati capi della sentenza impugnata e dei passaggi argomentativi, in fatto o in diritto, che la sorreggono, con la prospettazione chiara ed univoca della diversa decisione che ne conseguirebbe sulla base di bene evidenziate ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice.
Quanto alla prima questione, la ricorrente aveva addotto la circostanza che la gravata sentenza le era stata notificata, con l’effetto di attivare, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il suo indefettibile onere di depositare la copia notificata della sentenza e non la mera copia conforme, cioè non notificata, della medesima, nè potendo acquisirsi aliunde la prova della data della notifica.
La Suprema Corte, invero, osservava che la presenza nel fascicolo della ricorrente della sola copia conforme della sentenza gravata, ma non anche la copia notificata, cioè munita della relata di notifica (resa indispensabile dalla deduzione dell’avvenuta notificazione) avrebbe dovuto comportare sic et simpliciter la declaratoria di improcedibilità del ricorso, visto che la notifica del ricorso era avvenuta una volta spirati i termini previsti dalla legge.
Tuttavia, proseguiva la Corte, la peculiarità della fattispecie risiedeva, non tanto nel fatto che pure il cliente non aveva contestato la data della notificazione della sentenza, identificandola nel suo controricorso, quanto nel fatto che proprio nella sua produzione si rinveniva copia notificata della sentenza di secondo grado, dalla quale risultava evidente la tempestività della notifica, ovvero la presenza del documento imposto a pena di improcedibilità, consistente nella copia notificata della sentenza impugnata.
Tanto premesso, il Collegio, richiamato il principio di effettività della tutela giurisdizionale, nell’ottica di un’interpretazione delle norme processuali tale da non ridurre le formalità ad esasperati ed inutili formalismi, idonei solo a precludere l’accesso ad una decisione nel merito, in violazione di principi di rango costituzionale e di rango sovranazionale, rilevava che la condizione necessaria per la legittimità di ogni requisito formale di limitazione dell’accesso al giudice e soprattutto a quello di impugnazione di legittimità è che l’interpretazione che se ne faccia in concreto non leda la sostanza stessa del diritto del ricorrente ad accedere alla Corte e che non sia viziata da un formalismo eccessivo; in accordo con la giurisprudenza della Corte Europea, dunque, il formalismo nel giudizio di legittimità è autorizzato in generale e nella sua fase introduttiva in particolare, purchè sia superato il consueto vaglio di proporzionalità nel bilanciamento tra esigenza di certezza del diritto (e buona amministrazione della giustizia) e diritto del singolo al giusto processo, ovvero quando il singolo requisito formale:
- a) è funzionale al ruolo nomofilattico della Corte di Cassazione;
- b) non è interpretato in senso eccessivamente formalistico;
- c) è imposto in modo chiaro e prevedibile;
- d) non impone un onere eccessivo per chi deve formare il ricorso, tenuto conto della particolare professionalità attesa dal difensore abilitato alla difesa della parte in Cassazione.
Orbene, il Collegio osservava che il requisito procedurale del deposito della copia notificata della sentenza da parte del ricorrente sarebbe interpretato in modo eccessivamente formalistico ove l’improcedibilità debba essere necessariamente comminata quale sanzione per difetto dell’unica parte onerata pure effettivamente inadempiente, anche quando l’esigenza pubblicistica sottesa, la verifica della tempestività del ricorso in rapporto al decorso del termine breve attivato dal fatto eventuale della notifica della sentenza gravata, sia peraltro soddisfatta in base alla documentazione in modo conclamato presente già agli atti del fascicolo di ufficio, ivi compreso quello della controparte, pur mancando in quello della detta unica parte onerata.
Un’interpretazione così rigorosa della sanzione di improcedibilità, ad avviso degli emellini, sarebbe da ritenersi manifestamente sproporzionata rispetto al fine perseguito dalla norma e contraria quindi ai principi del giusto processo di matrice costituzionale e convenzionale, tanto da auspicarsi una rimeditazione espressa della relativa conclusione in vista di una possibile esenzione esplicita dalla sanzione di improcedibilità nel caso disegnato.
