La disposizione di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c., che attribuisce al giudice, anche d’ufficio, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91 c.p.c., il potere di condanna della parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, risponde ad una funzione sanzionatoria delle condotte di quanti, abusando del proprio diritto di azione e di difesa, si servano dello strumento processuale a fini dilatori, contribuendo ad aggravare il volume del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti.
La condanna di natura sanzionatoria ed officiosa prevista, nei confronti di parte soccombente, al pagamento della somma di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c., per l‘offesa arrecata alla giurisdizione che deve assicurare e garantire la ragionevole durata di un giusto processo è legittimamente disposta in favore della controparte e non dello Stato, per la necessità di assicurare una maggiore effettività ed una più incisiva efficacia deterrente, allo strumento deflattivo, sul presupposto che la parte vittoriosa possa, verosimilmente, provvedere alla riscossione della somma, che ne forma oggetto, in tempi e con oneri inferiori rispetto a quelli che graverebbero su un soggetto pubblico.
Nel caso considerato, il Tribunale ordinario di Firenze sollevava, innanzi alla Corte Costituzionale, questione di legittimità costituzionale dell’art. 96, comma terzo, c.p.c., per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione nella parte in cui esso dispone che “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento di una somma determinata, a favore della controparte”, anziché a favore dell’Erario.
Secondo il rimettente, il censurato art. 96, comma terzo, c.p.c., avrebbe introdotto nel processo civile una fattispecie a carattere sanzionatorio, che si discosterebbe dalla struttura tipica dell’illecito civile, propria della responsabilità aggravata di cui ai primi due commi, confluendo, viceversa, in quella del tutto diversa delle cd. condanne afflittive, avendo come scopo precipuo quello di scoraggiare l’abuso dello strumento processuale, per cui, apparirebbe ragionevole che dalla condanna derivante dalla lesione dell’interesse dello Stato al giusto processo, che danneggia tutti, si avvantaggiasse lo stesso Stato.
Intervenuto in giudizio, il Presidente del Consiglio dei Ministri, per il tramite dell’Avvocatura generale dello Stato, eccepiva in via preliminare l’inammissibilità della questione per carente specificazione delle censure sollevate ed, in subordine, ne contestava la fondatezza.
Ad avviso della difesa dello Stato, il fatto che il pagamento della somma di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c., non sia disposto a favore dell’Erario non costituirebbe una irragionevole estensione a favore della parte privata di una misura ristoratoria posta a presidio del solo interesse pubblico, quanto piuttosto una delle possibili scelte del legislatore, non costituzionalmente vincolato nella sua discrezionalità, nell’individuare la parte beneficiaria di una misura che sanziona un comportamento processuale abusivo.
La Corte Costituzionale, preliminarmente, rigettava l’eccezione di inammissibilità della questione formulata dalla difesa dello Stato, attesa la corretta specificazione da parte dell’ordinanza di rimessione del vulnus asseritamente arrecato dalla disposizione censurata.
Nel merito, dichiarava infondata la questione.
In primo luogo, la Corte osservava che, la necessità di introduzione della disciplina di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c. era stata determinata dalla constatazione che l’istituto della responsabilità aggravata, pur rappresentando in astratto un serio deterrente nei confronti delle liti temerarie e, quindi, uno strumento efficace di deflazione del contenzioso, nella prassi applicativa risultava scarsamente utilizzato a causa della oggettiva difficoltà della parte vittoriosa di provare il danno, segnatamente in ordine al quantum, derivante dall’illecito processuale ed, in particolare, dall’esigenza di evitare l’instaurazione di giudizi meramente dilatori, consentendo al giudice di liquidare a carico della parte soccombente, anche d’ufficio, una somma ulteriore rispetto alle spese del giudizio.
In secondo luogo, ricordava che dottrina e giurisprudenza di merito si erano già ampiamente divise sulla configurazione della natura della condanna di parte soccombente ex art. 96, comma 3, c.p.c. e, segnatamente, sulla riconducibilità, o meno, della fattispecie incriminata allo schema della responsabilità aquiliana di cui all’art. 2043 c.c..
In proposito, il Giudice costituzionale rilevava che il riferimento terminologico adottato dalla disposizione contestata al “pagamento di una somma”, anziché al “risarcimento dei danni”, il collegamento al contenuto della pronuncia sulle spese di cui all’art. 91 e l’elemento della “adottabilità d’ufficio” della misura, era tale da far propendere per la funzione sanzionatoria della condanna di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c..
La Corte, rilevato infine, che la motivazione, che aveva spinto i redattori della novella ad introdurre la nuova disposizione legislativa, era plausibilmente ricollegabile all’obiettivo di assicurare una maggiore effettività, ed una più incisiva efficacia deterrente, allo strumento deflattivo apprestato da quella condanna, sul presupposto che la parte vittoriosa poteva, verosimilmente, provvedere alla riscossione della somma, che ne forma oggetto, in tempi e con oneri inferiori rispetto a quelli che sarebbero gravati su di un soggetto pubblico, osservava che la novella del 2009, rifletteva, in realtà, una delle possibili scelte del legislatore, non costituzionalmente vincolato nella sua discrezionalità, nell’individuare la parte beneficiaria della misura sanzionatrice di un comportamento processuale abusivo, come tale, pienamente legittima.
Per tali ragioni, la Corte dichiarava non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 96, comma 3, c.p.c., sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 11 della Costituzione.
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