La seconda questione affrontata dalla Corte, riguardava l’esatta interpretazione da attribuire ad un rilevante profilo della recente riforma del giudizio di appello (introdotta con il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134) ed in particolare alla nozione di specificità dei motivi, richiesta ora a pena di inammissibilità del gravame dal vigente testo degli artt. 342, per il rito ordinario e, per il rito del lavoro, art. 434 cod. proc. civ., applicabile a tutti gli appelli proposti successivamente al giorno 11.09.12; visto che entrambe le norme esigono che la motivazione dell’appello contenga, a pena di inammissibilità:
1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado;
2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.
Come ribadito dal Giudice di legittimità, l’interpretazione della norma contenuta nell’art. 342 c.p.c. non era stata finora costante da parte della Corte, la quale, ha infatti, da un lato, escluso che il nuovo testo normativo richieda che le deduzioni della parte appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto, ma impone al ricorrente in appello di individuare in modo chiaro ed esauriente il quantum appellatum, circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata nonchè ai passaggi argomentativi che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, sì da esplicitare l’idoneità di tali ragioni a determinare le modifiche della decisione censurata; dall’altro lato, ha però richiesto all’appellante un grado di specificità ben più accentuato rispetto al passato, imponendo la norma novellata un ben preciso ed articolato onere processuale, compendiabile nella necessità che l’atto di gravame, per sottrarsi alla sanzione di inammissibilità, offra una ragionata e diversa soluzione della controversia rispetto a quella adottata dal primo giudice.
In questo quadro generale, la giurisprudenza di merito e la dottrina, dal canto loro, hanno assunto posizioni assai più differenziate, partendo da un’interpretazione sostanzialmente riduttiva (in base alla quale nulla di realmente diverso si avrebbe rispetto al passato in ordine alla struttura stessa dell’atto di proposizione dell’appello, il cui contenuto minimo sarebbe solo più idoneamente descritto, rilevando la novella soprattutto quanto alla sanzione, che è ora appunto di inammissibilità, quindi radicalmente insanabile e non più di nullità) per spingersi fino a configurare la necessità di strutturare l’atto di appello come un vero e proprio progetto alternativo di sentenza, con tanto di motivazione reputata corretta, o, comunque, a disegnare in capo all’appellante oneri di forma di varia ampiezza e portata, soprattutto di variamente maggiore rigore rispetto alla previgente normativa.
In conclusione, alla luce del descritto contrasto giurisprudenziale, la Cassazione, poichè i requisiti di forma, e quindi anche quelli previsti a pena di inammissibilità dal novellato art. 342 (o dal novellato art. 434) c.p.c., devono rispondere, per superare il vaglio di costituzionalità e di proporzionalità convenzionale, quanto alla sanzione di improcedibilità, a ben precise condizioni, per le ricadute della questione sulla struttura stessa del grado di appello e quindi sull’ambito di effettività della tutela del diritto nel dispiegamento dei successivi gradi di giudizio, investiva della questione le Sezioni Unite, al fine di ottenere una chiara definizione dei contorni dei due requisiti di specificità, analiticamente descritti dagli artt. 342 e 434 c.p.c., ovvero anche solo, in particolare, stabilire se, a quel fine, sia richiesto all’appellante di formulare l’appello con una determinata forma o di ricalcare la gravata decisione ma con un diverso contenuto, ovvero se sia sufficiente un’analitica individuazione, in modo chiaro ed esauriente, del quantum appellatum, circoscrivendo il giudizio di gravame con riferimento agli specifici capi della sentenza impugnata, nonchè ai passaggi argomentativi in punto di fatto o di diritto che la sorreggono e formulando, sotto il profilo qualitativo, le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo giudice, in modo da rendere chiara, in modo esplicito o almeno chiaramente evincibile, l’idoneità di tali ragioni a determinare le singole invocate modifiche della decisione censurata.
Per ulteriori approfondimenti in materia, si rinvia ai seguenti contributi pubblicati in Rivista:
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